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L’eroina in farmacia

Tre articoli datati 1978, e pubblicati dal “Corriere della Sera” e da “Argomenti Radicali”, in cui Elvio Fachinelli fornisce una lettura “di rottura” della diffusione del consumo e della dipendenza da eroina nell’Italia degli anni Settanta. Definendo l’eroina come vera e propria cultura, Fachinelli avanza una proposta che fa emergere con chiarezza quella che lui stesso definisce «una comunanza tra organizzazione mafiosa e trasgressività culturale». La proposta è quella della vendita di eroina in farmacia. Un posizionamento radicale e non ideologico all’interno di un dibattito ancora attuale

L’eroina in farmacia

 

Le morti per eroina continuano. È uno stillicidio ormai abituale che nella sua insistenza può evocare certi riti sacrificali, per esempio quelli aztechi in onore del dio Sole, in cui con tranquillità si uccidevano giovani. In questo senso, le morti per eroina si rifanno a una difficoltà generale della nostra società, la strozzatura del passaggio tra le generazioni, testimoniata, tra l’altro, dalle semplici cifre della disoccupazione giovanile.

Ma non basta dire questo. Altrimenti si finisce per aderire, in qualche modo, all’immagine di «giovane, drogato e anche terrorista», che funziona spesso da mastice provvisorio per una società incerta e divisa come la nostra. È la funzione che la “droga” ha per esempio in provincia. È dunque necessario andare più a fondo e in questo articolo intendo pormi, seppure in modo sommario, tre domande fondamentali: «che cos’è l’eroina? che cosa si è fatto e si fa nei confronti dell’eroina? che cosa sembra proponibile?»

Ciò che dico nasce in buona parte dagli incontri e dalle discussioni con alcuni eroinomani, ex eroinomani e psicologi nella casa occupata di via Ciovassino a Milano.[1]

 

L’eroina costituisce essenzialmente e in primo luogo una cultura.

 

Questa è una premessa fondamentale, che di solito viene trascurata, se non addirittura ignorata. Come cultura, essa rientra nell’ambito delle molteplici culture giovanili cresciute negli ultimi anni nel nostro paese. Non una cultura marginale, o laterale, una sottocultura, e neppure una cultura alternativa. Ma una cultura per così dire interstiziale, secreta da tutti i pori della nostra società. Tant’è vero che, se si va a parlare con i genitori di eroinomani, si trovano perlopiù persone sbalordite o situazioni anonime: esattamente come nel caso di genitori di brigatisti o di rapinatori.

Ora, gli elementi significativi di questa cultura mi sembrano essere, nelle persone che ho conosciuto, da un lato una particolare trasgressività nei confronti della cultura dei padri e, dall’altro, una impostazione o attesa di tipo rudimentalmente estatico, perseguita attraverso un’azione chimica sul corpo. La trasgressività si colora volta a volta di una serie di atteggiamenti quali: clandestinità, rischiosità, unicità (oppure: essere tra noi), essere da parte e anche (ma solo in modo sfumato) essere contro. È lo strato più esterno e percepibile e circonda, come il guscio la noce, l’impostazione di attesa.

Poiché la strada percorsa in questa direzione passa, come si è detto, attraverso l’influsso chimico sul corpo, è tipico di essa la molteplicità delle prove effettuate, con sostanze svariate e le più impensabili (aspirina, optalidon, amfetamine, etere ecc.). È questo che fa pensare a molti che esista nelle sostanze stesse una forza di trascinamento, mentre invece i passaggi, a volte rapidissimi, dipendono da colui che le sta saggiando. Si arriva così abbastanza rapidamente, e anche di colpo, al cuore nero di questa cultura, l’eroina, avvertita di solito, per lo stato di dipendenza che crea, come il termine ultimo della ricerca. Con l’eroina, e proprio per lo stato di dipendenza profonda, fisiopsichica, che s’instaura, sembra realizzarsi uno dei fantasmi segreti di questa cultura: vale a dire il raggiungimento, attraverso momenti parziali, di uno stato di unità, completezza, fusione senza tempo che da sempre le religioni hanno riconosciuto come stato estatico. Dal punto di vista individuale, non mi par dubbio che tale fantasma tenda spesso a ricreare le condizioni di un rapporto totale con il corpo della madre, o addirittura con il suo interno lago amniotico. Mi è stato per esempio raccontato tempo fa un sogno, in cui la consegna della droga avveniva dentro una piscina secca: immagine residuale, tragicamente contigua a quella della “commare secca”,[2] di quel mare puro in cui talora si sogna di nuotare.

 

Legata a una strada chimica, questa ricerca è dunque segnata da successivi miraggi e la sua conclusione è il legame, questo sì strettissimo, con qualcosa che, in concreto, giorno dopo giorno divora chi cercava nutrimento.

 

Comincia il cerchio infernale e ben noto dell’eroinomane. Non più soltanto farsi di ero – espressione in cui mi sembrano risaltare quelle connotazioni di dolcezza, sensualità dolce e diffusa, che colpiscono spesso chi conosca un o una eroinomane; si aggiunge il fare stereo, replica non soltanto fonetica della precedente, ma suo doppio inevitabile in cui si condensa l’attività di furti (di apparecchi stereo, e altro), rapine, assalti e così via, a cui l’eroina costringe. È un agire frenetico che a breve scadenza comporta la sua sanzione: il carcere, l’ospedale, il manicomio. Per molti, la morte. Unica salvezza per alcuni (o forse meglio, deviazione) lo spaccio ad altri, vale a dire l’assunzione, in veste di venditori al minuto, nella grande ditta mafiosa che produce e distribuisce su scala mondiale l’eroina.

Se la situazione è questa, se abbiamo davanti una cultura, le misure finora adottate sembrano in buona parte laterali, e utili soltanto da un punto di vista ideologico e politico. La battaglia di repressione condotta dai vari nuclei di polizia fornisce al più immagini di intervento buone per la tv, e mette alla gogna alcuni esemplari sfortunati di “poveracci”; più in profondo, ed è questo uno degli aspetti più inquietanti del problema, risponde pienamente alle tendenze autopunitive e suicidiarie già presenti nella cultura stessa. Quanto ai centri antidroga, o di medicina, sociale e di prevenzione, che sono sorti e si progettano in molte regioni e città, sembrano più in grado di fornire uno stipendio statale o parastatale a un nuovo strato “terziario” in sviluppo, che di incidere significativamente sulla situazione. Fatalmente, vengono a contatto con una piccola minoranza di eroinomani; con l’approccio di tipo baldanzosamente psicologistico, o psicoterapico, che in molti casi li contraddistingue, finiscono per costituire, temo, una sorta di surrogato derisorio di quest’attesa così totale che incrociano. E infatti in molti casi la loro azione sembra concentrarsi nella somministrazione di qualche supposto sostitutivo dell’eroina, che per ironia entra spesso a far parte di quei farmaci-miraggio, la cui lista è già in partenza così fitta.

 

Non ci si “disintossica” tanto facilmente di una cultura.

 

Nei due casi, infatti, ciò che ci si propone è in fondo la soppressione o la scomparsa di una cultura; in realtà, se ne perpetua la segregazione nelle condizioni peggiori. Si raggiunge paradossalmente il risultato di cui vive e in cui prospera l’industria mafiosa. Ciò che occorre è qualcosa che, non proponendosi di stroncare, sopprimere, far tabula rasa, riesca sul serio a rompere la comunanza, che ora esiste, tra organizzazione mafiosa e trasgressività culturale. Qualcosa che cominci a rendere superflua, anche in un solo punto, l’organizzazione mafiosa. In termini economici, bisogna dunque che la merce eroina della mafia incontri sul mercato un’altra merce eroina. Indipendente. Non il «libero mercato dell’eroina»; ma un mercato controllato, com’è attualmente quello degli altri stupefacenti (morfina ecc.).

 

Dopo tutto l’eroina, nonostante il suo nome, è uno stupefacente come gli altri.

 

In breve, ecco la proposta che mi piacerebbe veder discussa su questo giornale, anche in relazione alle esperienze, positive o negative, di altri paesi: produzione controllata dal ministero della Sanità; distribuzione esclusiva in farmacia; vendita esclusiva su ricetta medica.

L’obiezione principale che mi è stata fatta sinora, nel gruppo di discussione a cui ho partecipato, è che in questo modo si aumenta, insieme alla responsabilità, anche il potere della corporazione medica. Ne sono consapevole; ma è un potere abbastanza controllabile, se si vuole, a differenza di quello dei carrozzoni psicosociologici che molti politici stanno covando, in cuor loro o segretamente, in vista di «combattere efficacemente la droga».

 

 

 

Non salva il drogato la «cura del mondo»[3]

 

In questi giorni ho letto il diario di un giovane eroinomane, che sarà pubblicato, credo, dalle edizioni Squilibri.[4] In data 3 novembre ’75 trovo scritto: «Oggi Michele mi ha fatto una proposta che sono costretto a valutare se non voglio continuare a rubare motorini e stereo: spacciare. Lui conosce uno che gli dà fino a 5 grammi di eroina a credito, cioè gliela paga dopo che ha venduto. Gli deve tornare 60.000 lire al grammo. La roba si vende regolarmente a 80.000 lire al grammo. A noi basta bucare e campare, non abbiamo grosse pretese anche perché si è un po’ costretti se si vuole tirare avanti. Così oggi sono stato in Gabrio con lui e abbiamo spacciato dalle 2 alle 7 ben 3 grammi. Tolto il buco mi sono avanzate 30.000 lire e mi sono fatto abbondantemente. Ora devo calmarmi un po’ con la roba nel senso che vado troppo forte e se continuo così campo poco».

Ecco, in queste poche righe asciutte c’è l’essenziale del problema dell’eroina oggi. Nel rispondere ai miei interlocutori, vorrei che i lettori avessero sempre presente questa precisa descrizione.

 

Ciò che salta agli occhi, mi pare ovvio, è l’aspetto economico della situazione. Qui l’eroina è una merce, o meglio, in quanto proibita, una supermerce, il cui scambio passa necessariamente per il furto o lo spaccio.

 

È dalla constatazione di questo nesso, finora inscindibile, che sono partito nel mio articolo precedente.

Ora, nelle risposte dei miei interlocutori, politici o medici, tutti uomini che si vogliono con i piedi piantati per terra, di questo dato reale estremamente semplice non c’è traccia. È un’assenza curiosa, paragonabile soltanto alla singolare reticenza degli stati e delle organizzazioni interstatali di fronte alla entità e ai profitti dell’industria mafiosa (di tutti gli stati, e non soltanto degli stati capitalistici, se sono vere le voci correnti secondo le quali la Cina Popolare è una forte esportatrice di derivati dell’oppio).[5] Ed è un’assenza che si accoppia facilmente, per esempio in un marxista come Luigi Cancrini, con la negazione recisa di un problema di cultura. Secondo lui, io avrei conosciuto giovani dotati di qualche “alone culturale”, un po’ romantici, un po’ demonici, mentre in sostanza la questione riguarderebbe “unghie” e “capelli”, insomma scorie “banali” o “sciocche” del grande corpo dell’unica cultura nazionale. Credo che neppure il generale Custer si sia mai espresso in questi termini nei confronti degli indiani ma dimenticavo, forse nella cultura di Cancrini intervengono quegli storici «pidocchi nella criniera di un nobile cavallo», ai quali Togliatti così graziosamente equiparava i suoi oppositori.[6]

Il riconoscimento di una cultura dell’eroina è veramente una premessa indispensabile per capirne qualcosa. Proprio perché si tratta di una cultura, la proposta dell’eroina in farmacia non intende ovviamente risolvere i problemi impliciti nell’esistenza di essa in larghi strati di giovani, non soltanto metropolitani; non credo mi si possa imputare di non conoscere il paesaggio in cui essa cresce: intendo semplicemente tagliare «anche in un solo punto», e qui mi permetto di citare il mio articolo,

 

«la comunanza, che ora esiste, tra organizzazione mafiosa e trasgressività culturale».

 

Mi si obietta: «ma la morfina, che è già in farmacia, è anch’essa oggetto di mercato illegale». Bella scoperta! Se ne dovrebbe forse dedurre che la situazione non cambierebbe per nulla, se anche la morfina fosse tolta dalle farmacie? E perché nessuno dei miei interlocutori ha avanzato una sola ragione per mantenere l’eroina in quello spazio di oggetto proibito, mitico-magico, oggetto unico insomma, che la trasforma di colpo in supermerce, date le premesse trasgressive a cui ho accennato?

Inoltre, è solo il riconoscimento di cultura che fa risultare immediatamente superfluo e irrealistico quel costoso apparato di prevenzione e protezione che viene da più parti progettato. È una parte non trascurabile di ciò che ho chiamato una volta «sistema genitoriale accessorio», un sistema “terziario” volto a surrogare sempre più i compiti della famiglia, messa in crisi nelle moderne società di massa. Che cosa si propongono i miei interlocutori? Che cosa manca, che cosa occorrerebbe fare?

Ascoltiamoli: «Carenze politico-sociali, preventive, assistenziali, pedagogiche, urbanistiche, con rimessa in questione di gravissimi problemi personali e generali, che tutti preferiamo ignorare piuttosto che affrontare» (professor Alberto Madeddu, primario neuropsichiatra a Limbiate e direttore del Centro antidroga); «La scuola non funziona e le madri sarebbero da eliminare» (don Gino Rigoldi, cappellano del carcere Beccaria); «Equipe psicosociali, a Milano una ventina, che devono svolgere un’attività di aggancio e lavorare in concomitanza con l’ospedale contiguo, occupandosi di tutti i comportamenti devianti e non soltanto delle tossicomanie» (professor Aldo Giobbi, vicepresidente del comitato regionale lombardo per la prevenzione delle tossicomanie).

Qui occorre essere molto franchi.

 

Ciò che queste rispettabili persone si propongono, nella varietà dei loro progetti, anche mammicidi, è nientemeno che la cura del mondo, un compito in cui concorrono uniti progressismo marxista e salvazionismo cristiano.

 

Insomma le principali componenti di quel cattomarxismo che è stato in questi anni ed è tuttora, questo sì, la cultura dominante nel nostro paese. Ora, questa cultura si pone qui un compito chiaramente impossibile, oltre che non auspicabile, destinato perciò a convertirsi rapidamente, pena la disperazione, in redentorismo missionario. Un amministratore pubblico e presumibilmente laico come il professor Giobbi vede come unica soluzione il volontariato, e indica l’esempio di una santa suora di Bergamo… Peccato che storicamente i missionari siano stati troppo spesso all’ombra dei fucilieri.

Per concludere, un’immagine dirà tutto. Il professor Cancrini ha forse pensato di colpirmi paragonandomi a Lewis Carroll che, a una bambina fradicia, offre un pezzetto di carta assorbente.[7] Non sa quanto mi lusinghi. Certo, molti sarebbero corsi a prendere un asciugamani, o un accappatoio, e il professor Cancrini avrebbe fatto un corso sui pericoli dell’acqua: mentre il reverendo del carcere e la suora santa avrebbero forse pensato di fermare il fiume alla sua sorgente. L’autore di Alice sa che la bambina, una volta a casa, si asciugherà e si cambierà, o deciderà di restare bagnata. Non è questo l’importante. L’importante è quel contatto amichevole, con cui in un attimo la bambina supera ridendo il suo essere fradicia. Auguro ai miei interlocutori, come a tutti noi, di avere anche solo una volta nella vita la grazia e l’efficacia di questo gesto di Carroll.

 

 

 

 

Il coltello dell’eroina[8]

 

Che cosa succede nella mente di un lettore, quando legge nel suo quotidiano un titolo come questo: «La droga acceca?» La notizia, letta subito dopo, chiarisce, più o meno bene, di che cosa si tratta; ma l’impatto del titolo è in primo luogo di tipo emotivo e parla all’immaginario. Ora, questo coinvolgimento dell’immaginario è forse uno dei nodi più duri e decisivi che si presentano nel campo della “droga” in generale e dell’eroina in particolare.

Come ho già scritto, l’eroina funziona nel mondo contemporaneo come una supermerce, prodotta da un’industria internazionale: ma funziona come tale perché è inserita in un punto cruciale dell’immaginario comune. In quello dei consumatori, in primo luogo (e per gli svolgimenti su questo punto mi permetto di rimandare al mio articolo sul Corriere della Sera del 12 gennaio); ma anche in quello di coloro che non sono consumatori e che anzi condannano la “droga” con tutte le loro forze. Ecco la ragione principale, mi sembra, delle difficoltà e dei fraintendimenti inauditi ai quali può andare incontro chi osa riportare, come ha fatto il sottoscritto, le riflessioni nate da una serie di incontri, non pedagogici né assistenziali, con alcuni giovani tossicomani.

È questo coinvolgimento che impedisce per esempio di prendere in considerazione alcuni dati elementari. Ecco, ai primi di febbraio 1978, il caso della «droga che acceca»: si trattava di eroina “tagliata”.

 

Che cosa significa, e perché viene “tagliata”  l’eroina?Rispondere a questa domanda è già entrare nel vivo del problema reale, fuori della sua rappresentazione immaginaria.

 

La prima ragione del “taglio” è di ordine tecnico: dato che l’eroina è attiva a una dose di pochi milligrammi, deve essere mescolata ad altro materiale, in modo da raggiungere una massa che consenta una “confezione” maneggevole. La seconda ragione, ben più significativa, si lega invece in modo preciso allo statuto attuale dell’eroina come merce illegale: per non essere costretto a rubare freneticamente, visto il prezzo di questa merce, il consumatore-spacciatore medio, dopo aver trattenuto per sé il quantitativo occorrente, aggiunge al resto uno o più materiali (come stricnina, amfetamine, chinino ecc.) che ridanno peso alla confezione e simulano, almeno nelle intenzioni, l’effetto dell’eroina. A questo punto rivende la confezione “preparata”. Come lui si comporta il successivo acquirente: di conseguenza, si ha un progressivo inquinamento della merce nei vari passaggi dal grossista al piccolo consumatore.

 

Di qui nasce anche il paradosso, ben noto ai tossicologi,[9] per cui gli effetti patologici dell’eroina non sono, in grandissima maggioranza, dovuti a overdose, sovradosaggio, di eroina, come capita di leggere spesso nei giornali, ma alle sostanze che l’accompagnano e alle condizioni in cui viene iniettata.

 

E così gli “incidenti” del tipo anche gravissimo verificatosi nel Veneto nelle scorse settimane. Se questi sono dati certi, anche da questo punto di vista torna a porsi il problema dell’eroina in farmacia. Non certo come soluzione (e scomparsa) di una cultura, le cui ragioni non si lasciano racchiudere nell’uso e nell’abuso di una determinata sostanza. Ma come semplice, preliminare equiparazione di questo stupefacente-mito agli altri; come mezzo per rompere, almeno in un punto, il mercato mono- od oligo-polistico attuale, i cui profitti straordinari sono precisamente garantiti dal regime di illegalità e repressione vigenti; e infine, come mezzo preventivo – fosse pure in un solo caso! – rispetto a disastri come quelli riportati quasi quotidianamente dai giornali. Una tendenza simile si può forse riconoscere anche altrove, se è vera la notizia, data di recente da una rivista medica, secondo cui negli Stati Uniti sarebbe stata concessa l’autorizzazione alla sperimentazione farmacologica e clinica.

Mi si è obiettato: «ma in Gran Bretagna questa soluzione è fallita». Rispondo ai miei troppo sbrigativi obiettori: «in Gran Bretagna sono fallite in primo luogo le “cliniche dell’eroina”, alle quali sono finalizzate le prescrizioni di eroina, effettuate dai soli medici di queste cliniche; esattamente come altrove falliscono le «cliniche del metadone» e come dappertutto falliscono i vari “centri”, nei quali ci si propone, come ho detto, uno scopo incongruo, vale a dire la “disintossicazione” da una cultura».[10]

Si è scritto: «Su nessuno degli argomenti relativi alla “droga” c’è forse una convergenza così diffusa come su quello relativo all’esito dei programmi di trattamento, costantemente definiti con termini che oscillano tra il “deludente” e il “fallimentare”. Gli studiosi e gli operatori del settore concordano nel giudizio che interventi anche estremamente costosi, sofisticati e impegnativi ottengono effetti molto scarsi e forse neppure misurabili (i risultati positivi potrebbero essere conseguenza dei trattamenti, ma potrebbero anche essere conseguenza del fatto che il soggetto era facile)».[11]

Ma veramente è pensabile e sostenibile che non vi sia alcuna differenza tra una situazione in cui l’eroina è totalmente illegale, criminalizzata e mitizzata insieme, e una situazione in cui essa è, almeno in parte, sotto il controllo della comunità? Una situazione in cui tutto è retto dall’industria mafiosa e dai suoi mezzi di corruzione e di intimidazione, e una situazione in cui perlomeno una parte del mercato sfugge a quest’industria? Nelle farmacie, non si può pensare di fare il conto dell’eroina entrata e uscita, come si fa attualmente il conto della morfina o del metadone? I carabinieri di Pavia non hanno certo speso molto fatica, alcune settimane fa, per rintracciare i medici che ricettavano con troppa “facilità” il metadone…

Vorrei concludere con un esempio diverso da quello ormai classico, ma per noi lontano, del proibizionismo alcolico americano.

 

Dire di no all’eroina in farmacia equivale spesso, mi pare, ad affermare che la posizione del matrimonio non cambia nel passaggio dalla situazione di legame indissolubile a quella in cui è possibile divorziare.

 

Certo, il divorzio non risolve i problemi della coppia, né quelli della convivenza umana; ma mi sembra difficile sostenere che esso si sia rivelato, qui in Italia e anche altrove, superfluo, inutile o dannoso. I discorsi che taluni fanno contro l’introduzione dell’eroina in farmacia mi ricordano le previsioni di disastri e di sventure che vari studiosi incautamente fecero prima dell’introduzione del divorzio. Con la differenza, forse, che nel disastro ci siamo già, e che non ci aiutano certo a uscirne l’inerzia, il fatalismo e le grida di buone intenzioni.

 

Corriere della Sera, 12 e 25 gennaio 1978 (prime due parti); Argomenti radicali, 2, 6, febbraio-marzo 1978, pp. 74-76 (terza parte).

 

 

 

 

[1] Via Ciovassino, nel cuore del centro storico di Milano, era la sede del coordinamento dei Circoli del proletariato giovanile, i predecessori degli odierni centri sociali autogestiti. Dall’esperienza dell’occupazione (1976) nasceranno una serie di centri, tra cui il Centro di lotta all’eroina richiamato nel testo.

[2] La «commare secca» è il titolo del primo film di Bernardo Bertolucci (1962), incentrato sul rinvenimento sul greto del Tevere del cadavere di una mondana assassinata.

[3] L’intervento di Fachinelli era introdotto dalla seguente nota redazionale: «In un articolo pubblicato sul Corriere del 12 gennaio lo psicanalista Elvio Fachinelli apriva un dibattito sulla diffusione della droga nella nostra società sostenendo che l’eroina costituisce una forma di cultura, cioè una visione del mondo non sopprimibile con la semplice disintossicazione, e proponendo la produzione controllata e la vendita in farmacia con ricetta medica dello stupefacente. Nella stessa pagina ribattevano alle tesi di Fachinelli il prof. Enzo Gori dell’Istituto di farmacologia dell’Università di Milano, don Gino Rigoldi cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, il dott. Enzo Pontaccio della sezione narcotici della Questura di Milano e il neuropsichiatra Alberto Madeddu. Successivamente abbiamo intervistato: il 18 gennaio il prof. Aldo Giobbi e il prof. Luigi Cancrini, 20 gennaio, rispettivamente rappresentanti delle commissioni della Regione Lombardia e della Regione Lazio per la cura delle tossicomanie. Pubblichiamo ora l’intervento conclusivo di Elvio Fachinelli».

[4] C. Ambrosi, Limoni neri. Due anni con l’eroina, Squilibri, Milano 1978.

[5] Si veda la relazione di Eugenio De Paolini Del Vecchio al recente convegno di Lisbona sulle tossicodipendenze: E. De Paolini Del Vecchio, Per una strategia contro la droga, in Il Ponte, 34, 1, 1978, pp. 45-54.

[6] Gli oppositori in questione erano Aldo Cucchi e Valdo Magnani, due ex partigiani ed esponenti di spicco del pci, che al ritorno da un viaggio in Russia avevano manifestato forti riserve nei confronti del modello socialista sovietico. Per le loro prese di posizione, nel 1951 essi furono espulsi dal partito e Togliatti li definì «pidocchi nella criniera di un nobile cavallo da corsa».

[7] Famoso episodio accaduto all’autore di «Alice nel paese delle meraviglie» sulla spiaggia di Brighton, e così rievocato da Mauro Covacich, Lewis Caroll: «Amo tutti i bambini salvo i maschi. Ma soprattutto Alice», in Corriere della Sera, 10 agosto 2001: «Il professore alza gli occhi dal taccuino e vede passare una bambina in lacrime con gli abiti inzuppati. Evidentemente è cascata in acqua vestita. Carroll l’avvicina con una carta assorbente in mano: “Posso offrirti questo per asciugarti?” Ed ecco il pianto si trasforma in riso. Ecco una nuova modella da fotografare. Ecco un nuovo corpo da enforare con gli occhi, solo con gli occhi, nella speranza di ritrovare l’intatta innocenza di Alice».

[8] Quest’ultimo intervento di Fachinelli era introdotto dalla seguente nota redazionale: «Questo articolo dello psicanalista Elvio Fachinelli era stato scritto per la terza pagina del Corriere della Sera nel quadro di un dibattito sul problema dell’eroina, che il quotidiano ha ospitato nei mesi di gennaio e febbraio. Dopo i resoconti apparsi sul Corriere circa l’operazione di polizia che ha portato alla chiusura del locale underground milanese “Macondo”, Fachinelli ha deciso di ritirare per protesta l’articolo, che Argomenti radicali è lieta di pubblicare, con alcuni aggiornamenti dell’autore».

[9] Si veda per esempio l’eccellente trattazione contenuta nel recente Morfina, eroina, methadone. Il ciclo della droga: aspetti medici e giuridici, di V. Andreoli, F. Maffei e G. Tamburino, Mondadori, Milano 1978.

[10] La somministrazione controllata di morfina ed eroina ai tossicodipendenti fu intrapresa negli Stati Uniti nel 1919 con l’apertura in via sperimentale di un gran numero di cliniche apposite, ma appena quattro anni più tardi il governo interruppe il programma. In Gran Bretagna la sperimentazione (trattamento con eroina e metadone) fu continuata per vari decenni, ma anche in questo caso con risultati fallimentari.

[11] V. Andreoli, F. Maffei e G. Tamburino, Morfina, eroina, methadone, cit., p. 234.