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MONDO

Senegal: una rivolta che parte da lontano

Una rivolta di piazza ha scosso le istituzioni senegalesi e spiazzato chi pensava a questo stato come a un pilastro della stabilità politica in Africa occidentale. In realtà, le esplosioni di violenza non sono nuove in questo paese, ma la natura ideologica – spesso marxista e anticoloniale – che le aveva caratterizzate dagli anni Settanta agli anni Ottanta ha lasciato spazio a confuse rivendicazioni antifrancesi e antipolitiche

Il mese di marzo 2021 rimarrà impresso nella mente dei giovani senegalesi. Nell’oblio più totale dei media occidentali – e in particolare di quelli italiani, che notoriamente non guardano “al di là del loro naso” – ragazze e ragazzi di Dakar si sono riversati nelle strade della capitale del Senegal, nei boulevard del Plateau, sulla splendente Corniche e nelle strette viuzze della Medina, la vecchia “township” francese riservata alla popolazione africana. E proprio lì, nel luogo simbolico della dominazione coloniale, tra le case mai finite di costruire e le capre che pascolano in piena città tra i cumuli di calcinacci, hanno urlato slogan contro il governo del presidente Macky Sall e contro il neocolonialismo francese. Oggetto delle loro invettive è soprattutto l’inquilino dell’Eliseo, quell’Emmanuel Macron che si presenta come un amico fraterno dell’odiato “Macky” e che rappresenta il suo burattinaio agli occhi della popolazione.

 

Presto è scoppiata la violenza, la repressione poliziesca e la risposta dei giovani studenti e disoccupati, con sassi, pallottole di gomma, e qualche proiettile, da parte delle forze dell’ordine. I feriti sono centinaia, i morti sono una decina per tutta la durata degli scontri.

 

In Italia abbiamo recepito qualche frammento di notizia sugli avvenimenti senegalesi solo negli ultimi giorni, in relazione al viaggio affaristico di Matteo Renzi – altro sedicente amico di Macron – alla corte del contestatissimo Macky Sall. I pochi (e lodevoli) giornali che hanno raccontato quegli eventi prima del fatidico tour renziano, si sono concentrati sulla causa scatenante della rivolta, ossia l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko – leader di Pastef (Patriotes du Senegal pour le Travail, l’Ethique et la Fraternité). Un fermo motivato prima da problemi di ordine pubblico e poi da un’accusa di stupro, secondo molti montata ad arte dallo stesso Macky Sall per liberarsi del suo avversario più pericoloso. Come ricorda Stefano Mauro su “Il Manifesto”, infatti, l’arresto di Sonko ha colpito uno dei rivali più accreditati del presidente per le elezioni del 2024, provocando un’ondata di malcontento che già covava a causa della crescente crisi economica dovuta alla pandemia di Covid-19. Un arresto seguito a quelli del figlio dell’ex-presidente Abdoulaye Wade, Karim Wade, e del sindaco di Dakar, Khalifa Sall.

 

La violenza delle rivolte di Dakar, considerata dalla (migliore) stampa italiana come inedita per «un’isola di stabilità nell’Africa occidentale», non deve stupire chi conosce la storia del Senegal.

 

Sebbene negli ultimi anni il governo liberale di Sall abbia tenuto a bada il jihadismo imperante nella regione saheliana e abbia promosso una serie di riforme (portando a una relativa crescita economica), la sua spregiudicatezza politica e finanziaria ha incoraggiato la percezione di un consolidamento del controllo “neocoloniale” francese nel paese. Un colonialismo culturale ed economico evidentissimo quando si scorrazza su un taxi per le vie di Dakar, città dai mille contrasti dove banche ed attività commerciali transalpine spuntano come funghi tra gli edifici cadenti del centro, dove sfavillanti blindati della gendarmerie (gli stessi di quella francese) sfrecciano a sirene spiegate nel traffico caotico della capitale. Dove una base militare dell’Armée Française, teoricamente chiusa nel 2011, accoglie ancora oggi le truppe dell’EFS (Elément Français au Sénégal) dopo sessant’anni di indipendenza.

Il malcontento giovanile, che cova nelle nuove generazioni ma che ha origine in particolare tra i disoccupati e tra gli studenti dell’Università Cheick Anta Diop (UCAD), non è solo frutto della confusa gestione politica del paese degli ultimi decenni. Non è nato sotto la presidenza del vecchio Abdoulaye Wade, né sotto quella del rampante Macky Sall e non è nemmeno germogliato con la leadership di Abdou Diouf, negli anni ’80 e ’90. In un paese dove il 57% della popolazione ha meno di vent’anni, dove l’opinione delle nuove generazioni pesa (o dovrebbe pesare) parecchio nel dibattito pubblico e dove la stragrande maggioranza della popolazione non ha mai conosciuto il dominio coloniale, l’assoggettamento alla Francia è ancora il problema più sentito.

 

Foto di Rachel Strohm da Flickr

 

Un problema ereditato dalle vecchie generazioni, quelle formatesi nella lotta per l’indipendenza, contestatrici di un nuovo ordine repubblicano che molto somigliava al vecchio sistema coloniale, promosso dal primo presidente senegalese e poeta-vate del panafricanismo e della “négritude”, Léopold Sédar Senghor. Negli anni Duemila, a questo lascito antisenghoriano si aggiunsero gli echi degli scandali francesi legati aireseaux Foccarte alla cosiddetta Françafrique, quando un’inchiesta giornalistica e il riordino degli archivi del responsabile francese per gli affari africani – Jacques Foccart – svelarono le macchinazioni dell’Eliseo negli stati africani indipendenti. Ne è scaturita la percezione di un paese a sovranità limitata che si è sovrapposta alle istanze anticoloniali e le ha trasformate in una protesta caotica e antipolitica, spesso sfociata nell’odio antifrancese, che imputa agli ex-dominatori tutti i problemi del Senegal e dell’Africa occidentale.

 

L’eredità “neocoloniale” che l’indipendenza senegalese si porta dietro tra i giovani deriva dall’immaginario che circonda Léopold Senghor, mito della cultura postcoloniale e contestato leader filo-francese.

 

Proprio Senghor fu accusato dalla sinistra anticolonialista del paese di aver ottenuto un’indipendenza “di facciata” dai francesi in cambio di un solido appoggio politico ed economico. Il suo impegno per una riscoperta della cultura e della storia africana, secondo i marxisti del Parti africain de l’Indépendance (PAI), si accompagnava a una malcelata fedeltà all’ex-dominatore, di cui riconosceva il grande contributo culturale nella formazione di un’identità afro-francofona che accomunava le ex-colonie dell’Africa occidentale francese.

Ciò si traduceva in un controllo capillare dell’Eliseo sul Senegal e sugli stati confinanti che non avrebbe permesso alla popolazione di sfruttare le risorse della propria terra, rimasta ancorata ad un’agricoltura monoculturale tipica dell’économie de traite.

 

Foto di Jeff Attaway da Flickr

 

Già nel 1961 le prime rivolte contro Senghor infiammarono la città di Saint Louis e scatenarono la repressione delle autorità contro la sinistra marxista, messa fuori legge e additata come “cavallo di Troia” dell’Unione Sovietica in Africa. Gli scioperi, gli scontri di piazza e i tentativi effimeri di lotta armata che punteggiarono gli anni Sessanta non riuscirono a scalfire il potere senghoriano, ormai pilastro della cooperazione economica e militare franco-africana.

In seguito, la contestazione del Sessantotto senegalese ha dimostrato la paradigmaticità di questo anno cruciale nel contesto globale. Mentre Senghor elaborava la sua visione di un socialismo africano riformatore, anticomunista e vicino alle socialdemocrazie europee (soprattutto alla SFIO francese), l’UCAD di Dakar ribolliva come una pentola a pressione.  Anche allora, la scintilla si accese da un pretesto – la riduzione delle borse universitarie – ma l’incontrollabile incendio che divampò in tutto il paese ebbe ben altri obiettivi: la fine del controllo francese sul Senegal.

 

La rivolta degli studenti – cui si unirono i disoccupati, i contadini, i lavoratori di tutte le categorie – scosse la piccola repubblica e tutta l’Africa occidentale, prendendo ispirazione dal “Maggio francese” ma superandolo per intensità e rivendicazioni.

 

Dopo quasi quattro mesi di instabilità, alla fine dell’estate 1968, Senghor cedette alle richieste degli studenti. Da quel momento cominciò a pensare a un possibile rinnovamento politico, concedendo una parvenza di democrazia e prevedendo un sistema tripartitico. Il presidente del Senegal, sempre più vicino all’Internazionale socialista (entrò a farne parte nel 1976 grazie all’appoggio di Mitterrand) e in vista della firma di nuovi accordi commerciali euro-africani, volle presentarsi all’Europa come interlocutore affidabile, legalizzando delle opposizioni controllate: oltre al Partito socialista al governo, la legge previde la presenza di una destra conservatrice e di una sinistra marxista, contestata dai filo-comunisti repressi negli anni precedenti.

 

Foto di Benoit Prieur da Wikipedia

 

Malgrado il carattere farsesco del nuovo sistema senghoriano, la situazione sembrava molto più rosea che nei paesi confinanti, dominati da dittature sanguinarie, spesso anch’esse appoggiate dai francesi; un elemento, questo, da non sottovalutare, se si parla di un paese – il Senegal – oggi indicato come quello dalla più antica e solida tradizione democratica in Africa occidentale. A questo si aggiunga che Senghor, pur avendo gestito il potere in maniera autoritaria per più di vent’anni, si dimise dal suo incarico – pressoché unico esempio di questo tipo nel continente – nel 1981 in favore del suo delfino, Abdou Diouf.

Nonostante ciò, le proteste contro il “neocolonialismo” non si arrestarono, trovando appiglio nel Parti de l’Indépendance et du Travail (PIT), erede del vecchio PAI. La cessione del potere da parte di Senghor fu percepita come una mossa da “ultima spiaggia” del vecchio presidente per conservare l’autorità del suo partito e dei suoi protettori francesi, scossa dalle continue tensioni sociali. La vittoria di François Mitterrand alle presidenziali del 1981, lo stesso anno dell’ascesa di Diouf, garantivano una successione indolore, vista la vicinanza tra il nuovo inquilino dell’Eliseo e il governo di Dakar. Una sintonia confermata dalla politica estera della nuova presidenza francese, sempre più sbilanciata sul controllo delle ex-colonie in Africa e sulla cooperazione serrata con i paesi francofoni del continente.

 

Dopo la deposizione e l’omicidio di Thomas Sankara in Burkina Faso nel 1987, gli evidenti aiuti forniti da Parigi alle dittature dei paesi francofoni dell’Africa occidentale e infine il ruolo di primo piano della Francia nel massacro dei Tutsi in Rwanda nel 1994, la percezione di una perdurante oppressione coloniale nella regione fu tramandata di padre in figlio.

 

Oggi, la presenza militare francese in Mali, in Repubblica Centroafricana, in Burkina, in Niger e in Costa d’Avorio scalda ancora gli animi dei giovani senegalesi, spinti alla protesta anche da famosi musicisti locali. L’esempio delle rivolte che hanno scacciato Blaise Compaoré (l’assassino di Sankara) da Ouagadougou nel 2014 hanno dimostrato alle nuove generazioni come il neocolonialismo si possa ancora combattere in piazza, pur dimenticandosi di un controllo francese sul Burkina che oggi risulta più forte che mai.

La confusione politica e la progressiva e inesorabile rarefazione delle ideologie hanno ormai spinto l’acceleratore verso una diffusa sfiducia nella classe amministrativa dominante, sempre più considerata come lo specchio della tutela indiretta francese, la cui presenza diventa sempre più ingombrante con l’accrescersi delle tensioni negli stati confinanti.In un paese dove coesistono il grande centro commerciale e finanziario di Diamniadio, calamita per gli investimenti esteri, accanto a un’economia di sussistenza diffusa fatta di agricoltura, piccolo commercio e pesca, la rabbia dei lavoratori, dei disoccupati e degli studenti è sempre pronta a traboccare, scoperchiando un vaso di Pandora difficile da richiudere. Ecco perché questa rivolta di Dakar non è la prima e non sarà l’ultima.

 

Foto di copertina di Jeff Attaway da Flickr