Smart Power

Smart Power obamiano e sostegno ai governi subalterni.

A volte partire dalla cronaca politica è un’arma di distrazione di massa, soprattutto quando essa rifletta gli intrighi di un ceto politico irrimediabilmente staccato e alieno dalla realtà sociale, dalle sofferenze, interessi, desideri e passioni realmente in gioco. Partiamo allora da un livello in apparenza più astratto, in effetti molto concreto e performativo.

A volte partire dalla cronaca politica è un’arma di distrazione di massa, soprattutto quando essa rifletta gli intrighi di un ceto politico irrimediabilmente staccato e alieno dalla realtà sociale, dalle sofferenze, interessi, desideri e passioni realmente in gioco. Partiamo allora da un livello in apparenza più astratto, in effetti molto concreto e performativo.

Smart Power, potere “furbo”, è una miscela di Hard Power militare, a effetti collaterali ridotti, e di Soft Power, diplomatico economico e culturale –antichissimo modello di bastone e carota, passato attraverso le dottrine della contro-guerriglia degli anni ’50 e ’60, riverniciato come nuovo da Joseph Nye, docente di Harvard e già vice-ministro della Difesa con Clinton, adottato alla grande da Obama nel suo primo mandato e verosimilmente implementato nel secondo. In pratica e nel quadro di un realistico multilateralismo: vista l’impossibilità di modificare cuori e menti dei talebani, fuoco a volontà su insorgenti e terroristi in Afghanistan e in Pakistan, con ricorso preferenziale ai droni, in Medio Oriente delega del contenimento di al-Qaeda ai Fratelli Musulmani e alla Turchia con complementare raffreddamento del sostegno alla destra israeliana, accerchiamento militare e diplomatico della Cina facendo leva sui suoi concorrenti asiatici, mantenimento di un equilibrio in Europa, perché la sua crisi non porti guai al dissesto finanziario americano e l’euro resti abbastanza forte da non competere con un dollaro debole. Evitare accuratamente che tale Smart Power sia percepito come arroganza asimmetrica è un punto chiave, quindi grande enfasi sulla democrazia (da non esportare però con le armi, al modo di Bush) e soprattutto sull’amichevole partnership –così si esprime una risoluzione intitolata Dealing with Today’s Asymmetric Threat to U.S. and Global Security, che ben riassume tale strategia, di cui è superfluo ricordare la perfetta integrazione con le politiche economiche neoliberiste.

In questo prospettiva rientrano tanto l’interventismo indiretto in Libia (dove il lavoro sporco è stato affidato al Qatar e all’Europa) quanto quello programmato in Siria, dove gli Usa dovranno sporcarsi le mani in soccorso di Turchia e Qatar e a garanzia del diffidente Israele per sostituire ad Assad un regime di islamismo “moderato”. Il sostegno obamiano alla mediazione egiziana nella crisi di Gaza e la legittimazione a denti stretti di Hamas ne è stata l’inevitabile premessa. Una strada stretta, perché questo ha comportato uno scontro con Netanyahu, l’endorsement ai ribelli siriani fra cui è forte la presenza di al-Qaeda, una delega in bianco al presidente egiziano Morsi, di cui egli ha subito profittato per tentare di instaurare all’interno un regime dittatoriale scatenando resistenze e contrasti tali da compromettere il ruolo stesso internazionale dell’Egitto, il secondo pilastro della presenza Usa nella regione. Obama rischia così, per combattere l’influenza di Russia e Cina, di mettersi nella stessa situazione di Bush, che ha rovesciato Saddam per regalare l’Irak all’egemonia iraniana. Allo stesso modo la strategia di puntare sui sunniti per assediare gli sciiti (Iran, Hezbollah libanesi, regime alauita di Assad) è un giocare con il fuoco e la disfatta di Bengasi getta lunghe ombre sull’evoluzione futura –come dimostra l’emarginazione di Hillary Clinton, la cacciata del generale Petraeus e l’imbarazzante ritiro di Susan Rice da nuova Segretaria di Stato.

In parallelo all’operazione Morsi, probabilmente con un minore interesse strategico, Obama ha lanciato l’operazione Monti, ispirando in tutta evidenza la confluenza in coro unanime di Ue, Bce, Fmi, Ppe, Chiesa contro il ritorno di Berlusconi e l’alternativa Bersani, fino a trascinare (con grande imbarazzo della coalizione progressista continentale) perfino il remissivo Hollande. Più che scandalizzarci per la sgraziata ingerenza mondiale negli affari italiani, vale la pena di rilevare la funzione svolta da Obama, compreso il controbilanciamento di una guida europea Merkel per cui Monti è il candidato ideale, non compromesso con la sinistra socialdemocratica e magari assimilato ai popolari. Beninteso, come l’operazione Morsi ha funzionato alla grande nello scenario mediorientale, ma si è impantanata in un violento conflitto interno all’Egitto, così l’operazione Monti è riuscita a livello europeo ma crea parecchi problemi proprio in Italia. La democrazia dall’alto si esporta male, anche con metodi più smart di quelli di Bush, e la crisi non consente grandi compensazioni, al massimo aggiustamenti marginali fra contenimento del debito e investimenti per lo sviluppo. La dimensione nazionale è divenuta secondaria, ma non irrilevante ed è il luogo dove ancora si manifestano le resistenze popolari.

Forte di cotanto appoggio Monti ha deciso di scendere in campo in qualche modo, incrociandosi con l’affannoso e velleitario ritorno del Cavaliere ma soprattutto con la marcia verso il governo che Bersani credeva spianata, donde una sequela di scontri sempre più acidi fra Bersani e Monti, Bersani e Napolitano, Napolitano e Monti. A Monti (e ai suoi sponsor) interessa la Presidenza del Consiglio e la direzione della politica economica e non di esercitare una moral suasion dal colle del Quirinale (compito per cui al grande tecnocrate manca un adeguato retroterra politico). Si delinea perciò una gamma di soluzioni in vario grado negative per il Pd e tutte assolutamente deludenti per quei militanti del Pd e di Sel che con generosità si erano impegnato in primarie “risolutive” per il ritorno alla democrazia e una leadership presunta di sinistra. Il ventaglio delle possibilità offre uno scontro a tre fra Bersani. Berlusconi e Monti come leader di un grande centro federato, concluso con la vittoria del primo o terzo schieramento, un risultato differente fra Camera e Senato, con sostanziale ingovernabilità e appello a un salvatore della patria in loden, un compromesso con una staffetta Monti-Bersani imposta dallo spread e dai mercati. A tutte queste alternative e sub-alternative (dovute, oltre che all’incertezza dello scenario internazionale, alla frammentazione del centro, alla disgregazione del Pdl e alle insistenti voci su scissioni dello stesso Pd) è comune una sola cosa: l’adozione dell’agenda, ulteriormente aggravata in un annunciato memorandum Monti di taglio ordoliberale, e solidamente ancorata agli impegni europei che tutti hanno ciecamente assunto con il meccanismo del fiscal compact e la sanzione costituzionale nell’obbligo del pareggio di bilancio.

Questione di ore o di pochi giorni per capire come andrà a finire. Di certo la sbandierata alternativa di sinistra, evocata dalle primarie e in nome della quale (ricordate il “profumo di sinistra”?) Vendola ha spezzato l’unità con i partitini residuali e i movimenti sta rapidamente sparendo dall’orizzonte: vinca o non vinca il blocco Pd-Sel grazie al Porcellum, la sua politica sarà condizionata da una scelta internazionale di commissariamento, sicuramente nei contenuti, probabilmente anche nella leadership concreta. Balza all’ordine del giorno l’esigenza di organizzare una resistenza alla tecnocrazia finanziaria e alla sua ombra socialdemocratica che non sia sovranista e populista (alla Grillo-Tremonti-Berlusconi), bensì europea e sovversiva, in stile Syriza. Una resistenza che si esprima anche sul piano elettorale, senza troppo concessioni al giustizialismo e all’indignazione meramente culturale. Costoro fanno schifo e vergogna e spesso sono pure criminali e mafiosi, ma la battaglia è politica e non giudiziaria, l’egemonia federa e coalizza forme di vita e desideri di vita, passioni gioiose non risentimenti, manette, divieti, vendette. Altrimenti si rischia l’inconsistenza elettorale o l’attrazione fatale del discorso socialdemocratico su legalità e merito che certamente sarà condotto da Pd e Sel per addolcire il duro economicismo dei poteri forti che mandano avanti Monti e tutta la bella gente intorno a lui.