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La rivolta del sapere

MOVIMENTO

La rivolta del sapere

Da poco in libreria, per i titoli di Derive Approdi, Il ’68 sociale, politico, culturale. A seguire pubblichiamo un estratto: il dialogo tra Franco Piperno e Francesco Raparelli a partire dal documento di “Linea di massa” sul progetto di riforma della scuola e dell’università; opuscolo scritto nel 1968, esito del movimento studentesco nelle facoltà tecnico-scientifiche della Sapienza.

Francesco Raparelli. Partiamo da un giudizio appassionato: trovo il documento sull’università e la scuola di “Linea di massa” enormemente attuale. In primo luogo, perché individua tendenze che si sono affermate, propriamente, con il ciclo delle riforme neoliberali: quelle italiche del 1999-2001, del 2005, del 2008-2010. Molti degli elementi che emergono in primo piano – trasformazioni del modo di produzione, la domanda di competenze tecnico-scientifiche, la segmentazione tra percorsi formativi brevi, più specialistici, e percorsi formativi “polispecialistici” – sono stati, infatti, ampiamente confermati dalla riforma Zecchino-Berlinguer, in Europa dal Bologna Process, figli del Libro bianco di Jacques Delors.

In secondo luogo, colpisce il metodo, lo stile di ricerca. E questo perché oggi più che mai abbiamo bisogno di una diagnosi delle mutazioni capitalistiche dal punto di vista dei saperi tecnico-scientifici. L’assenza di questa diagnosi, di un equivalente funzionale della vostra “Commissione delle facoltà tecnico-scientifiche”, segna da tempo la scena universitaria. Fondamentale nel testo, per esempio, l’affondo sul salto tecnologico, settore (industriale) per settore: dove si è già affermato, dove manca, dove si sta ancora affermando. Sulla base di questa ricognizione, viene formulato il rapporto tra nuovo paradigma produttivo e istruzione.

Il testo si misura, questo semmai l’aspetto congiunturale, con una paese ancora poco scolarizzato. Ma lo fa individuando tendenze forti, come dicevo, che solo le riforme neoliberali delle ultime due decadi hanno realizzato. Possiamo dire, senza forzare troppo, che il movimento del Sessantotto e del decennio successivo, ha frenato, quanto meno ha differito la trasformazione dell’università e della scuola in aziende. Fenomeno del tutto dispiegato nei nostri giorni, in Italia come nel mondo quasi tutto.

Ovviamente, risulta evidente lo stile operaista del documento. Risuonano, cioè, le pagine di Operai e capitale di Mario Tronti – immagino che, all’epoca, fosse un maestro importante per molti di voi. Soprattutto nella parte finale, dove la crescita della composizione organica del capitale e la riforma universitaria sono definite risposte al decennio di lotte operaie che si era addensato tra il 1959 e il 1966. Tanto che il documento afferma: il decennio delle lotte dell’operaio massa ha determinato un’unificazione orizzontale della classe; solo il movimento studentesco del Sessantotto, nella sua alleanza con le lotte operaie, ha stabilito un’unificazione verticale della classe.

Aggiungo che, nell’ultima parte del documento, ci sono paragrafi dove risuonano i concetti più avanzati del Sessantotto europeo: per esempio, quelli raccolti e presentati da Hans-Jürgen Krahl – leader della SDS e l’allievo più brillante di Adorno – nelle sue Tesi. Seppur con riferimento alla proletarizzazione dei tecnici e del lavoro intellettuale, fenomeno più tardi messo in questione (penso al dibattito del Settantasette e degli anni successivi), il documento propone in modo chiaro una nozione ampliata di classe. E lo fa a partire dalla centralità assunta, nel processo produttivo, dal sapere, dalla cooperazione tecnico-scientifica. Già in queste pagine viene interrogato in modo fecondo il famoso Frammento sulle macchine dei Grundrisse di Marx, tradotto proprio nel Sessantotto da Enzo Grillo, poi militante di Potere Operaio. Penso, per esempio, ai passi in cui vengono smobilitati i confini del lavoro produttivo, e si insiste piuttosto – a partire dal salto tecnologico, dalle nuove figure produttive richieste dal capitale anche in Italia – sul lavoro come attività di sorveglianza e coordinamento, di regolazione del sistema di macchine automatizzato, sulla valorizzazione delle facoltà relazionali e linguistiche.

Rilievi critici, sono sincero, mi riescono difficili. Certo, molti aspetti del testo risultano più datati, congiunturali. Ma è indubbio che molti altri esibiscono una preveggenza importante.

Franco Piperno. Per riprendere il filo del discorso del Sessantotto, vorrei introdurre alcune considerazioni storiche, perché, come sempre, è la storia che aiuta a capire. Nelle facoltà scientifiche, in particolare a Fisica e a Chimica, la produzione era stata sempre rilevante, anche prima dello Stato unitario. Quelle italiane erano antiche università, fra le più antiche del mondo. Pensiamo poi all’Illuminismo napoletano, o a quello lombardo: l’Italia era al centro del dibattito più innovativo di quegli anni. Così come nei decenni successivi, e a volte a differenza di altri paesi europei pure avanzati, la produzione scientifica nelle università si era attestata su un buon livello. Durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale, ciò facilita l’immediata importazione in Italia delle innovazioni che si stavano imponendo negli Stati Uniti. Concretamente: molti fisici di origine italiana lavoravano negli Stati Uniti, già prima della guerra. Pensiamo a Fermi e al suo ruolo decisivo nel Progetto Manhattan. Negli Stati Uniti, la ricerca era in quegli anni organizzata interamente attorno al problema della bomba; diventa dunque impossibile svolgerla nelle università. La costruzione della bomba era, dal punto di vista industriale, un’impresa di tale portata da pretendere livelli organizzativi capitalistico-manageriali. In altri termini: con il Progetto Manhattan e il nucleare la ricerca scientifica si allontana dall’università.

Anche in Italia, lo stesso processo: dalle università verso il CNR (Centro Nazionale di Ricerca). Da tenere presente che il CNR era stato costruito dopo la Prima guerra mondiale, in analogia a quello che succedeva in Francia e in Germania. Un centro di ricerca fuori dall’università, e questo per la necessità di far fronte a problemi di natura organizzativa imposti dall’apparato militare-industriale. L’aura che c’era nelle università diviene incompatibile con le nuove esigenze produttive. E ciò era già vero, come dicevo, durante la Prima guerra mondiale, quando per la prima volta nella storia d’Europa l’applicazione tecnico-militare della scienza – l’introduzione del telefono e del carro armato, le bombe asfissianti, ecc. – impone allo Stato di avere un comando diretto sulla ricerca. Venivano creati dunque i consigli nazionali della ricerca, che non erano certo il dopolavoro dei professori universitari, che col tempo diventano sempre più importanti, e nei nostri giorni determinanti. Da tener presente, ancora, che negli anni Trenta ogni università americana aveva una sua piccola macchina acceleratrice per studiare le alte energie, le particelle. Ora non è più così, perché i livelli di energia necessari sono enormi, troppo costosi da ottenere.

Dico tutto ciò per collocare il Sessantotto, in particolare le componenti studentesche che insistono nelle facoltà tecnico-scientifiche. L’opuscolo di “Linea di massa”, esito di un lungo lavoro collettivo, è redatto in forma anonima. Questo modo di procedere chiarisce come nell’università già si sentiva, anche quando non se ne aveva piena consapevolezza, il peso dello spostamento della ricerca scientifica altrove. Per esempio a Roma o a Pisa, il Comitato Nazionale dell’Energia Nucleare era stato creato al di fuori dal CNR, per ottenere un’efficienza che questo non aveva. Rispetto a quando il fascismo aveva creato il CNR, o l’Accademia di Italia (di cui Marconi era il presidente e Fermi il vicepresidente), tutto era cambiato. Molti dei grandi scienziati – penso a Gödel e a Turing, o a Fermi – lavoravano direttamente nella ricerca militare.

Che nelle facoltà tecnico-scientifiche, negli anni Sessanta, ci fosse una sensibilità anticipatrice andrebbe addebitato non tanto a una particolare intelligenza degli studenti di queste facoltà – anche giovanissimi che non erano particolarmente colti o impegnati avevano trovato, nell’università e nel movimento, un momento di profonda trasformazione della loro coscienza. Quanto, piuttosto, alla condizione materiale di questi ultimi: la continua riorganizzazione dei corsi; il CNEN che premeva e, di fatto, dirigeva l’università; la grande maggioranza delle cattedre, quasi l’80%, ormai in mano ai fisici nucleari. La rivolta degli studenti delle facoltà scientifiche, in particolare di quelli coinvolti nella redazione di questo documento, era una testimonianza della resistenza a quanto stava avvenendo. Mentre nelle facoltà umanistiche prevaleva la critica all’università gentiliana (col senno di poi, come non dirci che la riforma Gentile era assai migliore dei progetti di Sullo e dei ministri DC?), non era così nelle facoltà tecnico-scientifiche. Queste ultime erano piuttosto investite dalla riforma americana; dunque la bomba, lo spostamento della ricerca fuori dalle mura universitarie, l’università considerata luogo di saccheggio dalle grandi istituzioni di ricerca, in particolare il CNEN (tra l’altro diretto da Ippolito, che era un manager di grandi capacità e che aveva fatto una lunga esperienza negli Stati Uniti).

F.R. Nel documento, però, vengono riportati dati del 1966 che ritraggono un livello di scolarizzazione ancora basso (rispetto agli Stati Uniti, alla Francia, ecc.), ma anche una prevalenza numerica degli studenti delle facoltà umanistico-sociali rispetto a quelli delle facoltà tecnico-scientifiche. Facoltà decisive per la trasformazione produttiva del paese e, come ci hai spiegato, della ricerca militare, ma ancora poco frequentate…

Assemblea studentesca davanti all’Accademia di Belle Arti in via Ripetta, Roma, marzo 1968

F.P. Sì, indubbiamente, ma si tratta di un problema più generale. Tieni in conto, sempre per inquadrare quegli anni, che c’era stata la riforma Fanfani nelle scuole e che, per la prima volta, queste erano davvero penetrate nel tessuto sociale, per esempio nel meridione. In conseguenza, giungevano all’università anche giovani, socialmente sfavoriti, che di norma non ci sarebbero arrivati. Pensa alla rivoluzione culturale in Cina: gli studenti, mandati nei piccoli paesi, insegnavano il cinese ai contadini poverissimi che, successivamente, diventano forza-lavoro istruita a partire dalla quale viene impiantata la grande industria cinese e multinazionale. Succede qualcosa di simile con le facoltà tecnico-scientifiche: si riempiono di ragazzi che avevano frequentato gli istituti industriali – prima si accedeva con i licei. È vero che c’erano meno ragazzi che si iscrivevano alle facoltà tecnico-scientifiche, ma l’accesso si era socialmente ampliato, e rafforzato. C’è da dire, tra l’altro, che queste ultime imponevano una disciplina assai più dura: alle lezioni succedevano i laboratori, il numero di ore che passavi in facoltà rendeva impossibile lavorare o fare altro. E poi erano ancora agli inizi. Successivamente, nei tardi anni Sessanta, le università italiane si moltiplicano.

C’erano dunque delle tendenze che noi avvertivamo, un po’ per la sensibilità che hai quando sei giovane, un po’ perché nell’Italia degli anni Sessanta le organizzazioni giovanili dei partiti esistevano davvero, erano veri luoghi di discussione. Per esempio, a Pisa, io stavo nella sezione “Centro” del PCI, dove incontravo e avevo modo di discutere con alcuni miei professori dell’università (Gozzini e altri). La consuetudine del confronto con loro mi aiutava non poco a capire cosa stava accadendo, le riforme in cantiere, le mosse dei governi.

Un’altra caratteristica italiana: la promozione senza fine delle riforme del sistema dell’istruzione pubblica. Arrivo a Pisa nel 1962, e si parlava della riforma; mi sono laureato, e si parlava di riforma; mi specializzo e poi sono professore, e si continua a parlare di riforma. Il carattere isterico del riformismo italiano. Per misurare l’efficacia di una riforma universitaria, occorrerebbero anni, e invece… Se ogni ministro che arriva fa una riforma, il risultato non può che essere disastroso. Vengono sempre salvati dal disastro, ovviamente, alcuni luoghi privilegiati: per esempio, la Normale di Pisa, oppure in America le dieci università private più prestigiose, che hanno piuttosto continuato secondo la linea “tradizionale”, in cui la formazione conta più dell’informazione. Vengono salvate, cioè, dalla specializzazione imposta dalle riforme neoliberali, che rasenta l’idiozia e sancisce la debolezza della forza-lavoro (qualificata).

F.R. Alcune questioni: puoi chiarire meglio il riferimento, decisivo nel documento, al progetto dei riformatori di segmentare i livelli della formazione universitaria? Già all’epoca si stava ideando la distinzione tra laurea di primo e di secondo livello, così come poi istituita dal 3 + 2 (riforma Zecchino-Berlinguer)? Come dicevo, forte è l’impressione che molti dei cardini delle riforme neoliberali degli anni Novanta – il 3 + 2, il numero chiuso, ecc. – fossero già in preparazione nei Sessanta. Poi, però, interviene il Sessantotto e tutto si ferma, o almeno viene differito, giusto?

F.P. Beh, il movimento scompagina questo piano…

F.R. A proposito: il piano governativo che presentate nel testo era già articolato in un progetto di riforma? O c’erano solo delle bozze?

F.P. La via maestra era sicuramente il riferimento agli Stati Uniti, quindi la segmentazione degli studi universitari. Lo sviluppo industriale italiano, tra l’altro, in quegli anni non richiedeva una qualificazione propriamente universitaria, tanto meno dell’università gentiliana (qualificazione complessivamente “alta”). C’era bisogno di qualcosa di più delle scuole superiori, ma qualcosa di meno del dottore. In Italia, invece, la vecchia laurea era comparabile, non col master, ma con il dottorato degli Stati Uniti. Quindi, in qualche modo, l’università era il risultato della società borghese, ma ancora parzialmente caratterizzata da esigenze proprie dell’aristocrazia intellettuale. Formazione del tutto superflua per l’organizzazione industriale. Ovviamente, c’erano anche professori che si opponevano al cambiamento in senso americano. Soprattutto a Roma, in diversi sostenevano la validità del vecchio sistema italiano dell’istruzione.

Aggiungo che negli Stati Uniti l’università aveva una nascita recente, ed era di impronta inglese e clericale. In Italia l’università era spesso nata, a parte Roma, dalla città-stato, dal comune; Bologna, per esempio. Aveva dunque sue tradizioni forti. L’università americana era stata costruita d’autorità. L’università dei comuni italiani era stata piuttosto costruita dall’iniziativa degli studenti (naturalmente figli dei mercanti e della borghesia al suo stato embrionale): esito di esigenze di auto-formazione, di tensioni sociali, dell’affermazione di nuovi soggetti nomadi.

F.R. Torno alla comparazione tra i movimenti di cui ho avuto la fortuna di esser parte e la vostra riflessione nel movimento del Sessantotto. I movimenti studenteschi e precari che si oppongo alle riforme neoliberali dell’università, della ricerca e della scuola iniziano nel 2005, contro la riforma Moratti che precarizza la ricerca, appunto. Ma poi esplodono, letteralmente, nel 2008, contro i tagli previsti dalla Legge 133, il conseguente blocco del turnover, l’aumento delle tasse, il dissesto delle strutture scolastiche e universitarie. Quindi nel 2010, contro la riforma della ministra Gelmini, che neoliberalizza in termini definitivi l’università italiana, imponendo i sistemi di valutazione permanente e la differenziazione dei finanziamenti pubblici in base alla produttività degli atenei.

Come dicevo anche prima, molte sono le similitudini. Non fosse altro che i movimenti degli anni zero riprendono con grande forza l’analisi, da voi introdotta, sul general intellect, sull’ampliamento del concetto di produzione, sul sapere sociale e il linguaggio come principali risorse produttive. Negli anni zero, per intenderci, non c’è più discussione nell’università che non parta dalla piena affermazione (sociale) dell’intellettualità di massa, perno dei rapporti capitalistici di sfruttamento.

Il tema nuovo che emerge, indubbiamente, è la precarietà, vera e propria forma di governo neoliberale della forza-lavoro qualificata. Dunque il radicale impoverimento del lavoro tecnico-scientifico, linguistico, affettivo. Problema dissimile, credo, da quello che vi ponevate nel Sessantotto e negli anni a seguire. Anni, occorre ricordarlo, di grande espansione industriale, dei consumi, ecc. Per afferrare i problemi che abbiamo oggi di fronte, e che il movimento dell’Onda nel 2008 ha fronteggiato con grande coraggio ma senza successo, vale forse la pena riabilitare la nozione di proletarizzazione?

Insisto, però, e torno su un tema da me posto all’inizio di questa conversazione: quale rapporto tra la vostra riflessione e il Sessantotto tedesco, Krahl e la sua analisi del lavoro tecnico-scientifico? E insisto, perché le nozioni che il Sessantotto (tedesco ed italiano) elabora, leggendo i Grundrisse o il Capitolo VI inedito del Capitale, costituiscono il lessico fondamentale – seppur con livelli di consapevolezza assai eterogenei – dei movimenti degli anni zero…

F.P. È sicuro che il nostro riferimento privilegiato fuori dai confini italiani era la Germania, Krahl come Karl Heinz Roth (ed era già stata la Scuola di Francoforte). Non tanto un’adesione ai loro risultati, quanto una condivisione del metodo di lotta. Per esempio, l’affrontamento diretto e pubblico dei grandi professori, Adorno tra tutti. Nell’esperienza italiana i professori erano stati esclusi, un po’ perché non sempre brillavano, un po’ per gli errori commessi dal movimento.

Quando parliamo del nostro uso di Marx, poi, non bisogna mai dimenticare l’importanza della sua Critica al programma di Gotha. In particolare la provocazione secondo la quale c’è più comunismo nel mir russo che nel Partito Socialdemocratico tedesco. Nelle sezioni di partito, neanche a dirlo, tutto ciò non ce lo avevano mai insegnato. Ancora: ovviamente era per noi fondamentale Mario Tronti. Non tanto per quanto affermava sulla politica italiana, ma per la sua capacità di farci scoprire Marx, le sue pagine pionieristiche, ostili allo stile culturale ingessato del PCI.

Bisogna infine ricordare che il Sessantotto non era sbocciato improvvisamente. I moti di luglio Sessanta, indubbiamente, ma poi c’era stato uno “sgocciolio” di occupazioni, a Pisa nel 1964, poi a Trento, poi anche nel Sud, a Palermo. Occupazioni partite per ragioni quasi sindacali quali l’aumento delle tasse. Rapidamente, nella misura in cui si realizzavano, divenivano esperienze di democrazia diretta. Oltre alla centralità del lavoro tecnico-scientifico, questo era l’altro aspetto enormemente accattivante per noi. Fenomeno, tra l’altro, che sempre si ripresenta nelle rotture rivoluzionarie. E che negli anni Sessanta spesso si traduce, per esempio nei movimenti americani, ma anche in Italia nei Settanta, nell’affermazione di forme di vita radicalmente alternative.