editoriale

Ricominciare a balbettare

Militanza di base, istituzioni del lavoro vivo e lotte. Nell’epoca della contro-rivoluzione si tratta, ora e ancora una volta, di scavare, di andare alla radice, di rilanciare l’inchiesta. Per una politica di movimento, nonostante la catastrofe

1. Di solito, quando passano le elezioni, il “movimento” parla. Dice la sua. Convinto che qualcuno stia ascoltando. Che prenda appunti. Analisi, dati, considerazioni che già chiunque ha fatto. Parole che ripetono parole. Questo è il “movimento”, ormai, un ripetitore tardivo. Si tratterebbe, invece, di elogiare il silenzio, di spegnere le chiacchiere. Si tratterebbe, come sempre, di fare. Ovvero di mostrare, con la vita e le lotte, con lo sciopero e l’amore, ciò che si dice. Al di sotto dell’esibizione, di ciò che viene manifestato, il silenzio. Farla finita col linguaggio denotativo-referenziale, una volta per sempre. E, visto che ci siamo, «destituire il potere di dire ‘io’».

No, non frega più nulla a nessuno cosa ‘tu’ pensi, né cosa pensa il “movimento”. Delle sue storie, quelle che si canticchiano prima di dormire, per tentare di prender sonno.

Già quasi pazzo, ma in fondo lo era sempre stato, Althusser scrive: «il materialista non si ‘racconta delle storie’, non fa un discorso esaltante, non dice che ‘tutti gli uomini sono dei rivoluzionari’, ma lascia parlare le persone, e dice le cose come sono». In quest’epoca di pallonari e impostori vari, non basta dire il reale. È già un buon punto di partenza, indubbiamente. Ma si tratta anche di farlo. Si mostra ciò che si fa. Eppure è importante lasciar parlare, anche quando la parola è scabrosa, barbara. Pure se non capiamo più cosa le masse balbettano. Semmai, mossa saggia (tra le masse) sarebbe ricominciare a balbettare. Ricordate l’infanzia? Ripartire da lì, ora e ancora.

 

2. Sono anni che il dibattito è sempre lo stesso: finita la sinistra, è tempo per la lotta, l’autonomia. Il vuoto tanto desiderato sarà pieno, prima o poi. Peccato che la sinistra è finita già da dieci anni (ricordate il 2008?), e, da allora, non salta mai una scadenza elettorale. Sia essa un vecchio che si finge nuovo (Massimo) o una nuova già vecchia (Viola). Peccato, poi, che quel vuoto è pieno da anni: ci hanno pensato Casaleggio e Grillo, rubacchiando qui e lì le parole d’ordine dell’Onda studentesca (il reddito di cittadinanza, in primo luogo). Sì, l’Onda studentesca, quel biennio di splendore che nessuno vuole più ricordare. Non fosse altro che buona parte dei suoi protagonisti, centinaia di migliaia di giovani, ora sono all’estero. E odiano l’Italietta dei vecchi e dei razzisti, dei maschi “feriti” nell’orgoglio e dell’economia criminale. Quella dei fascisti, indubbiamente; che però non coincide con le camicie nere, va molto oltre.

Il tema è semplice: come si organizza l’autonomia del movimento, oggi? Gli amanti della realtà, di quella che non cambia mai, complicano il quadro e chiedono: dove lo vedi il movimento? Il movimento non c’è, vero. Perché il movimento è un processo, un battito cardiaco, ontologia pura: esplicazione, contrazione. Lo sapeva Nikolaus von Kues, volgarmente Cusano. Lo stiamo imparando vivendo. Allora la domanda diventa: cosa succede quando il movimento si contrae, quando impazza la violenza della contro-rivoluzione? È possibile, nonostante tutto, una politica di movimento? Sì, è possibile. Ma in nulla coincide con le religioni del nostro tempo. Si tratta, ancora una volta, della politica di massa. Mani, piedi e cuore nella merda; e pedalare.

 

3. Le religioni, che non sono mai materialiste, raccontano delle storie: «non è vero che stiamo perdendo, siamo forti», «il nemico ci teme, è fin troppo chiaro», e via di questo passo. E c’è poi la festa, quella di Gatsby che era un grande: la tempesta è dietro l’angolo, ma tutti continuano a brindare… A differenza dell’Età del Jazz, la bufera non è dietro l’angolo, piuttosto si ripete ogni giorno. «Accumulazione originaria» permanente, bellezza! Con Benjamin, invece, parliamo di «catastrofe», una crisi sempre reiterata. Festa e chiacchiere, insomma, non si fermano mai. E così la piccola comunità elettiva, sempre più stretta, sempre più calda, sempre più impotente. Comunità eroica, pronta al martirio, perché «tanto peggio, tanto meglio». Comunità impercettibile, nascosta, che tenta di scomparire come il «digiunatore».

E se invece decidessimo di affrontare il lungo inverno? Piedi scalzi e nella neve, senza gergo e riparo alcuno. Sì, si tratterebbe di rimettersi in movimento, di evitare pallonari e impostori, chiacchieroni e bulimie varie, si tratterebbe di mostrare con la vita (e suoi gesti) la verità di ciò che si dice. Il movimento delle donne è lì, lo rivela da un anno, senza sosta, in tutto il mondo. Nelle piazze e nelle assemblee femministe c’è una densità affettiva di cui non parla la stampa, ma che sta cambiando la percezione di milioni di giovanissime e meno giovani. Un’onda, appunto. Un tessuto che si fa e ogni tanto si disfa, ma che poi cresce e non molla. Sta lì, anticapitalista.

 

4. Perseveranza. Ogni qual volta che la perseveranza operaista (o marxista, le due nozioni coincidono) riemerge, subito il precipitoso risponde: «il treno passa in fretta», «la congiuntura chiama». Poco importa se tutti i treni sono sbagliati, l’importante è prenderli e non voltarsi mai indietro. Una frenesia disperata, nella convinzione di nuotare (sempre) con la corrente. Condizione fondamentale del “gioco”? Far finta di nulla dopo la cantonata presa. La politica, se è tale, è sempre praxis in situazione; su questo non si discute. Ma la congiuntura non è il ballo di un’estate. Non c’è nulla di più serio della situazione. Non basta il sorvolo, e abbuffarsi di ricotta non salverà il nostro Stracci.

Una postura militante, ci vuole. Niente morale, niente prescrizioni: ci mancherebbe. Ma uno stile, quello sì. E quale sarebbe? Scavare, andare alla radice. Lenin e Trockij, che a differenza nostra si trovavano nel mezzo di una rivoluzione, hanno trascorso il 1917 a «ripetere l’inizio»: di fronte al blocco del processo, sempre, si torna alla politica di massa; alla spontaneità, ai comportamenti, all’autonomia di classe. Facile a dirsi, ma cosa succede se ci si trova nel mezzo della contro-rivoluzione cronica, ovvero il neoliberalismo e la sua crisi, e i comportamenti diffusi gridano il sangue di Macerata? Si ascolta, ci si butta nella mischia del reale, anche se la merda sale ovunque. Si tratta di perseverare: nell’inchiesta, con la militanza di base, radicando socialmente l’iniziativa politica; meglio, politicizzando il sociale, con la lotta e un rinnovato mutualismo. Una lotta che non ha centro, e che però insiste nel rapporto capitale-lavoro – il rapporto di sfruttamento che solo fa il plusvalore e il capitale – perché questo insiste ovunque.

I più accorti, giustamente, mettono in guardia: basterà il radicamento sociale a strapparci dall’abisso? Evidentemente no. Ancora, e sempre, si tratterà di cogliere le occasioni quando si presentano. Ma con il piglio dei Tuareg nel deserto, dei Cosacchi nella steppa: pazientando, come macchina da guerra infedele a ogni Stato; preparando il colpo, difendendo le retrovie durante la fuga. Dire radicamento sociale, poi, non significa in alcun modo riproporre la divaricazione tra il “sociale”, in basso, e il “politico”, in alto. Proprio perché questa divaricazione è ormai impossibile, e la società tutta è sussunta dal capitale, dal suo politico rapporto di sfruttamento, mettere radici vuol dire più di una cosa: riportare con tenacia il conflitto nei luoghi di lavoro, di quello in appalto e sottopagato, e fondare libere università; organizzare forme di auto-governo urbano e moltiplicare contropoteri nelle reti comunicative. Tutto chiaro, ci vuole tempo e di tempo ce n’è sempre poco. Senza consistenza, però, rimangono solo le chiacchiere. E chiacchiere sulle chiacchiere.

 

5. «Va bene la strategia, e bene insistere nonostante il lungo inverno», continua il precipitoso. «Ma la tattica»? Giusto. Prendiamo allora sul serio un’altra paroletta: la forza. Se la proliferazione istituzionale è la consistenza strategica alla quale dedicare le energie migliori, non c’è lotta senza efficacia della lotta. Si tratta dunque di riprendere la discussione sulle forme del conflitto, sulle pratiche. E allora dovremmo rivolgere lo sguardo – così impaziente e mai sazio – ai riders di mezza Europa, al lavoro di cura che chiede diritti e salario, alle cattive maestre che non smettono di urlare, alle lavoratrici e ai lavoratori di Amazon che scioperano contro il comando algoritmico, all’università inglese ferma da due settimane. Poi, ancora, a Ni una menos e a Black Lives Matter. Fenomeni disparati, è vero. Disparati e difficili da combinare. Eppure sono le incrinature che sole possono farci respirare. Lì, nell’incrinatura, il problema della forza torna decisivo. Far paura a chi non fa altro che spaventarci, sul posto di lavoro come nelle mura domestiche. Sempre immersi nella lotta e nei suoi ritmi, il problema va posto.

Ci vorrebbe dunque un laboratorio, uno spazio di convergenza. No, non un nuovo partitino del “sociale”. Basta politica dell’identità, impariamo dal movimento femminista: intersezione, ci vuole. Intersezione è una postura etica e politica nello stesso tempo. Ed insiste sulla trama dello sfruttamento contemporaneo, che passi lungo la linea del genere o quella del colore. Uno spazio comune, che sappia condividere pratiche di resistenza, concatenare istituzioni alternative, consolidare gli sforzi mutualistici. Un cantiere polifonico che non parli a nome di qualcuno, al posto di chi non ha parola, del significante vuoto e scemenze varie. Un punto di forza e d’enunciazione, che semmai si occupi di tessere dove i fili ancora non ci sono. Transnazionale, perché è l’unica scala che prende in considerazione chi vuole spazzare via lo stato di cose presente.

Tutto questo è ciò che ci vorrebbe, proprio ora. Ora che il tempo è poco ma c’è ancora tempo. Chissà, tentando e ancora ritentando… L’importante è non raccontarsi storie, e riprendere la lotta, dappertutto. Alla ricerca di una «goccia di splendore».