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Bounty Quentin’s Law: Hollywood, la Manson family e l’America tradizionale bianca

Il romanzo “C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino ricostruisce un mondo di riferimenti, citazioni, storie, integrandosi con il film uscito nel 2019. Un altro pezzo dell’universo narrativo tarantiniano che dialoga a modo suo con la crisi della razza e della bianchezza negli U.S.A.

1.

Un romanzo per cinefili. Un romanzo per chi ha visto il film e ama l’universo di Quentin Tarantino, la grammatica plebea e politicamente scorretta delle sue narrazioni e dello slang popolare urbano dei suoi personaggi.

Un romanzo per chi non teme il contatto con le espressioni più discutibili della cultura commerciale di massa statunitense vuole indagarne le sue forme di godimento popolare. Non un’opera letteraria nel senso “alto” dell’espressione, bensì qualcosa di molto diverso. Un affascinante romanzo d’autore, nel senso che la Nouvelle Vague diede a questo termine.

D’altronde, è stato lo stesso Tarantino, come ogni grande “autore”, a creare – in senso borgesiano – i suoi precursori: spaghetti western, polizieschi blaxploitation, film, registi e generi di serie B (la stoffa grezza del romanzo), ma anche A band a Part (la sua vecchia compagnia di produzione con il richiamo al noto film di Godard) e una Uma Thurman in Pulp Fiction come chiaro sembiante postmoderno di Anna Karina. C’era una volta a Hollywood (La nave di Teseo, 2021): un raro esempio di cinema d’autore che diviene letteratura.

2.

C’era una volta a Hollywood non è una sceneggiatura romanzata, ma un romanzo cinematografico, non solo nel contenuto, poiché espira celluloide da ogni suo poro, ma anche nella sua stessa scrittura, forma e testura. Una testura che si scioglie in ciò che racconta: più che mettere le immagini al servizio del pensiero – come ebbe a dire Benjamin di Baudelaire – Tarantino mette il pensiero al servizio delle immagini. Lo stile del suo cinema viene qui tradotto in materia letteraria, ma decomponendone, alterandone, le regole. Scrittura e forma-romanzo – storiche espressioni dell’alta cultura borghese – vengono così piegate alla semiosi plebea e dispotica del visuale. Ciò che ci richiede è una libera associazione mentale non semplicemente tra parole o sintagmi ma tra scene, film, personaggi, musiche, sequenze, paesaggi, riferimenti alla storia del cinema, aneddoti hollywoodiani. È solo da questa singolare forma di lettura che si può ricavare il senso del tutto. D’altronde come narrare, dall’interno e da regista-autore, la storia di una Hollywood tanto nascosta quanto scomparsa, se non rovesciando la tradizionale subalternità del cinema alla letteratura come arte?

Non dunque un romanzo che diviene cinema e quindi avanguardia – non la caméra-stylo, “il pensiero letterario che diviene pellicola”, lanciati in passato da Alexandre Astruc – ma un film che, al contrario, diviene romanzo-arte-scrittura-‘pop’.

Qualcosa come l’equivalente di trascrivere sotto forma di racconto le logiche non-discorsive di un’opera di Roy Lichtenstein, forse il più tarantiniano degli artisti pop. Un’operazione di rovesciamento – di sovvertimento della vecchia arroganza modernista, coloniale e civilizzatoria dell’arte occidentale e dei suoi elitari confini tra “alta cultura” e “cultura pop” – che più irreverente non si può. Ma C’era una volta a Hollywood può anche essere considerato un romanzo tipico dell’alta tradizione letteraria americana, quella della cosiddetta “alternative history” dei vari T. Capote (A sangue freddo), N. Mailer (Il canto del boia) P. Roth (Complotto contro l’America), Ph. Dick (La svastica sul sole), T. Morrison (Amatissima) e più recentemente C. Whitehead (La ferrovia sotterranea), vale a dire di quella narrativa che prende spunto da fatti ed eventi storicamente veri, ma alterandone o mutandone il loro reale accadere storico.

Sarebbe interessante, per esempio, raccontare gli anni d’oro del cinema italiano e di Cinecittà (1947-1975) da un punto di vista in qualche modo simile, non quindi come mera monumentalizzazione, ma a partire dalla reale cultura popolare, negli intrecci di razza, classe e genere, su cui si fondavano.

3.

Nella versione romanzo C’èra una volta a Hollywood è strutturato, come il film, sulla vita di Rick Dalton (attore di telefilm e di film di serie B) e della sua controfigura (lo stuntman e tuttofare) Cliff Booth. La sintassi del romanzo resta più o meno quella del film, ovvero il rapporto umano e professionale tra Rick e Cliff, l’impossibile dissociazione tra Rick e Bounty Law (il telefilm western con cui inizia il film e che ha reso famoso il personaggio R. Dalton), la vita di Roman Polanski e Sharon Tate a Cielo Drive, la vicenda di Charles W. Manson, il rodaggio cinematografico di una versione di fantasia di un nota serie-tv degli anni Sessanta come Lancer, il travaglio di Dalton per entrare nella Hollywood di serie A. Ma la trama è qui “montata” da Tarantino secondo un ordine narrativo piuttosto diverso rispetto al film.

Le narrazioni di Tarantino non sono mai lineari. Non seguono mai una sequenza temporale chiara, proponendo invece una singolare forma-collage (flashback ed elementi di discontinuità di ogni tipo, la famosa spartizione dell’immagine in due piani separati diversi, sequenze a rallenti, le inquadrature dalle ginocchia ai piedi, ironiche frasi scritte sui riferimenti temporali della storia, ecc.) spesso assai semanticamente dipendente da formidabili colonne sonore, e cioè le sue narrazioni mirano all’l’interruzione consapevole del rapporto di immedesimazione tra film e spettatore onde distruggere qualsiasi effetto tanto di realtà quanto di neutralità, di obiettività e di purezza autoriale.

Come i movimenti sporchi della macchina in mano, resi famosi dai registi del manifesto-Dogma, la forma dei film di Tarantino ci ricorda che l’autore è sempre lì, che ciò che vediamo è una sua “costruzione”, una sua “finzione”, che non dobbiamo oggettivare nulla di ciò che vediamo.

E tuttavia nel romanzo, Tarantino sembra non resistere a se stesso e non esita a manomettere la sua storia, a proporne un montaggio diverso. Non ne cambia di certo l’essenza – che sicuramente ne viene rafforzata – né l’esposizione delle principali scene e blocchi narrativi del film; la differenza sta nell’ordine dei fatti, nella loro alterazione (distensione di alcuni, contrazione di altri) e diversa disseminazione (non successione) temporale.

Alcuni particolari occupano qui più spazio – il rapporto di Dalton con la bambina-attrice Trude, la vita della controfigura Cliff (qui il personaggio centrale del racconto) – così come altre sequenze vengono o meramente evocate (il massacro degli hippies, quasi assente nel romanzo) o ulteriormente sviluppate mediante l’aggiunta di un’efficace e originale griglia di riferimenti storico-biografici assai eterogenei.

Ma sicuramente ciò che fa irruzione volutamente “senza controllo” nella narrazione, se possibile rispetto a un’originale “visuale” che di citazioni cinematografiche ne conteneva già tante, è il richiamo costante a film, telefilm, attori, registi, scene famose e ad aneddoti storici vari della Hollywood di serie B degli anni Cinquanta-Sessanta. Se nel film tutto ciò veniva dato per scontato, affidato al mero rimando tacito delle citazioni e quindi alla memoria cinematografica dello spettatore, nel romanzo Tarantino distende, contestualizza, di più la sua narrazione.

Ne guadagna di certo la forma-romanzo del film, ma anche l’inevitabile ritorno ex-post sulla sua versione cinematografica. Uno di quei rari casi in cui leggere il romanzo arricchisce e rivalorizza il film. Solo che in questo caso, forse unico, il romanzo è stato scritto dopo. Anche una simile “sovversione“, dunque, può essere considerata come un’ulteriore emanazione del suo stile.

4.

È così, per esempio, che il telefilm-western Lancer (1968), e cioè la sovrapposizione tra i riferimenti all’originale televisivo e alle scene che Rick Dalton sta girando per la versione immaginata da Tarantino, si prende uno dei centri del romanzo. Tarantino dedica molte pagine a uno spassoso racconto pulp della trama originale di Lancer, così come “monta” un capitolo con diverse vicende legate alla vita reale dell’attore Jim Stacy (vero protagonista del telefilm). E tuttavia questa messa in primo piano di Lancer, così come i riferimenti all’immaginaria Bounty Law o a molte altre serie TV realmente popolari negli anni Sessanta – da Combat a Il calabrone verde, da Vendetta e F.B.I a Gunsmoke, Mannix o a The Rifleman – non sono elementi di una jouissance gratuita, ma si propongono come la punteggiatura dello stesso stile pop del romanzo, e cioè ci danno il registro o la lingua (tipicamente tarantiniana) entro cui decodificare la narrazione.

Detto di passaggio, va ricordato che Tarantino ha annunciato di voler girare davvero Bounty Law come serie televisiva a partire dalle connotazioni abbozzate nel film e nel romanzo. Ma la rimessa a fuoco più affascinante del romanzo riguarda sicuramente il personaggio di Cliff Booth: divenuto qui non solo un anti-eroe ancora più anti-eroe rispetto al film, ma soprattutto un appassionato fan di cinema d’autore. Tarantino costruisce qui in un senso decisamente più noir il suo personaggio, non solo accentuando il suo passato come ex combattente nella Seconda guerra mondiale – caratterizzandolo quindi come molti dei protagonisti della stessa Hollywood raccontata dal romanzo – e concedendo più spazio al suo presunto omicidio della moglie (appena accennato nel film), ma facendo di Cliff un cinefilo di altri tempi, e cioè un marginale duro, sarcastico e disilluso capace però di ammirare tanto registi come Akira Kurosawa quanto film (resi famosi dalla critica cinematografica degli anni Sessanta) come Jules e Jim, Riso Amaro, Rocco e i suoi fratelli, La ballata del soldato, I dannati di Varsavia o Io sono curiosa (Giallo) dello svedese V. Sjöman, divenuto nel 1967 un cult movie erotico d’autore.

Cliff è qui un personaggio noir naturalmente da non prendere sul serio come personaggio noir, poiché viene rivisitato, in una tipica operazione tarantiniana, attraverso un’ironica venatura pop, di cui i colori e i vestiti che spesso indossa – giallo e pastello, jeans e stivali di minnetonka – così come il suo stile di vita, nella roulotte in cui vive insieme alla sua cagna pitbull e con cui guadagna soldi nei combattimenti tra cani, ne sono il simbolo: «Cliff prende il sacchetto del preparato al formaggio dalla scatola di maccheroni Kraft, lo strappa e ne versa il contenuto nella pentola. Con un cucchiaio di legno mescola vigorosamente la polvere gialla. La ricetta dice di aggiungere latte e burro, ma Cliff pensa che se uno deve fare tutta quella fatica allora tanto vale che mangi qualcos’altro» (p. 86).

Il suo godimento per il cinema è del tutto anti-intellettualistico, scorre lungo un’empatia viscerale, popolare, e del tutto identificatoria – da freudiana Psicologia delle masse.

Ci viene proposto come una specie di Johnny Madrid (personaggio centrale di Lancer) colto e con il gusto del cinema. Sta sicuramente qui non solo una parte importante della politica della rappresentazione di Tarantino, ma anche una chiave di significazione del romanzo: il potere (ideologico) del cinema di divenire parte del reale, di confondersi con il reale stesso, di attraversare lo schermo per divenire sembiante, desiderio, struttura del sentire. Fino al punto in cui né Rick Dalton né gli spettatori – né noi stessi – riusciamo più a dissociare lo stesso Dalton (reale) da Jake Cahill (Bounty Law). E così come Sharon Tate non è Sharon Tate, per i cassieri del cinema in cui entra per vedere il suo film nel film (The Wrecking Crew, P. Karlson 1969), ma la ragazza de La valle delle bambole (M. Robson, 1967).

C’era una volta a Hollywood, dunque, film e romanzo, si propongono come un omaggio al cinema dell’epoca d’oro, degli anni in cui Hollywood in quanto principale industria culturale del momento governava sovrana sul desiderio di fuga delle masse – di quel periodo in cui, per dirla ancora con Benjamin, il cinema riusciva «a portare colore nel grigiore delle periferie proletarie urbane».

È questo ciò che si può chiamare il “diritto” della sua narrazione; più cupo il suo “rovescio”: il cinema come nemesi del feticismo della merce. La cultura commerciale di massa come pelle della cultura postmoderna, come trasfigurazione e godimento carnale di ciò che Guy Debord chiamò “società dello spettacolo”. Difficile qui non pensare a una delle immagini tarantiniane rimaste più impresse sulla nostra pelle, ovvero al ristorante di Pulp Fiction in cui V. Vega (J. Travolta) e M. Wallace (U. Thurman) si danno appuntamento per la cena-ballo. Si tratta di un rovescio critico del tutto implicito nella narrazione, evocato ma mai nominato, poiché nominarlo equivarrebbe a prendere le distanze in senso elitario dal mondo dei suoi personaggi, a uscire dal mondo narrato, e cioè a posizionarsi in un luogo di enunciazione “esterno” (puro) e quindi del tutto estraneo alla logica pop dell’arte di Tarantino.

Come i famosi barattoli di pomodoro di Andy Warhol, la sua critica alla cultura commerciale di massa, si esprime attraverso l’ironia, la parodia, l’estremizzazione o stereotipizzazione dei suoi stessi simboli. Qualcosa che risulta ben visibile anche nella strategia discorsiva del romanzo: la storia è narrata in terza persona, ma il narratore non si dissocia mai del tutto dai suoi personaggi, si pone allo stesso tempo come interno ed esterno al loro mondo culturale. Resta sempre uno di loro, anche se ha un occhio leggermente diverso, che compare però solo di sfuggita, attraverso piccoli gesti, come un battito di palpebra: «A Cliff piace sia il telefilm Mannix sia il suo protagonista. Mannix è il suo ideale. E se fosse Mannix, la prima cosa che farebbe è trombare Peggy» (Gail Fisher, ovvero segretaria di Mannix e prima attrice nera a “parlare” in una pubblicità nella TV americana. Nella serie TV, Peggy non veniva mai coinvolta in storie d’amore con i personaggi, poiché le grandi catene non volevano nelle loro trasmissioni rapporti sentimentali interrazziali).

«Cliff è anche un grande fan dell’agente segreto Matt Helm. Non degli insipidi film con Dean Martin, ma dei romanzi scritti da Donald Hamilton. Si tratta di un personaggio inconsapevolmente razzista e consapevolmente misogino, e Cliff lo adora. Cliff cita i personaggi dei romanzi da edicola – Matt Helm, Shell Scott e Nick Carter – così come gli inglesi citano Keats e i francesi Camus» (p. 87). Una descrizione del tutto in linea con le migliori etnografie dei Cultural Studies sulle “politiche” della cultura commerciale di massa e le sue potenti forme di interpellazione popolare.

5.

Non è un caso se C’era una volta a Hollywood è ambientato nel 1968-69. Si tratta di un momento spartiacque non solo nella storia in generale, ma anche nella storia di Hollywood. La vecchia Hollywood classica moriva – insieme al suo immaginario borghese fordista e postbellico – mentre una nuova Hollywood – il cosiddetto “new American cinema” (Hopper, Scorsese, Coppola, Cassavetes, De Palma, Woody Allen, ecc.) – cominciava a mostrare i primi artigli. E tuttavia in questo nuovo scenario, dentro questo emergente cinema-mondo, Rick e Cliff restano degli alieni, vengono qui costruiti come soggetti residuali della Hollywood classica e del suo humus culturale – bianco, conservatore, individualista, misogino, americano fino al midollo, come il più coloniale-razziale dei generi, e cioè il western, anch’esso qui in via di estinzione: «Rick era un attore dell’epoca di Eisenhower catapultato nella Hollywood di Dennis Hopper» (p. 188).

Questa loro non-contemporaneità, questa estraneità rispetto all’emergente cultura del ‘68, viene maggiormente accentuata nel romanzo fino a divenire la tipica struttura di un western di serie B: due cow-boy di altri tempi – due uomini bianchi, inflessibili nelle loro convinzioni, orgogliosi e mascolini fino alla caricatura – che si ritrovano in un mondo non più loro, e cioè tra comunità hippie, rivolte giovanili, movimenti contro-culturali, libertà sessuale, ecc. Due perdenti un po’ sprezzanti, ma sensibili, «due uomini che non piangono davanti ai messicani» (p. 176).

Rick e Cliff non rappresentano certo il glamour, per così dire, di quella Hollywood classica in via di estinzione, bensì il suo sottosuolo: una Hollywood plebea, molto meno patinata di quella più nota, fatta più da mestieranti che non da artisti, da attori mediocri, frustrati e alcolizzati e soprattutto da registi più artigiani che non autori, pur se a loro modo a volte anche geniali, ma condannati a generi e film di serie B, effimeri o rimasti semi-sconosciuti.

Una Hollywood sotterranea e “organica” – nel senso che Raymond Williams diede a questo concetto in Culture and Society (1961) – a quell’America bianca, tradizionale e patriarcale raccontata nei tanti miti di fondazione della nazione. Non vi sono infatti personaggi neri nella storia e anche la bellissima colonna sonora del film, fatto strano per un film di Tarantino, è quasi del tutto bianca, accompagnata soltanto da qualche inflessione ispano-messicana. Anche la caratterizzazione di questa Hollywood di serie B viene maggiormente contestualizzata nel romanzo attraverso l’inserimento sotto forma di fiction di episodi storico-biografici reali, quasi da offrire una sorta di “contro-storia” del cinema subalterno americano.

Numerosissimi i riferimenti a film e registi “minori”, che non solo vengono inseriti nel romanzo come parte della “trama” – mentre nel film si fa riferimento a qualcuno solo di passata o per implicito – ma che rappresentano spesso buona parte dell’ispirazione del cinema stesso di Tarantino: l’accattivante Le pistole dei magnifici sette (1969) di P. Wendkos, i bellissimi Punto Zero (1971) e Uomo bianco va col tuo dio (1971) di R. Sarafian o anche il “postcoloniale” Buio oltre il sole (1967) di J. Cardiff (ambientato nel Congo coloniale).

Suggestivi, e squisitamente tarantiniani, i riferimenti all’interessante, ma poco nota, tradizione di film western tedeschi tratti dai romanzi di Karl May, «uno scrittore tedesco che non aveva mai messo piede negli Stati Uniti, ma che scriveva storie di grande successo in Germania ambientate nel Nordest americani ai tempi dei pionieri» (p. 371), come la saga di Old Shatterland e Winnetou: Il Tesoro del lago di argento (H. Reinl, 1962), La valle dei lunghi coltelli (H. Reinl, 1963) e Giorni di fuoco II (H. Reinl, 1964). Tarantino inserisce nel suo racconto aneddoti e vicende legate a questi e altri film e telefilm non solo per offrire una parte importante della genealogia del suo cinema, ma anche per dare alla sua narrazione un contesto storico in qualche modo più “reale”, trasformandola, come abbiamo anticipato, in una curiosa variante del genere letterario dell’“alternative history”.

Molto avvincenti da questo punto di vista – sempre a metà tra genere biografico e scrittura pulp – le pagine riguardanti la dipendenza dall’alcol di attori come Lee Marvin (Quella sporca dozzina, R. Aldrich 1967) e Aldo Ray (Men in War, A. Mann 1957), o il racconto dell’esperienza vissuta da diversi registi e attori come combattenti nella Seconda guerra mondiale (come Lee Marvin). Questo inserimento sotto forma di fiction di aneddoti storico-biografici reali nel romanzo, fondamentale per un’audience non-americana, e quindi meno familiare con buona parte di ciò che si racconta anche nel film, riguarda anche altri snodi della narrazione.

Tutt’altra luce, per esempio, acquista qui l’episodio della lotta tra Cliff e Bruce Lee, uno dei momenti cult del film. Sappiamo che Tarantino ama il cinema delle arti marziali, uno dei generi prototipi della cultura commerciale di massa degli anni Sessanta-Settanta, ma nel romanzo si fa direttamente cenno al fatto che Bruce Lee maltrattava realmente gli stuntman dei suoi film (come mostrano alcune sue biografie), che a volte li colpiva nelle scene fino a far loro realmente del male, ragion per la quale molti di essi non volevano lavorare con lui, così come vero è l’episodio che scatena la gara tra i Cliff e Lee. Era noto che B. Lee affermava spesso sui set che avrebbe potuto vincere in un’ipotetica sfida contro Muhammad Ali.

Più contestualizzato nel romanzo è anche il rapporto di B. Lee con la coppia Polanski-Tate, nel film solo accennata in una rapida immagine (in cui S. Tate segue i gesti di Karate di B. Lee). Nel romanzo si fa riferimento esplicito al fatto che Lee era stato ingaggiato dalla coppia come personal trainer, in particolare per introdurla alle arti marziali e che qualche volta andò in vacanza con loro sulle alpi svizzere. La narrazione del romanzo, sempre sotto forma di fiction, ci rivela anche altri aneddoti e vicende riguardanti la coppia Polanski-Tate, sia sul loro rapporto personale che sulla loro vita mondana a Hollywood, ma anche sui loro film.

Particolarmente suggestive, dal punto di vista cinematografico, le pagine-omaggio dedicate da Tarantino al cinema di Polanski, in particolare a due capolavori come Repulsione (1965) e Rosemary’s Baby (1968).

Un elemento che può suonare chiaramente problematico, viste le accuse di violenza sessuale emerse negli ultimi anni nei confronti del regista polacco. Ma vale qui ciò che abbiamo già detto: la narrazione di Tarantino è del tutto interna a ciò che rappresenta, non consente un fuori esplicito, per così dire, al narratore. E Tarantino vuole mostrare qui soltanto il Polanski regista-personaggio del suo romanzo, ovvero la sua internità a quel mondo oggetto della sua narrazione.

6.

Interessante anche la maggiore distensione (storica) nel romanzo di tutto ciò che riguarda Charlie Manson e la sua comunità. Nel film Manson appare invece solo in una scena e quasi di passaggio (giustamente, forse, per evitare che la storia si condensi sul suo personaggio già eccessivamente “parlato” dalle industrie culturali americane), nel momento in cui si reca nell’ex casa di Terry Melcher (produttore dei Beach Boys) a Cielo Drive, ma dove trova invece ad abitare i nuovi ospiti, la coppia Polanski-Tate. Come lascia intendere il romanzo, anche qui seguendo il filo proposto da buona parte dei testi e ricerche sulla vicenda, è in questa scena che forse comincia a germinare nella testa di Manson l’idea di uccidere tutti i nuovi abitanti dell’ex casa Melcher.

È noto che Manson conoscesse Melcher, i due si frequentavano nelle feste e riunioni che questo teneva a casa sua, a cui partecipava spesso anche Dennis Wilson, batterista e forse anima più originale dei Beach Boys.

Alle feste Manson “apportava”, come ricorda il narratore del romanzo, le ragazze della sua comunità, cercando in cambio era la possibilità di incidere un album, data il suo vero desiderio di divenire cantante pop. Il rapporto con Melcher e Wilson fu così stretto che i Beach Boys incisero una canzone composta da Manson: Never Learn Not to Love (originalmente chiamata da Manson Cease to exist). A scatenare la follia omicida di Manson, si narra nel romanzo, sarebbe stato proprio il mancato incontro con Melcher, fuggito senza preavviso alle insistenze e ossessioni di Manson.

Più spazio qui anche alla storia “vera” dello Spahn Ranch: una volta prestigioso “studio” affittato dai produttori di Hollywood a George Spahn per girare film western, poi caduto in disgrazia insieme a quello stesso genere cinematografico. Sarà la Manson Family ad affittare lo spazio dopo la sua decadenza e a prendersi cura di G. Spahn, divenuto nel frattempo cieco (come si racconta anche nel film). Il romanzo poi incorpora nella sua trama, passandoli in rassegna, alcuni perversi particolari storici di quel singolare delirio razziale e misogino che governava la Manson Family. Si sa che Manson odiava i neri, considerati inferiori e non-americani, che era ossessionato dagli africano-americani musulmani e che aveva pianificato una messa in scena del massacro di Cielo Drive in modo che a essere incolpati fossero le Pantere nere.

Anche se solo di rado la vicenda di Manson viene associata alla violenza razziale bianca tipica della storia degli U.S.A, prevalendo invece la codificazione dominante che l’ha costruita come un effetto degenerato dello stile di vita controculturale, del flower power, della psichedelia e del consumo di droghe, e anche se il romanzo abbozza soltanto questo aspetto della “family”, va ricordato che Manson incarnava e perseguiva un progetto di restaurazione della supremazia bianca come risposta necessaria alle insubordinazioni sempre più radicali dei neri americani di quegli anni. Attraverso un’espressione presa da un noto brano dei Beatles, Helter Skelter, Manson propagandava un imminente scontro razziale tra bianchi e neri da cui doveva sorgere un potere bianco rifondato e capace di rimettere in ordine la società e soprattutto di soggiogare in modo definitivo i neri.

È la tesi, per esempio, di due dei testi più famosi e attendibili sulla vicenda, Helter Skelter: storia del caso Manson (V. Bugliosi, 1974) e soprattutto The Life and Times of Charles Manson (J. Guinn, 2014). Interessante la tesi di Guinn: Manson è stato anche un precursore di quella eterogenea galassia oggi rappresentata dalla violenza suprematista della Alt-right americana, di fatti come il massacro di Latinos al Walmart di El Paso del 2019, o come il più recente attacco omicida razzista e misogino contro donne asiatico-americane ad Atlanta, ma si potrebbero aggiungere esempi presi dalla recente storia europea come il massacro di Anders Breivik in Norvegia o il raid anti-neri di Luca Traini a Macerata nel 2018 (si veda per esempio la recensione del The Guardian sul tema).

La trama razziale di Manson però, come quella della contemporanea Alt Right, era costruita su un altro dispositivo di potere costitutivo del suprematismo: quello di genere (sul sessismo e la violenza di genere nel caso Manson e anche all’interno del mondo controculturale degli anni Sessanta vedi per esempio Goodbye to all that, di R. Morgan, 1970, oppure quest’analisi di Aja Romano).

Manson, ex stupratore e magnaccia, cercò di costruire l’autorità patriarcale come metodo di governo della sua comunità ricorrendo a tecniche di assoggettamento predatorio e di violenza psicosessuale sulle donne imparate nel mondo dello sfruttamento maschile della prostituzione degli anni Cinquanta. Il romanzo di Tarantino si sofferma più su questo aspetto che non su quello razziale, ovvero sulla rigida struttura patriarcale della comunità: «All’interno della family, le donne sono cittadine di seconda classe, considerate inferiori agli uomini. Ma Charlie ci tiene a ribadire che sono inferiori anche ai cani che vivono nel ranch.

Ogni volta che una donna della family vuole mangiare qualcosa, prima deve offrirla a un cane. E quasi nessuna donna ha una posizione di rilievo (…) Squeaky deve cucinare per George, vestire George, occuparsi della casa e fargli compagnia, anche sesso. Le altre ragazze mangiano rifiuti, pane secco, frutta e verdura mezzo marce, rovistate nella spazzatura» (pp. 318-319). Solo la televisione impensieriva Manson rispetto al suo dominio sui membri della comunità. Per questo nella comunità, viene ricordato nel romanzo, la TV era vietata. Non tanto per i telefilm, ma per la pubblicità, che Manson considerava il vero oppio dei popoli. Era chiaro che «se la gara fosse con i genitori dei ragazzi – ci dice il narratore del romanzo – Charlie vincerebbe. Ma se la concorrenza fosse rappresentata dalle caramelle Tootsie Roll, dai cereali zuccherati Froot Loops, dallo snack al cioccolato Clark, dalla root beer Hires, dal Kentucky Fried Chicken, dai rossetti Revlon e dai trucchi Covergirl a un certo punto Charlie perderebbe» (p. 320).

Il romanzo lascia anche intravvedere di più in che modo Pussycat e Squeaky, le due ragazze della Family più in vista nel film, siano state costruite su elementi reali presi dalle autobiografie di alcune delle protagoniste della vicenda (in particolare Lynette Fromme e Kathryn Lutesinger, ma soprattutto Dianne Lake, la più giovane seguace della Family, entrata in comunità, come si racconta nel romanzo, per volere dei propri genitori).

Tutta questa contestualizzazione storica offerta dal romanzo, questi riferimenti biografici a vicende e fatti reali, non è un artificio meramente letterario o un semplice complemento ornamentale. Servono a Tarantino a chiudere più ermeticamente, più circolarmente, se così si può dire, il cinema, il mondo e i personaggi che danno vita a C’era una volta a Hollywood.

Anche Manson, a modo suo, è stato una nemesi tanto della cosiddetta Hollywood Culture, ossessionato dal perseguimento della celebrità, la bella vita, la fama e il denaro, quanto dell’America bianca tradizionale razzista, patriarcale e coloniale. Da un certo punto di vista, Manson non è che il significante (o l’estremizzazione) di un certo tipo di mascolinità bianca razziale americana, come d’altronde i due personaggi centrali del romanzo. Rick e Cliff da una parte, la Manson Family dall’altra, finiscono per essere diritto e rovescio di un’unica forma di vita: di un unico «complesso psico-esistenziale razziale», come direbbe il Fanon di Pelle Nera. Maschere Bianche.

7.

Il mondo della storia si chiude, dunque, e il senso delle due narrazioni (film e testo) si apre, o almeno diviene più chiaro. Appare ora più “naturale» che Rick e Cliff, soggetti residuali di un’America bianca, patriarcale coloniale tradizionale, non possono che odiare il mondo e la cultura hippie. Come afferma il suo agente a Rick, mentre cerca di convincerlo ad andare in Italia per girare spaghetti western: «Hai presente tutta questa merda hippie che ha invaso il nostro paese? Bene, c’è anche a Roma. Solo che gli italiani prendono sti culattoni di hippie a calci in culo. E, quindi, la cultura hippie non domina la cultura popolare come qui da noi» (p. 373).

Per loro, come per l’America profonda (anche di oggi) non c’è via di uscita. Il mondo (l’America) deve essere sempre uguale a se stesso. Forse sta qui il senso del finale del film, con l’inversione dei fatti della storia reale: Rick e Cliff che massacrano hippies (volutamente caricaturali), Sharon Tate e amici che restano vivi. Rick e Cliff sono condannati a restare chiusi nel loro mondo. Il romanzo presenta un altro finale ancora, incentrato sul rapporto tra Rick e la bambina attrice, ma l’essenza non cambia. Si può anche sostenere che film e romanzo guardino con occhio nostalgico quel mondo che non c’è più. Ma questo solo se si esce dal mondo di Tarantino, dal suo linguaggio, dalla sua politica del politicamente scorretto, e cioè solo se si smette di giocare al suo gioco.

Tanto nel film come nel romanzo Tarantino racconta quel mondo e quel cinema secondo la sua singolare legge narrativa, e cioè attraverso una narrazione ironica, caricaturale, pulp e quasi fumettistica dall’interno, ovvero smontandoli, a livello semiotico e politico, attraverso ciò che si può chiamare un’estetica dell’eccesso. Stanno tutte qui da sempre l’originalità, la critica e la forza adrenalinica del cinema di Tarantino.