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OPINIONI

Dall’idillio senza presa alla metamorfosi. Il Pci e i movimenti

Nel decennio 1968-1978, sotto le apparenze di un trionfo parallelo del riformismo e dell’insurrezione, si consumò una crisi radicale della forma partito e del progetto di rivoluzione, che rifletteva anche il complesso rapporto fra Pci e movimenti. Ma il comunismo resta l’unico orizzonte possibile

Per il periodo su cui posso testimoniare, fra iscrizione e radiazione (1958-1966), il Pci era un partito dove si poteva discutere liberamente e si imparavano un sacco di cose, dove erano legittime diversità di opinione che assomigliavano a correnti fluide (non organizzate) e fuori del quale, fuori a sinistra intendo, non esisteva oppure appena cominciava a esistere uno spazio alternativo di riflessione e di azione politica.

Certo, sussistevano al suo esterno gli anarchici e formazioni residuali del dibattito della III Internazionale, i bordighisti, Lotta Comunista e soprattutto i troskisti della IV Internazionale, che peraltro aveva scelto una tattica «entrista», cioè di reclutare quadri all’interno del Pci e di organizzarvi una tendenza di sinistra, riducendo al minimo una loro presenza autonoma. Dal 1962 si aggiungono vari gruppi filo-cinesi e filo-albanesi, che in genere adottano una forma partito concorrenziale ed esterna rispetto al Pci, in alcuni casi appoggiandone qualche candidato alle elezioni.

 

Ma solo con i “Quaderni Rossi” nasce una generazione nuova con un’ideologia operaista inedita rispetto al mosaico della Terza Internazionale e del conflitto sino-sovietico e un lavoro sindacale e culturale diretto, che non passava in genere attraverso gli strumenti e le strutture Pci-Cgil.

 

 

Scelte radicali

Tuttavia fino all’inverno 1967-1968 movimenti di massa di sinistra fuori del perimetro Pci erano scarsi e quindi la difesa di quel perimetro contro infiltrazioni entriste era sufficiente e non implicava una riduzione della discussione interna e del gioco ben regolamentato delle correnti informali (gli sconfitti dell’VIII Congresso stalinisti e secchiani, gli amendoliani e gli ingraiani).

Tutto cambia con la marea sessantottina, che naturalmente si interseca, a livello di attivisti, con i quadri operaisti emergenti, con i filo-cinesi fautori della Rivoluzione Culturale, con la diaspora dei trotskisti entristi di Roma e Milano che, cacciati o meno, passano dal Pci al movimentismo. Soprattutto cambia la base di riferimento, che non sono più gli iscritti al Pci e al sindacato ma nuovi strati studenteschi e di operai-massa. A questo punto il nucleo più radicale della corrente ingraiana, che aveva pubblicato “il manifesto” mensile fuori dalla stampa Pci e come interfaccia con i movimenti, diventa insopportabile e viene radiato nel 1969.

 

Il Pci, a differenza dei cugini francesi, continua a confrontarsi con i movimenti, ma richiudendosi nella sua identità di partito centralizzato e in una strategia riformista.

 

In realtà il difficile rapporto con i movimenti, che cominciano a loro volta a darsi forma di gruppi strutturati, segna un duplice collasso storico per la forma-partito: il Pci la perde progressivamente (fino all’inconsistenza attuale), i gruppi non riescono a raggiungerla e cercano di elaborare un’alternativa che però fallisce, arenandosi in esperienze perdenti sia di tipo elettorale che di lotta armata.

 

(Tano D’amico)

 

Lo scontro con il Pci, a quel punto, diventa feroce culminando nel 1977, che segna allo stesso tempo l’inizio della fine per i movimenti (armati e no) e l’integrazione del Pci, attraverso il compromesso storico, con la classe dominante e le politiche di austerità – operazione fruttuosa a breve-media scadenza, rovinosa a fine millennio. Naturalmente si tratta di episodi locali iscritti in un ciclo mondiale di passaggio al neo-liberalismo e di crisi generale del campo «socialista» e dell’esperienza alternativa cinese.

 

Il 1968 fu l’anno chiave dell’idillio fra Movimenti e Partito e l’incontro fra Longo e alcuni attivisti romani diede un segnale promettente, che tuttavia «non fece presa» per usare una celebre metafora althusseriana sui cortei operai e studenteschi del maggio 1968.

 

 

Strategie della crisi

Il Partito ascoltava le istanze dei movimenti nella speranza di fagocitarli e irrobustirsi con nuovi aderenti e nuove idee. I Movimenti si cullarono nell’illusione di poter trascinare le masse del Pci sulla loro onda. Entrambi avevano buone ragioni e possibilità ma la divaricazione diventò inevitabile quando i movimenti cominciarono a elaborare una loro strategia che, per quanto confusa, oltrepassava l’ideologia del «partito nuovo» togliattiano e dei suoi meno vigorosi eredi. Il settarismo, sempre implicito in fasi di rottura e mobilitazione tumultuosa, fece il resto.

 

In fondo – diciamolo con il dovuto distacco archeologico – si consumò nel decennio 1968-1978, sotto le apparenze di un trionfo parallelo del riformismo e dell’insurrezione, una crisi radicale della forma partito e del progetto di rivoluzione. Una crisi in cui ci dibattiamo da anni, ben prima del crepuscolo covidico dell’epoca presente.

 

Il comunismo resta l’unico orizzonte possibile, ma gli arnesi di cui abbiamo disposto non sembrano utilizzabili, anche se le esperienze di lotta successive al decennio magico qualche indicazione, malgrado tutto, possono darla, diversamente dalla lenta corruzione del corpo picista e delle sue metamorfosi politiche e denominative.

 

Questo articolo è apparso sull’edizione del 21 gennaio 2021 de “il manifesto” nell’inserto speciale “Cento anni Pci”

Immagine di copertina di Uliano Lucas