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“Il personale è politico” tra erotica e utopia

Tra gli anni Sessanta e Settanta l’”immaginazione al potere” dei movimenti di donne, studenti, afroamericani e minoranze oppresse si è trasformata, a partire dalla riorganizzazione neoliberale, in culto del piacere senza desiderio e in fantasia distopica “senza risultato tangibile”. Come è possibile recuperare erotica e utopia a partire dai conflitti e dalle istituzioni del comune?

“La fantasia mi riordina la mente, non la logica”

Rancore feat. La Rappresentante di Lista, Luce (Tramonti a Nord Est)  

Nel panorama politico-digitale contemporaneo lo slogan femminista degli anni ’70 “il personale è politico” viene interpretato in due modi: o seguendo più o meno esplicitamente l’indicazione di Mark Fisher secondo cui la depressione è l’effetto del realismo capitalista che ci impedisce di immaginare una possibile via d’uscita, o convincendoci che il processo di costante autofiction a cui quotidianamente ci sottoponiamo sia già immediatamente presa di parola politica. Nel primo caso, il personale è politico viene ridotto al secondo termine: tutto è politico, non solo il linguaggio e le relazioni, ma anche i sintomi; nel secondo caso il personale è politico viene ricondotto al primo termine e la valorizzazione delle storie e delle emozioni immediate diventa subito presa di parola pubblica autosufficiente. Alcune volte però l’equivalenza non torna e quando ci si mette a filtrare la propria vita nelle macrostrutture del capitalismo, del patriarcato e del razzismo, qualcosa rimane fuori: una sorta di errore o d’incrinatura nel sistema, una sottile angoscia che qualche volta diventa senso di panico puro o di tristezza profonda, altre volte persino scintilla in un barlume di resistenza. E così anche dal lato del puro personalismo le cose non vanno meglio, specie quando il mondo rimane diviso in due tra chi rimane a guardare e chi commenta nella forma della glossa della glossa sparandoci nell’ennesima story un po’ la sua opinione e quasi sempre la sua sensazione. Nella riproduzione tecnica del discorso pubblico il realismo capitalista diventa vittoriano ai massimi livelli con la differenza che il privato non è più chiuso nelle sue separate stanze ma occupa il centro di tutta la scena. 

Singolarità e istituzioni. Antropologia e politica oltre l’individuo e lo Stato di Francesco Raparelli si muove tra le faglie di quella congiunzione instabile che fa da ponte tra il personale e il politico, l’individuo e lo Stato, scompaginando i termini classici della storia della filosofia occidentale e offrendone una genealogia, storica e teorica, non solo alternativa, ma anche “polemica”. Il libro, frutto di un lavoro decennale sia accademico che politico, più che prendere posizione, tramite un singolo autore o una singola scuola di pensiero, per un coté della filosofia dell’antropologia e della filosofia politica, li mette insieme, li mixa, scoperchiando il problema dell’individuo proprietario tramite Spinoza e Averroè per problematizzarlo con Hegel e Marx, e affrontando le questioni relative alle istituzioni del comune non solo via Deleuze, ma complicandole con gli spunti offerti dalla psicoanalisi e dal femminismo. La genealogia è “polemica” non solo perché serve il conflitto contro le categorie della modernità borghese e della postmodernità neoliberale ma perché rimane “aperta, irrisolta”, rifiutando di farsi ideologia spontanea o intellettualistica e soprattutto dottrina di scuola per porre problemi emersi all’interno della pratica politica dei movimenti degli ultimi vent’anni tramite uno studio rigoroso, una ricerca vera e propria, un’inchiesta politico-teorica. 

Tra i problemi che vengono posti, seguendo il metodo del marxismo autonomo di Paolo Virno, Antonio Negri (e dei suoi lavori con Michael Hardt), Sandro Mezzadra e Brett Neilson, e ancora Benedetto Vecchi – secondo i quali la lotta precede ed anticipa la riorganizzazione capitalistica – emerge con particolare chiarezza la questione che riguarda gli sviluppi contro-rivoluzionari: nell’epoca della massima espressione del general intellect tramite i dispositivi tecnologici e a fronte della diffusa cooperazione sociale e politica come e quando si è prodotto un blocco e un’inversione reazionaria? Su quali passioni ed elementi materiali fa leva il comando capitalistico per interrompere il flusso di produzione immaginifica (e quindi utopica) dei processi collettivi? Raparelli individua sostanzialmente due risposte: la prima che guarda al soggetto – alla singolarità che diventa individualità “performante” – e la seconda al lavoro nei processi di costruzione collettiva dal basso – al rischio della torsione comunitaria, alla fatica di fare i conti con gli elementi di negativo che irrompono, con il lutto, la malattia, le pulsioni narcisistiche. Gli eventi storici che sbilanciano il rapporto tra l’irruzione di una nuova moltitudine e la sua chiusura addomesticata si collocano tra il 1968 e il 1973, tra il maggio parigino e la sconfitta del Cile di Allende. E infatti: «Vera posta in palio della rivoluzione mondiale del 1968 è stata la singolarità e la sua piena espressione; la sconfitta del “Grande rifiuto”, determinata da una controrivoluzione ancora in corso, il rovesciamento della singolarità nell’individuo neoliberale, performante e depresso, sempre connesso e drammaticamente solo allo stesso tempo. L’affermazione storica del general intellect, il sapere sociale divenuto immediata forza produttiva, è in parte premessa del Sessantotto, ma in buona parte esito dello scontro sociale e politico che ha visto protagonisti studenti, donne, afroamericani, minoranze oppresse colonizzati. […] Ma è la reazione capitalistica ad afferrarne, e dunque a comandarne, gli esiti», (p. 38). In un’analisi filosoficamente rigorosa, Raparelli mostra quali siano stati gli effetti della rivoluzione liberale sull’individuo votato alla performance continua e al micromanagement, all’iperlavoro, alla iperconnessione, e alla incessante narrazione del sé, tramite un ricco parterre di riflessioni elaborato da Massimo de Carolis, Anna Simone e Federico Chicchi, Federica Giardini e Roberto Ciccarelli, mostrando da un lato la trasformazione del soggetto alla luce della precarizzazione del mercato del lavoro mediante lo scaricamento verso il basso e l’esterno (nell’outsourcing) dei rischi d’impresa e dall’altro gli effetti dell’interiorizzazione della prestazione continua. È qui che l’analisi filosofico-sociologica dei cambiamenti capitalistici introdotti a partire dagli anni Settanta si combina con le indicazioni offerte dalla psicoanalisi freudiana e contemporanea (come nel caso di Cristiana Cimino), al punto che «Il godimento senza l’Altro e il simbolico, materia dello scambio tra neoliberalismo ed ethos libertario, da esca accattivante si è trasformato in frutto disperato della vita sempre connessa e sempre al lavoro. Tra capitalismo maturo e tossico-dipendenza vi è un intreccio costitutivo», (p. 59). Costitutivo, tuttavia, in Singolarità ed istituzioni non significa soggetto a un processo mono-causale di totalizzazione dal momento che ciò che rimane, fosse anche come residuo o inciampo, è sempre la possibilità di articolare collettivamente desiderio ed erotica, oppure di opporre alla trasparenza del linguaggio capitalistico e dei social network l’incomprensione, il gioco di parole, l’“opacità”, gli “attriti”. Così se con Cornelius Castoriadis si spiega la conversione della libertà in alienazione all’interno dell’economia dell’”assoluto narcisismo”, tramite Paolo Virno si scandaglia la strutturale ambiguità del linguaggio e la potenza della negazione in quanto freno interno a quel dispositivo di omogeneizzazione. 

L’elemento che complica la transizione tra personale e politico o, se vogliamo, tra singolarità e istituzione sono in questo libro le fantasie e i fantasmi che rimandano da un lato al problema dell’erotica e dall’altro a quello dell’utopia. Come Raparelli ci ricorda, secondo Freud, la fantasia o il fantasma hanno uno statuto ontologico incerto perché in quanto oggetto del desiderio si trovano sempre al confine tra realtà e inconscio (o tra corpo e linguaggio) e danno forma sia alla sessualità che all’immaginazione. In uno scritto molto particolare del 1978 in cui prende parola sul dibattito pro e contro la pornografia – sostanzialmente ponendosi contro nell’ottica di una rivendicazione della black respectability femminista e lesbica, ma con un discorso che rifugge le semplificazioni e che può essere riletto oggi in molti modi – Audre Lorde sostiene che l’erotica è una «fonte di potere e d’informazione» che è stata «trasformata nella confusa, triviale, psicotica, plastica sensazione» non solo della pornografia ma anche da un sistema che «riduce il lavoro a una parodia delle necessità», deprivandoci del senso di pienezza (Lorde, “The Uses of the Erotic”, pp. 88 e 89). L’erotica per Lorde diventa, in una lenta ricerca della definizione più appropriata, una serie di approssimazioni che vanno da un punto mediano tra «il senso di sé e il caos delle nostre sensazioni più forti» a un principio di “soddisfazione” che ci spinge alla “eccellenza” fino a diventare persino una sovrapposizione di “politico” e “spirituale”. Questa sensazione non è – analogamente alla critica che Raparelli sviluppa nel suo libro seguendo Michel Foucault e Gilles Deleuze e Felix Guattari – l’affermazione del proprio piacere individuale, ma diventa quasi trascendentale dal momento che la scoperta dell’erotica si gioca sulla soglia della condivisione e dell’interconnessione, come transizione dal puro uso consumistico del piacere al suo uso politico, collettivo, regolato. Si può dare un desiderio (e perché no, persino una forma di piacere, una vera e propria erotica) fuori dall’ “imperativo del godimento” e del consumo? –  Questo si chiede Singolarità e istituzioni in modo per nulla semplificato e risolto o, se vogliamo, complicato tanto quanto lo era nei termini di Lorde. 

L’altra questione che viene esaminata in Singolarità e istituzioni è il rapporto tra fantasia e utopia – e che contribuisce a complicare il quadro analitico di una realtà fatta di fantasmi non solo familiari, ma anche razzisti, coloniali, identitari, in cui il desiderio diventa ansia di sottomissione ed esclusione, oltre che fissazione narcisistica. “L’immaginazione al potere” del Sessantotto diventa nella rivoluzione neoliberale «il mondo fantasmatico» totalizzato fatto di «una molteplicità irrefrenabile di immagini sensazionali» (p. 45) e di «schizofrenia artificialmente prodotta», secondo l’analisi di Günther Anders (ma anche di Marcuse, Horkheimer e Adorno, e Debord) che nei termini di Raparelli non è solo fantasia fantasmatica senza regola ma anche «immaginazione plastica senza risultato tangibile» (p. 47). Come si recupera la dimensione della creatività politica all’interno di un quadro in cui il reale è diventato “iperreale” al punto di pensare di inforcare un paio di Oculus e riprodurre, proprio dentro la propria stanza, la casa dei sogni da usare come co-working o per fare un party con gli amici? Se in questo libro la questione se sia possibile, a partire da questa specifica configurazione tecnologica, ancora immaginare nuove fantasie rimane aperta, viene invece molto chiaramente spiegato come sia possibile pensare l’utopia all’interno della distopia più feroce. Fredric Jameson non ha mai smesso di invitarci a pensare i due problemi (e forse in generale tutte le questioni) insieme, mostrando come all’interno del paradigma distopico della science fiction si possa intravedere un desiderio che spinge verso l’utopia, tanto quanto uno sterile e distopico supermercato come Walmart nella sua trafila di corsie semi-vuote a perdita di sguardo possa –non solo provocatoriamente –  essere «il prototipo di qualche nuova forma di socialismo» (Jameson, Archeologies of the Future, p. 153). Che il capitalismo tenda a totalizzare una pluralità di fuori (nei termini di Mezzadra e Neilson) non esaurisce la propulsione fantasmatica di immaginare (al di là del bene e del male) una molteplicità di dislocazioni future. Le utopie concrete a cui Raparelli, richiamandosi a Bloch, si riferisce – le istituzioni del comune, il sindacalismo sociale insieme all’analisi psicoanalitica individuale e di gruppo – cercano di lavorare proprio in quella continuità accidentata e impervia che unisce personale e politico, fantasia singolare e comune.  

Le tre immagini interne sono delle varianti della copertina del libro e sono state disegnate da Vittorio Giannitelli