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Remoria, la città che cova nell’alveo del possibile.

Remoria, ovvero il negativo occulto di Roma: la città che sarebbe sorta al posto di Romolo, se nella leggenda fratricida della fondazione avesse vinto Remo. Valerio Mattioli nel suo ultimo libro traccia una psicogeografia del ritorno del rimosso di quella città nata attorno alla “borgatasfera” che si addensa delirante per chilometri su entrambi i lati dell’anello autostradale: quella città che sarebbe potuta essere e che non è mai stata. E che nella sua continua non esistenza costituisce il perturbante e il possibile della città di oggi

«A 2699 anni dalla mitica fondazione di Roma da parte del fratricida Romolo, ecco che degli oscuri stregoni camuffati da tecnici dell’appena nato ente autostradale con a capo il magnus Eugenio Gra si inventano il GRA. Parrebbe un’infrastruttura autostradale senza apparente utilità, ma in realtà è un mastodontico cerchio magico, un solco di fondazione che riporta a galla la non-città di Remo, e la cui sola presenza basta a mandare all’aria i nessi logici che la Roma quadrata da secoli rispetta. Di questo sabotaggio operato ai danni di Roma e quindi della stessa nozione di città, la borgatasfera sarà la manifestazione esteriore.» Inizia dal segno del GRA, il lungo attraversamento che Valerio Mattioli percorre nello spazio e nel tempo della città che non è mai nata, Remoria, la città di Remo cancellata da «un gesto di puro arbitrio e sopraffazione.»

Comprendere quei brandelli di urbano sparsi nella campagna romana dalla forza centrifuga del cerchio magico è un’operazione molto complessa, richiede capacità di ascolto e attenzione ai dettagli, serve uno sguardo non neutrale, eppure privo di pregiudizi. È quello che utilizza l’autore. Ricostruisce finalmente quei brani di città, che continuano a essere letti separatamente e marchiati da eterno stigma, come fatto unitario.

La periferia diventa borgatasfera e tiene in se la memoria di ciò che è stato con quello che sarebbe potuto essere, «è il limite che prende vita, diventa prassi e lo fa in maniera autonoma, autosufficiente».

Remoria parla di città, del suo disegno insieme alle forme di vita che la abitano, ci racconta lo spazio attraverso le emozioni e le linee di fuga che qualcuno ha utilizzato. Non c’è alcun riferimento al degrado, al declino, al fallimento e tanto meno all’idea di rigenerazione, recupero, risanamento. È di conflitto che si parla. Una lotta fra Romulia, la città dell’ordine e del comando e Remoria «la città che non solo mai fu, ma che continua a non essere» lasciando aperto ogni futuro possibile.

Il lungo racconto di Valerio Mattioli ci consente di capire la città in cui siamo costretti a vivere oggi. La città nella quale i rifiuti si accumulano ai bordi delle strade, i mezzi di trasporto non passano mai, i miseri giardini si coprono di sterpaglia. Quella città che accumula detriti e rovine fino a quando non può utilizzarli per produrre enormi profitti e che si appropria di interi quartieri liberandoli dei suoi abitanti per sostituirli con quelli in grado di sostenere i nuovi valori immobiliari. La città che consente l’esistenza di enormi discariche a cielo aperto: Casilino 900, Malagrotta, le gabbie del CIE, dove accumulare quello che Romulia non riesce a sottomettere al suo ordine quadrato.

 

 

Il libro attraversa gli ultimi quarant’anni, spostandosi fra quartieri che crescono senza ordine e qualità, dove vivono generazioni di ragazzi che nulla hanno più a che vedere con i personaggi pasoliniani, prototipi del borgataro.

Incontriamo il proletariato giovanile degli anni 70 e quel grande movimento che tenta di rovesciare la realtà. Romulia non è in grado di capire «la gioia disinteressata dell’inutile» di quelle masse di giovani angosciate dal loro isolamento. La risposta è la repressione e l’eroina, che domina gli anni del riflusso. Valerio Mattioli ci porta a percorrere quei marciapiedi fra case brutte e terreni di risulta, per vedere la morte dei sogni di una generazione materializzata nei tossici e nelle siringhe. Remoria si inabissa.

Ma ecco l’arrivo dei Centocelle City Rockers e la comparsa del fenomeno punk. Dove c’è sporco, sgradevole, deforme Remoria riappare. E lo fa sotto la spinta di una scossa elettrica: il punk. Sono gli anni 80 e si ribalta la geografia: piazza dei Gerani e la via Cassia diventano poli di attrazione per i ragazzi che dall’intera città raggiungono quei luoghi di aggregazione. Tutto questo ignorato dalle cronache cittadine. Remoria appare come una realtà parallela vissuta da una generazione abbandonata. Compare Ranxerox di Stefano Tamburini, dove il coatto «archetipo e simbolo della periferia di Roma» diventa coatto sintetico, una creatura artificiale mossa dall’elettricità che lo attraversa.

«L’eroina, gli arresti, il riflusso, avevano lasciato in eredità un paesaggio convesso che luccicava di merci e sotto la cui superficie sapevi benissimo che non c’era altro che il nulla.»

La metro A si riempie il sabato di bande di ragazzi che sciamano per via del Corso. Il prendo tutto sostituisce il desiderio, quello che viene da fuori si appropria di quello che è dentro. Il coatto diventa una sottocultura, fatta di violenza, aggressività, brutalità, che si appropria della curva Sud allo stadio e lì diventa chiara la connotazione politica.

L’irruzione della techno apre gli anni 90, la non-musica diventa il suono della non-città di Remoria. Inizia la stagione dei rave. I vuoti urbani si riempiono ogni sabato di feste che durano ore e ore, al suono di quella musica incomprensibile e sotto l’effetto della nuova droga, conviviale, sociale, edonista. A decretare la fine della stagione dei rave è la violenza coatta che trasforma quelle feste in risse rabbiose fra bande. Appaiono le celtiche e le loro vittime: l’immigrato, lo straniero.

Agli inizi degli anni 90 la borgatasfera per la prima volta si dimostra non accogliente e in fondo non fa che manifestare l’intolleranza verso se stessa, Remoria «terra straniera» non accetta lo straniero.

 

 

Nello stesso periodo avviene però qualcosa di esplosivo nella vita della borgatasfera: l’occupazione del Forte Prenestino. Quel luogo enorme, misterioso, circondato dal fossato è invaso dai punk, dark, militanti degli anni 70 che animano le strade di Centocelle. Da lì inizia una storia che trasforma tutta la città. Parte al suono del Rap di Onda Rossa Posse e la parola movimento torna a riempirsi di senso. Si moltiplicano le occupazioni in maniera centrifuga, così come era cresciuta la città. Ci si appropria degli scarti, dei luoghi abbandonati per disegnare una nuova geografia che nega il centro per restituire senso al margine. Quel margine che diventa il luogo dei rave illegali «occupazioni temporanee di luoghi realmente occulti» e dunque appartenenti a Remoria.

Non dimentichiamo che è il conflitto il protagonista di questa storia e Romulia, la città dell’ordine, reagisce e inizia la sua campagna di conquista partendo da via Casilina. Il Comune di Roma organizza eventi techno, nei locali di Testaccio si suona musica elettronica, aprono locali al Pigneto e a Centocelle, dove si va a sorseggiare aperitivi, circondati «dai cassonetti traboccanti, dagli immigrati accampati nei sottoscala, dai mendicanti fuori dalle birrerie-bistrot, dagli accattoni geneticamente mutati dall’accelerazione elettrificata.» Non è la borgatasfera che si fa centro, succede l’esatto contrario. Sparita «l’etica del margine» quella definita da coatti, proletariato giovanile, militanti dei centri sociali che può arrestare questo processo di appropriazione della borgatasfera?

Valerio Mattioli è cresciuto a Torre Maura e lì torna spesso. Scopre un posto cattivo, triste, depresso. Anche qui sono sorti i comitati di cittadini contro il degrado. Si muove fra quelle strade, osserva i giovani adolescenti. È uno di quei ragazzi l’unico che reagisce alle manifestazioni fasciste contro settanta rom ospitati in una struttura del quartiere.

«Io so’ de Torre Maura e nun me sta bene che no.» Eroico adolescente, irriso per il suo italiano dai gentrificatori di Romulia.

Remoria, la città invertita è un libro importante, capace di leggere e ricostruire i legami spesso nascosti. Racconta la città con parole che non appartengono alla disciplina urbanistica, ma fornisce strumenti necessari a chi vuole ragionare intorno alle trasformazioni urbane, quelle che tanto incidono sulle nostre vite. Sono i nostri corpi, i nostri desideri che, generazione dopo generazione, costruiscono il significato di quella che continuiamo a chiamare città.

La città che oggi non riusciamo a capire è quella che non riesce a costruire se stessa. Per leggerla devono essere utilizzate diverse visioni. Il libro di Valerio Mattioli ce ne fornisce una di grande valore.