OPINIONI

Senza vergogna

Lo sono i miliardari, che governano il mondo come un macello e noi tutti come carne da macellare: senza vergogna. Contrariamente a ciò che ci insegnano per competere al meglio nel mercato del lavoro, si tratta di una passione rivoluzionaria. Cosa serve, però, affinché la vergogna ci svegli alla sovversione?

Nel 1843, dall’Olanda, Marx scrive a Ruge della vergogna di essere tedesco. Anticipa l’obiezione scettica dell’amico e si risponde: «la vergogna è già una rivoluzione». L’ira contro di sé, propria della passione in questione, sarebbe come chinarsi per fare un balzo in avanti. Darsi addosso, non cedere alla malafede con la quale quotidianamente siamo opachi a noi stessi (il nostro dolce riparo, la malafede): tutto ciò, per imparare a volare. Vergogna, affetto che i tedeschi, per Marx, non conoscono. Oggi, le parole del venticinquenne di Treviri ci fanno pensare al risentimento di Wolfgang Schäuble, alle toghe rosse di Karlsruhe, al doppio gioco di Angela Merkel, che proprio degli olandesi si serve per imporre un nuovo indebitamento ai Paesi più colpiti dal Covid, come l’Italia. Ma, a uno sguardo più attento, il capitalismo tutto, nella sua variante neoliberale quanto autoritaria, è una società senza vergogna. E, quando l’incapacità di provare questa passione scolpisce anche gli anticapitalisti, la rivoluzione evapora.

Nella sua Etica, Spinoza presenta la vergogna come il contrario della gloria. Entrambe, però, ed è questo che per noi ora conta, sono affetti che indicano la nostra mescolanza con le emozioni altrui. Siamo noi a immaginare che gli altri siano gioiosi per un nostro gesto o, viceversa, tristi per ciò che abbiamo appena fatto. Eppure la nostra immaginazione è lì fuori, nella felicità altrui che mi esalta, nella scontentezza generale che mi affoga. Così Sartre, ancora non del tutto marxista, rompe l’isolamento della coscienza con la vergogna, con lo sguardo d’altri che mi fa come sono. La vergogna è la vertigine che provo perché non coincido con la mia natura, perché la mia natura sta lì fuori; come la lingua che parlo e con la quale penso, che da fuori è entrata nel mio corpo-cervello, modificando anche il modo che ho di sentire l’universo. La nostra «natura potenziale» (dunque ricorsiva, sempre proiettata al di là del qui-e-ora, necessariamente artificiale), suggerisce Paolo Virno, fa di noi un vivente vergognoso.

 

Ma, se l’animale che sono non può che vergognarsi, perché il nostro mondo è pieno di luridi potenti senza vergogna?

 

Non solo Trump e Bolsonaro non si vergognano, quando sparano cazzate sul virus che sta uccidendo donne e uomini ovunque, ma con maggiore violenza negli Stati Uniti e in Brasile; il sospetto fondato è che la loro vita senza vergogna – di machisti, di razzisti, alla fin fine di fascisti – sia il vero motivo del successo che li riguarda. Togliere pesi, farsi lievi, nuotare in superficie: la vita con gli altri è un inferno, gli altri sono il mio inferno… che se ne vadano al diavolo, allora! È così che si diventa immondizia, una generalizzata metamorfosi in direzione della merda. Il «capitale umano», l’utopia che catturò rovesciandole le istanze di liberazione degli anni Sessanta e Settanta, ormai ha perso i suoi orpelli: «produci, consuma, crepa | sbattiti, fottiti, crepa», prefiguravano i CCCP. Rimangono dubbi: su cosa fa presa il desiderio di “leggerezza”, di esonero?

 

Schiavi neri in un disegno veneziano del 1686

 

«Da ogni parte sfuggo dall’essere che tuttavia sono»: la stessa fuga che mi salva, così mi vergogno e imparo a volare, mi abitua alla merda – quella nella quale vivo, quella che dispenso a chi mi sta lontano o vicino, poco cambia. Affogano nel Mediterraneo, li spremeremo ancora di più nelle campagne per tre mesi di regolarizzazione, dopo riprenderemo a fregarcene se si ammalano di Covid in Africa, in carcere, nei CPR e nei CAS o alle presse nel bresciano. La malafede non è una menzogna, la quale sempre prevede intenzioni e marchingegni. Semplicemente, sfuggendo a ciò che sono e che faccio, puzzo di merda e non me ne accorgo più. Allora ci vuole Fanon, per Sartre, un paio di decenni dopo: «voi, così liberali, così umani, che spingete l’amore della cultura fino al preziosismo, fate finta di dimenticare che avete delle colonie e che là massacrano in vostro nome». E ancora Fanon, servirebbe oggi a noi, per rispondere a chi – tale Carlo Bonomi – ci vuole al lavoro, pure se il contagio non si ferma e nelle valli coperte di capannoni si smette di essere umani, si muore dentro e fuori.

Perché obiettivo del loro odio – «bei figli d’Europa» – è proprio di mettere alla porta dell’umanità – numerus clausus – la povertà, per poterla spremere meglio. Quando questa è donna, frocia o negra, ancora di più: l’intimidazione, allora, non conosce diritto che tenga. Audre Lorde ha descritto questo mondo, il mondo della distorsione razzista e sessista, del capitalismo predatorio e parassitario, la cui ricchezza è fondata sul furto, sullo sfruttamento e l’oppressione d’altri, «un mondo che dà per scontata la nostra mancanza di umanità e odia la nostra stessa esistenza quando non è al suo servizio».

 

Dietro il Vangelo dell’Umanesimo e dei diritti universali o dell’unità nazionale c’è sempre la schiavitù, il «servizio» estorto con la violenza, con la morte, con la distruzione.

 

Un gioco di prestigio perverso attraverso cui chi domina sfrutta opprime sputa in faccia al dominato sfruttato oppresso, fino ad appiccicargliele addosso, la vergogna la paura la colpa che egli non è più capace di provare: e allora non basta l’indigenza, bisogna vergognarsene anche, sentirsi in qualche modo colpevoli, la causa del proprio stato di penuria e difficoltà; la violenza machista subita forse un po’ te la sei cercata – conferma la Legge (patriarcale) uguale per tutti; la ricezione di un sussidio – in Italia briciole rispetto a quanto può permettersi di “concedere” l’opulenta e protestante Germania – è la contrazione di un debito, che si ripaga con altro lavoro servile; la cittadinanza un premio da conquistare a mezzo di fatica e umiliazione. Così i mantenuti, i dirigenti dell’economia e della politica, possono continuare a condurre la loro vita da sogno da mantenuti, dileggiando spudoratamente la presunta pigrizia indolenza e negligenza di chi porta avanti il mondo. Mondo… alla rovescia appunto.

Quello del Belpaese particolarmente grottesco poi: senza vergogna il decreto “Cura Italia” ha dimenticato chi, in condizioni contrattuali – quando i contratti ci sono – tutt’altro che favorevoli, quel lavoro di cura lo svolge; non poche persone, considerando che siamo tra i paesi più vecchi d’Europa, con un welfare ormai inesistente dopo dieci anni di austerità; guarda caso, la maggior parte di queste lavoratrici e lavoratori sono migranti. Ancora poi, bisogna assistere all’arroganza e alla violenza verbale di un Vito Crimi – repetita iuvant, Vito Crimi… –, contrario alla regolarizzazione di chi rende possibile anche alla sua di bocca di sfamarsi; Virginia Raggi che, in cambio di pacchi di pasta e beni di prima necessità, chiede manutenzione gratuita di quegli spazi pubblici a cui lei e sodali non sanno provvedere; per fare solo alcuni esempi. Poi, certo, c’è sempre chi, immobile nella propria roccaforte di privilegio – guai a dire qualcosa vagamente “di sinistra” –, senza pudore alcuno, gonfia il petto contro una timidissima mini-nana-proposta di patrimoniale: Giuseppe Sala addirittura lo ha twittato – slogan! –, non è certo questo il momento di «creare differenze», di assottigliare – hai visto mai – una qualche disuguaglianza.

Nel gioco a specchi, volgarità e arroganza di chi comanda si nutrono di un inspiegabile senso di impunità e sicurezza, scaricando verso il basso la paura, allo scopo di far introiettare lo schema dell’oppressione all’oppresso. Che così ha paura di alzare la testa, e la rabbia inespressa che mano a mano inonda il suo corpo e la sua anima la rivolge, al massimo, contro i suoi stessi simili – guerra tra poveri. Del resto, le risorse sono scarse, dice il mantra. In questo modo pensa l’oppressore. Sottovaluta l’intelligenza comune, quella che muove dal dolore delle distorsioni da lui inflitte a tante e tanti diversi ma sì, anche simili, pari nelle differenze. Potenziali alleate e alleati. Quell’intelligenza che apprende dalla propria rabbia, che comincia a usarla contro l’odio e la violenza sofferti, in barba a ogni morale, eteronoma, strumento di repressione e governo degli sfruttati. Sempre Audre Lorde ci ricorda quanto i nostri oppositori prendano sul serio il loro odio per noi. È giunto il tempo di prendere altrettanto sul serio la nostra rabbia, il cui obiettivo è il cambiamento radicale, la vita, e non la morte e la distruzione. Perché rabbia non è ciò che acceca, è la paura di essa, piuttosto, a ottundere – traducendosi la sua inibizione in impotenza rancorosa.

 

Rabbia è ciò che, nella sua espressione, chiarifica, inaugura un processo di nuova conoscenza di sé e del mondo.

 

Quando la rabbia esplode il colonizzato ritrova la trasparenza perduta – trasparenza a sé, integrità del suo essere lacerata dal colono –, ci ricorda Fanon. «[L]a rabbia espressa e trasformata in azione al servizio della nostra visione e del nostro futuro è un atto chiarificatore che ci dà libertà e forza, perché è in questo doloroso processo di trasformazione che identifichiamo chi sono i nostri alleati con cui abbiamo grosse divergenze, e chi sono i nostri veri nemici», ancora Audre Lorde. Fonte di potere, fuoco conoscitivo contro il ghiaccio dell’odio. Per rovesciare il mondo alla rovescia.

 

Foto di copertina di Anthony Easton via Flickr