MONDO

La restaurazione del governo tunisino abortisce il processo democratico

L’uso letale della violenza da parte delle forze dell’ordine tunisine può dirci qualcosa sulla condizione attuale della transizione democratica della Tunisia

Nel breve lasso di tempo tra agosto 2017 e gennaio 2018, si sono verificate molti eventi distinti che hanno riportato l’attenzione sulla Tunisia. Molti fatti accaduti dagli sbarchi di agosto in poi hanno beneficiato di piccoli e frammentari spazi di evidenza in cronaca, ma sono rimasti circoscritti all’ambito di una narrazione in cui nessuna riflessione li ha presi in esame come effetto della medesima causa, e dunque come eventi interconnessi. Al contrario, la modalità del racconto utilizzata, favorisce l’isolamento dei fatti e il confinamento di ciascuno entro lo spazio della sua stessa estemporaneità. La dissociazione dei singoli accadimenti ne ridimensiona l’impatto e li rende più facilmente derubricabili, perché frammenta anche l’insorgere degli interrogativi che alcuni di questi susciterebbero se collegati, e semplifica la formulazione di risposte falsificanti perché restringe l’ambito di confutazione delle stesse alle sole circostanze, escludendo l’orizzonte generale in cui gli episodi singoli si inscrivono.

Pensiamo allo speronamento intenzionale che la Marina Militare Tunisina ha compiuto ai danni di una barca di migranti tunisini l’8 ottobre 2017 uccidendone 52, alle proteste di questo gennaio 2018 e all’omicidio di un manifestante il giorno 8 a Tebourba, pensiamo al suicidio di uno dei ragazzi tunisini trattenuti a Lampedusa la mattina del 5 gennaio 2018, e alle ultime notizie di ieri mattina (20 gennaio) relative alle proteste nuovamente in corso all’Hot Spot.

Si sono verificate importanti circostanze in cui si è registrato un uso letale della violenza da parte delle forze dell’ordine tunisine, il che potrebbe dirci qualcosa sulla condizione attuale della transizione democratica della Tunisia. Una transizione che seppur continuamente elogiata in Italia da Gentiloni e Alfano, con l’evidente scopo di salvaguardare interessi di natura economica, sta affrontando un difficile e pericoloso momento di restaurazione in termini di partecipazione sociale e in relazione ai diritti civili dei cittadini. Il governo italiano ha sancito l’appoggio a quello tunisino con l’invio apparentemente solo simbolico di 60 militari italiani e un costo iniziale previsto di 5 milioni di euro, in ambito Nato, con l’incarico di fornire “addestramento e consulenza per costituire un comando interforze quanto mai necessario ai tunisini che sempre più spesso integrano militari, polizia e Guardia nazionale per gestire l’ordine pubblico e la minaccia jihadista”, come comunicano dal sito Analisi Difesa.

Nel 2015, i numerosi episodi di terrorismo jihadista hanno giustificato la riformulazione della legge antiterrorismo del 2003 e contestualmente, si è colta l’occasione per presentare anche il disegno di legge n°25, relativo alla repressione degli attacchi alle forze armate. Gli articoli del disegno di legge, in forza del superiore interesse della sicurezza nazionale, punivano con anni di carcere ed esose pene pecuniarie, qualunque interferenza con l’attività delle forze dell’ordine, ivi compresa l’umiliazione degli agenti, la diffamazione, l’insulto e l’offesa, ma anche la diffusione di foto, video e informazioni sugli agenti, o acquisiti all’interno di luoghi sensibili come sedi istituzionali o militari. Consentivano il fermo da 6 a 15 giorni prima di avere diritto ad un avvocato.

In quello stesso 2015, il rapporto riferito al biennio 2013/14 del Centro Tunisino per la Libertà di Stampa, attestava almeno 450 casi di giornalisti rimasti vittime di aggressioni da parte delle forze dell’ordine in circostanze relative all’esercizio della professione. Nel 2014 già si tornava ad emettere condanne a morte, anche se dal 1991 non c’erano più state esecuzioni. Furono 3 in quell’anno, 13 nel 2015, 44 nel 2016. Nel 2017 i condannati nel braccio della morte in attesa di esecuzione sono 77.

La contestazione al disegno di legge è stata ampia e molto forte, basata sulla consapevolezza che già Ben Alì si era servito di formule analoghe per liberarsi degli oppositori criminalizzando e censurando ogni forma di dissenso, protesta, resistenza e disobbedienza, nonché per conferire immunità e impunità agli organi di sicurezza. Il 13 Luglio 2017 però, l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo ha riaperto la discussione sul progetto di legge n°25, e il 1° Novembre, il ferimento di due agenti davanti alla sede della Camera, ha fatto crescere la pressione esercitata dal Sindacato di Polizia per l’approvazione, tanto che il Governo è stato intimidito con la minaccia che avrebbero posto fine alla protezione di deputati e personalità politiche fino ad approvazione avvenuta.

Il 13 Settembre 2017 è stata intanto approvata la legge di riconciliazione, ovvero l’amnistia per gli alti funzionari di Stato implicati in casi di mala gestione delle finanze pubbliche, e la risoluzione amichevole, vale a dire la possibilità di riabilitazione tramite il pagamento di una pena pecuniaria, per quelli coinvolti in casi di appropriazione indebita e corruzione.

La proposta di legge n°25 sulla repressione delle aggressioni alle forze armate, è stata giustificata con l’argomentazione che dalla Rivoluzione del 2011 ad oggi, 80 sono le morti registrate tra agenti di polizia e militari. In realtà, la quasi totalità delle 80 morti rivendicate sono state causate da atti di terrorismo compiuti da affiliati a gruppi jihadisti, mentre nei soli sabato e domenica precedenti al 14 Gennaio 2011 in cui fuggì Ben Alì, i morti civili furono 50, e le forze dell’ordine si resero colpevoli di crimini di omicidio su larga scala, veri e propri massacri. I morti civili della Rivoluzione dei Gelsomini furono 338, e 2147 i feriti. Delle 80 vittime tra le forze dell’ordine invece, è una quella caduta durante una manifestazioni dei cittadini, a Kasserine nel 2016, quando già il tentativo di repressione violenta della protesta l’aveva trasformata in scontro aperto.

Andando oltre la rivoluzione, conclusasi come sappiamo con la vittoria dei cittadini e della democrazia, nel 2012 due donne del Governarato di Silana uscite per fare la spesa mentre si svolgeva una manifestazione, sono state colpite dalle forze dell’ordine con pallettoni da caccia da una distanza di 30 metri.

Il 27 Luglio 2013 a Gafsa, un militante muore ad una marcia di protesta colpito in testa da un lacrimogeno.

Tornando al 2017, anche il 22 Maggio a Tataouin, durante una manifestazione nei pressi dei giacimenti per reclamare il diritto di compartecipare al benessere ricavato dalle risorse del territorio, un manifestante muore investito da un automezzo delle forze dell’ordine. Le autorità dichiareranno che si è trattato di un incidente avvenuto mentre l’automezzo faceva manovra.

L’8 Ottobre, per impedire la traversata di una barca di migranti, i militari tunisini la speronano causando la morte di 52 persone. Le autorità dichiareranno che la barca gli è andata addosso.

L’8 Gennaio a Tebourba, il raduno spontaneo dei cittadini è stato aggredito dalle autorità che hanno fatto immediato ricorso alla violenza, causando il ferimento anche dei bambini, e la reazione difensiva della comunità. Un manifestante viene investito e ucciso, ma le autorità dichiareranno che era un asmatico soffocato per essersi imprudentemente esposto ai lacrimogeni.

Non rilasceranno invece alcuna dichiarazione sui rastrellamenti che dalla sera dell’8, per 3 giorni si sono susseguiti per le strade e nelle case di Tebourba, da cui sono mancati all’appello un centinaio di ragazzi. Ad oggi, alcuni sono stati rilasciati, e di altri non si sa ancora dove siano stati portati, tanto che dai movimenti è partita l’iniziativa di un censimento degli arrestati, più o meno 900 nell’intera Tunisia.

Né tantomeno le autorità hanno rilasciato dichiarazioni circa i fermi, gli interrogatori, le pressioni, le molestie, e il sequestro di materiali ai danni di giornalisti esteri, alcuni dei quali prelevati in casa per essere condotti a rilasciare informazioni sull’identità delle persone che avevano intervistato. Diranno invece che i media stranieri stanno ingigantendo il problema.

Il 5 Gennaio 2018, su territorio italiano, un cittadino tunisino trattenuto nell’Hot Spot di Lampedusa dal mese di Ottobre in cui era sbarcato, si è tolto la vita impiccandosi. Era riuscito a liberarsi dalla morsa dei soprusi e della povertà in Tunisia e a sopravvivere alla traversata, ma non ha resistito ai 3 mesi di trattenimento a Lampedusa, sotto la minaccia costante del rimpatrio, e con una possibilità di fuga che non lo avrebbe mai condotto oltre i boschetti limitrofi alla struttura in cui non voleva più stare. Intrappolato in un’esistenza sospesa, vissuta nell’attesa del peggio e senza nessuna prospettiva di epilogo felice o quantomeno accettabile.

Anche lui vittima della violenza di autorità democratiche evidentemente non così diverse da quelle del Paese da cui scappava, o comunque loro amiche.

Già nel 2015 la Corte Europea dei diritti umani condannava l’Italia per la detenzione arbitraria, i trattamenti inumani, e le espulsioni collettive. L’Italia presentò ricorso, ma il 15 Dicembre 2016 la sentenza è stata ribadita. Pochi giorni prima, il 3 Novembre 2016, il rapporto di Amnesty confermava la non dismissione da parte dell’Italia delle pratiche condannate, ma ciò nonostante, si dirà che questo ragazzo era uno schizofrenico.

 

Articolo comparso sul sito dell’Associazione Diritti e Frontiere ADIF