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Sta fuori!

Nel suo “Narcocapitalismo”, de Sutter propone una politica dell’eccitazione collettiva contro l’anestesia generalizzata imposta dai farmaci e dalla droga. Ma l’elogio dell’eccitazione non porta con sé la pratica del desiderio cui pure sembra riferirsi

Sì, proprio ora ci voleva un testo sul rapporto intimo tra capitalismo e cocaina. Un saggio – assai brillante, tra l’altro – capace di affermare ciò che quotidianamente potenti e poveri, per motivi diversi, negano: «il solo capitalismo è il capitalismo della cocaina». Enunciato che chiarisce perché la cocaina, nonostante le politiche di sicurezza che impongono esercito e forze dell’ordine in ogni città, sia merce diffusa quanto il caffè, costituisca un ambiente sensoriale, organizzi la mutazione psichica della forza-lavoro contemporanea. Mentre l’economia criminale ingrassa, desertificando lo spazio pubblico.

Narcocapitalismo. La vita nell’era dell’anestesia (ombre corte, 2018) di Laurent de Sutter, eclettico docente di teoria del diritto a Bruxelles (Vrije Universiteit), compie dunque un gesto di rottura e svela – come prima di lui forse solo Scorsese col suo The Wolf of Wall Street era riuscito a fare – la combinazione tra finanziarizzazione dell’economia e polvere bianca: dove tutto si smaterializza e fluttua, così valori, monete e capitali, lì è necessario ritrovare il piacere di tornare “a casa”, presso di sé. Stare fuori, ovvero eccitati tra gli altri, cedere alla passione per l’esistenza del mondo, è massimamente pericoloso – per il capitale e il potere costituito, ovviamente.

Narcocapitalismo, però, non si limita a raccontare la storia della cocaina o delle anfetamine – compreso il loro uso massiccio da parte dei nazisti durante la Seconda Guerra mondiale. Fa di più: ricostruisce, attraverso rapidi affreschi, la storia chimica e farmacologica del capitalismo: dall’idrato di cloralio alla Torazina, dalla pillola contraccettiva ai sonniferi, dagli ansiolitici al Prozac. Una costellazione che batte il ritmo dal XIX secolo fino ai nostri giorni e che rivela, questa la tesi di de Sutter, l’obiettivo decisivo del biopotere capitalistico: operare il distacco, separarci cioè dal corpo, con la sua fatica, i suoi dolori, le sue chiamate, la sua agitazione in eccesso, i suoi deliri. C’è un filo, dunque, che tiene assieme von Liebig e Kraepelin, Freud e la Coca Cola. Qui iniziano i paradossi, spesso virtuosi, ma anche i problemi. Spiego.

La tesi filosofico-politica di de Sutter è radicale: l’eccitazione, stare fuori di sé, è transizione intensiva che ci fa conquistare il «dis-essere», la follia e la folla, la danza e la vertigine. Se il solo capitalismo è il capitalismo della cocaina, «la sola politica è la politica dell’eccitazione». La clorpromazina opera il distacco e stabilizza, giusto. Ma un «operatore d’efficacia» come la cocaina, avversario irresistibile della nevrastenia, non è parte integrante della politica di cui parla de Sutter? Ciò che pare un paradosso viene rapidamente risolto: la cocaina è un anestetico, seppur eccitante, perché anch’essa ci separa dal corpo, quanto meno dalla stanchezza e dal sonno. Non casualmente non c’è droga che racconti il nostro tempo meglio della cocaina: la vita “sotto botta”, messa cioè interamente al lavoro, governata dalla precarietà e normata dalla valutazione permanente, ha bisogno di una “botta”; con una botta si cura la botta della vita, come suggerisce Duccio di Boris, ma poi ci vuole sempre un’altra botta per curare la botta, e così via… Il soggetto neoliberale, il capitale umano, è il tossicodipendente, coincidenza senza resti.

Ci vuole una precisazione ulteriore, però: la cocaina eccita, vero, ma dopo l’euforia c’è la caduta. Più la sostanza è tagliata, più l’effetto finisce prima. E il problema, come spiegava un film che ha fatto epoca, «non è la caduta, ma l’atterraggio». Con la cocaina, in verità, non facciamo altro che tornare a casa, che ritrovarci – «umani, troppo umani». Basta mezz’ora e comincia il freddo nelle ossa, uno strano timore per l’irreparabile, un’inquietudine che batte veloce come il cuore (“cosa devo fare domani?”, “troppo lavoro, non ce la faccio”, “dove trovo altra coca?”, “e i soldi?”, “l’ultima botta, e poi mi fermo…”, “ci bevo sopra”, “perché quello mi fissa?”, “cazzo, quello mi fissa”, ecc.). Nell’atterraggio, così frequente, prevale una nostalgia del corpo: ciò che è stato, ora non è, e neanche tornerà facilmente.

La domanda che vale la pena porsi, allora, è la seguente: ma è possibile un’eccitazione che non sia, anche e sempre, una caduta? Ancora: siamo così sicuri che stare fuori di sé, dunque far politica, sia il campo del dis-essere, fuga salvifica dall’ontologia? Infine: possiamo, con leggerezza, sbarazzarci delle cure farmacologiche quando esplodono deliri e manie? No, de Sutter, che pure ci spinge a pensare con radicalità, ci lascia spesso perplessi. Buono prendere a cuore il problema che ci consegna, senza affrettarsi con facili soluzioni.

Partiamo dal problema: solo uscendo fuori dai nostri perimetri individuali, incontriamo gli altri, ci contaminiamo, pratichiamo il desiderio. L’eccitazione collettiva, così invisa al Narcocapitalismo, è l’unica arma a nostra disposizione. Giusto, ma a condizione che il desiderio sia effettivamente praticato. E il desiderio non ha nulla a che fare col piacere-scarica o con la ripetizione ossessiva del godimento. So di offendere l’insurrezionalismo più raffinato, ma il desiderio è sempre istituzionale; per questo, e solo per questo, anti-capitalista e anti-statale. Il desiderio è produttivo e connettivo nello stesso tempo: anzi, produce (immagini, parole, regole, giochi, usi, ecc.) perché connette (corpi, gruppi, forze, ecc.), connette perché produce. L’ontologia, contrariamente a quanto ci dice de Sutter, non ha nulla a che fare con l’identità e gli individui, semmai è rivelata dall’essere comune che ci anticipa, ci costituisce, ci accompagna, e poi ci immerge nella ruvidità della prassi, facendoci fare – a volte – esperienza dell’eternità (della «materia inquieta», generativa, che pure siamo). Stare fuori, sì, ma per amare il mondo facendolo, e moltiplicare gli episodi di resistenza allo sfruttamento, ovunque.

L’eccitazione di cui stiamo parlando, allora, non è lo slancio folle della folla, ma la costruzione continua della lotta. Certo, tra i due fenomeni, come d’altronde tra il desiderio e il godimento, i rapporti sono spesso assai stretti, ineliminabili. Se affermassi il contrario, mancherei di realismo. Ma se la politica funziona, lo fa come arte del discernimento e della selezione: aumentare gli incontri felici, il respiro del desiderio, l’invenzione collettiva contro il nulla, contro la morte e la merda che ci gettano addosso quotidianamente. Eccitazione istituzione, estasi lotta di classe: questa, la sfida.

Poche battute conclusive, invece, su un tema assai difficile e che meriterebbe un approfondimento di altra portata: la sofferenza psichica e i farmaci. Il libro di de Sutter corre il rischio, a volte fin troppo tangibile, di contrapporre a un riduzionismo, quello di Kraepelin e discendenti, un altro riduzionismo, secondo il quale la patologia non esiste, se esiste si affronta lottando, non c’è nulla di più politico della follia e così via… Sì, la clinica è un problema di gruppi, di collettivi, di masse; ma gruppi, collettivi e masse non sono l’interezza della clinica. Così come non bastano le parole, che pure, quando incarnate, curano più di quanto abitualmente pensiamo. La chimica non è cattiva in quanto tale, si tratta di una forza tra le altre, da usare politicamente– discernere e selezionare. Politica sovversiva clinica: questa, la combinazione smarrita, sulla quale tornare. E una nuova cultura critica della chimica e delle droghe: capace di favorire gli incontri che funzionano, di evitare gli avvelenamenti, sempre.