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Scultura senza autore

Con “L’arte romana oltre l’autore. Originalità, imitazione e riproduzione”, Mimesis, Milano 2020, Mariateresa Curcio destruttura alcuni pregiudizi correnti sulla scultura romana e la sottrae al mito dell’autorialità nella stessa misura in cui ne decifra le valenze di uso pubblico e di gestione dell’immaginario

A differenza dall’arte greca, l’arte romana sembra trascurare il concetto di autore, limitando la firma o spesso l’attribuzione a un autore greco a mero sigillo di qualità del prodotto. L’importanza data dal Vasari alle biografie degli artisti e la successiva svalutazione dell’arte romana come “imitativa” e perfino (dal II secolo in poi) come espressione di decadenza stanno alla base della prima grande sintesi antichistica di Winckelmann, che nella Geschichte der Kunst des Altertums (1764) fissa nell’arte greca, soprattutto del V secolo a.C., il canone platonico della bellezza, perfino confondendo originali e copie romane che le si conformano. Ben presto (come rileva nella prefazione Marcello Barbanera) questo comporta una svalutazione non solo dell’arte romana ma perfino del pathos di quella ellenistica, troppo vicina all’aborrito “barocco”.

Questo slittamento, già implicito in Winckelmann, si intensifica – come ben mostra M. Curcio – con Mengs, Mariette e Visconti che accentuano la distinzione e il privilegiamento degli originali sulle imitazioni romane, con uno studio minuzioso delle varianti e il risalimento agli archetipi. Solo lentamente alla ricerca filologica dei “maestri” e alla correlativa svalutazione degli imitatori, intrinseca alla cosiddetta Kopienkritik si affiancano la messa in discussione dell’applicabilità al mondo antico delle categorie moderne di genio creativo e invenzione originale (Ridgway), lo studio delle variazioni nelle copie (Bartman. Gazda), la fallacia del concetto di copia fedele (Perry), vista l’associazione della statuaria con il decorum urbano, cioè con la contestualizzazione a diverse situazioni rappresentative e obiettivi dei committenti (che è l’esatto opposto della retorica corrente del “decoro urbano” secondo un modello unico perbenistico).

 

La stessa autorialità greca, spesso citata in ambito romano, diventa a questo punto un incremento di valore, di conformità a modelli estetici ben consolidati: la canonizzazione riduce l’importanza dei nomi biografici.

 

L’interesse di M. Curcio va quindi non tanto alle “rivalutazioni” di specifici momenti dell’arte romana, che pure spezzano il modello winckelmanniano e romantico (il realismo della scultura provinciale, il Kunstwollen della tarda antichità, ecc.), quanto ai modi in cui si esplica quella prima fase dell’«opera d’arte nell’epoca della riproducibilità»: le pratiche emulative, l’eclettismo e l’ibridazione dei modelli secondo l’occasione celebrativa e le aspettative dei fruitori.

L’arte romana è così letta sotto la categoria di “traduzione” eterolinguistica, di riproduzione intertestuale in serie adattata alle esigenze di presenza pubblica dei committenti – al limite, di combinatoria postmoderna pop.

La riproducibilità delle immagini ha a che fare con la formularità delle leggi e delle iscrizioni romane, è cioè un “attivatore di memoria” che garantisce, all’interno dei programmi decorativi e delle disposizioni giuridiche, la sedimentazione mnemotecnica di un messaggio e di un ordine, rende abitudinario un comportamento civico di obbedienza. Solo in questo ambito acquista un valore il più o meno perfetto ricalco di un modello (greco) precedente adattato al nuovo contesto, che nulla ha a che fare con la presunzione di originalità cara al collezionista dal Rinascimento in poi.

Vengono in tal modo studiate due tipologie specifiche (esemplificate nell’apparato figurativo in appendice). La prima è la scultura onoraria virile tardo-repubblicana, che unisce la nudità eroica del corpo (di derivazione policletea) al realismo del volto del dedicatario, sfidando la tradizione conservatrice ma corrispondendo alle necessità propagandistiche e rappresentative di élites militari e commerciali fortemente collegate alla Grecia e al mondo ellenistico in via di conquista – tipica la statua di Ofellio Fero collocata nell’Agora des Italiens dell’isola-mercato di Delo.

La seconda è la scultura imperiale, che esalta nella nudità la giovinezza e la trasmissione dinastica del potere nella famiglia giulio-claudia una qualità specifica del suo detentore (l’Ercole-Commodo dei Musei Capitolini, dove le predilezioni gladiatorie si mischiano con un progetto di divinizzazione). Un caso a parte è l’iconografia di Antinoo, costruzione intenzionale intorno a una biografia effettiva e misterica (sulla scia del culto di Adone e di Osiride), simbolo dell’eclettismo culturale ed etnico dell’età adrianea, che intendeva mostrare l’identità multipla greco-romana-egiziana dell’Impero e insieme esaltare metonimicamente la figura dell’efebo nella prima icona pop della storia figurativa.

 

Solo così contestualizzato l’oggetto storico-culturale dovrebbe essere esposto e “illustrato” nei musei, ribaltando un pregiudizio autoriale che, dal Vasari ai romantici, ha infestato la nostra percezione dell’arte antica e contribuito alla mitologia del “genio” e della bellezza trascendente.

 

Il libro di M. Curcio esonda però – con un surplus di attualità rispetto al mero interesse scientifico specifico – dall’indagine sull’arte antica proprio in quanto affronta su scala più vasta il problema dell’autorialità di qualsiasi creazione artistica, rifacendosi alle tesi di Barthes e Foucault sulla funzione-autore e la pluralità degli attori coinvolti nella fruizione di un’opera o di Deleuze su differenza e ripetizione. È proprio quest’ultimo, fra l’altro, a destituire il presunto primato dell’originale sulla copia come deliberato progetto di rovesciamento radicale del platonismo.

Il depotenziamento del concetto di unicità – fondamentale per tutti i rami di produzione artistica – risulta particolarmente fruttuoso nel caso romano, dove l’utilizzo di codici linguistici plurali è intrinseco a una pratica di assorbimento imperiale e di conflitto fra élites e clientele differenti, in cui il “vertere” è consapevole alterazione del paradigma greco originario – un po’ come avviene per la costruzione del teatro plautino e terenziano o per i poetae novi o per l’elaborazione di una filosofia morale adattata all’universalismo giuridico romano. L’exprimere è ricalcare innovando, facoltà di combinazione – come suggerisce, sulla scorta di Cicerone, Quintiliano e come sarà ripreso nei grandi dibattiti trecenteschi e cinquecenteschi sull’imitazione umanistica degli antichi.

 

Immagine di copertina: danzatrici della Villa dei Papiri