editoriale

Il “popolo” della manovra

L’imbarazzo o addirittura l’entusiasmo con il quale a sinistra è stato accolto l’annuncio della manovra economica del governo, sembra sottovalutare la natura dello scontro che dividerà il campo politico europeo e la logica autoritaria che si nasconde dietro le misure di stampo redistributivo

Non c’è alcun dubbio che il braccio di ferro, che ha portato all’innalzamento al 2,4% del rapporto tra deficit e Pil nella Nota di aggiustamento del Def, sia una mossa astuta e dagli esiti politici tutt’altro che irrilevanti. Fortemente voluta da Di Maio e i 5 stelle per ridimensionare la finora incontrastata egemonia politico-mediatica del ministro degli Interni Salvini (il quale, a fronte di un’iniziale timidezza, ha poi sbloccato il suo sostegno), la battaglia per lo “sforamento” del deficit proietta il governo giallo-verde su un campo da gioco nuovo: toglie i 5 stelle dal cono d’ombra sotto cui rischiavano di scomparire, esternalizzando le contraddizioni tra i due soci del governo nello scontro contro l’Unione Europea, l’avversario più impopolare.

Bisogna sottolineare che lo scontro sui parametri di bilancio non riguarda tanto la cifra in sé (il 2,4% non ha nulla di rivoluzionario, né basta a invertire la rotta alle politiche di austerità) quanto il fatto che questa non sia stata precedentemente concordata con le istituzioni europee. Al tempo stesso, il governo italiano, pur aspettandosi l’attacco dei mercati finanziari e non potendo escludere l’avvio delle procedure d’infrazione da parte della Ue, sa perfettamente che il trattamento che quest’ultima può riservare all’Italia non potrà in nessun caso essere equiparato a quello già sperimentato dalla Grecia nel 2015: e questo non solo per la sua rilevanza politico-economica, ma perché un atteggiamento eccessivamente punitivo rischierebbe di dare lo slancio alle formazioni sovraniste che, alla vigilia delle elezioni europee, oramai minacciano gli “equilibri di centro” di tutti i più importanti paesi del vecchio continente.

 

Conservatori contro reazionari

Con l’approvazione del documento del Def si apre dunque una partita a scacchi con le istituzioni dell’Ue dall’imprevedibile svolgimento. Quello che però è sicuro è che, contrariamente al tono di alcuni commenti che circolano in rete, questo scontro non aprirà alcun varco dentro cui una politica di emancipazione possa inserirsi, né determinerà spiragli per ipotesi neo-riformiste. Che il braccio di ferro attuale con il governo italiano non riproduca mutatis mutandis il caso greco, è vero anche su un altro versante: nel 2015 lo scontro che si venne a determinare tra il governo di Tsipras e le istituzioni Ue si inscriveva all’interno di un contesto di mobilitazioni sociali specifico. L’eventualità che la Grecia strappasse concessioni all’Unione europea avrebbe avuto ripercussioni su quel tessuto di lotte e sulle rotture istituzionali su cui queste insistevano: la protervia con la quale Schäuble e compari decisero di chiudere la “crisi” era commisurata proprio a quella minacciosa evenienza. La situazione attuale, invece, si inscrive all’interno di uno scenario completamente differente nel quale è piuttosto la “costituente sovranista” a candidarsi all’incasso. Detto altrimenti, anche se oggi non possiamo ancora prevedere né le mosse né gli scenari di questo conflitto istituzionale, quello che è possibile dire è che esso contribuirà a polarizzare il campo politico europeo in uno scontro fittizio di cui abbiamo già raccolto diversi segnali: quello tra una disperata conservazione del modello neoliberale in piena crisi di legittimità e la proposta di una sua ristrutturazione in senso reazionario e autoritario.

 

Lo scontro tra reazionari e conservatori sarà dunque lo schema che dominerà nel medio periodo il campo politico europeo.

 

Che lo scontro sia in fin dei conti fittizio, lo dimostra il fatto che la sostanza delle politiche che gli uni e gli altri si apprestano ad adottare, accomuna con gradazioni diverse i soggetti in gioco mostrando quanto reazionari e conservatori rappresentino casomai solo due varianti di uno stesso spartito. Eppure, nonostante questo, i due fronti tenderanno a rafforzarsi reciprocamente, poiché gli “uni” desiderano ardentemente gli “altri” come attuali avversari e futuri interlocutori.

 

La manovra e il suo popolo

Lo strano imbarazzo (per non dire il malcelato entusiasmo) che a sinistra spesso si incontra nel commentare la manovra, come se essa potesse essere interpretata come l’apertura di una qualche rottura dei diktat europei, o come se il contenuto delle misure economiche previste nella manovra di bilancio fosse il segno di una qualche istanza “popolare” nella desolante continuità delle politiche neoliberali, non solo non tiene minimamente in conto lo scenario geopolitico entro cui essa si muove e da cui questa trarrà sostegno, ma finisce per fraintenderne la stessa “natura”.

L’elemento decisivo è che tanto le vedove delle compatibilità e dei parametri Ue (Pd e “Repubblica”) quanto gli improvvidi tifosi di sinistra della “manovra del popolo” di fatto rinunciano a ogni forma di lotta prendendo per buona la demagogia del “cambiamento”, senza andare a vedere e contestare le misure concrete con cui si articola quel programma di governo. L’abolizione della povertà non è impossibile o pericolosa per principio (come ritiene chi sgranocchia popcorn in attesa dello spread), ma va messa alla prova sulle modalità del reddito di cittadinanza, sull’esecuzione degli sfratti, sui vertiginosi aumenti preannunciati per il gas e la luce, sul salario minimo, ecc ecc.

Il combinato disposto delle misure annunciate nella manovra finanziaria, nonostante non se ne conoscano ancora perfettamente i dettagli, allude fin da subito a un modello economico-sociale nel quale l’avvio di politiche regressive sul fronte fiscale (Flat Tax e taglio dell’IRES), nel mentre porteranno grandi vantaggi per le imprese e per i redditi alti, e scarsissimi per quelli bassi, comporteranno un definanziamento strutturale dei servizi pubblici. Non solo: le condizioni in cui verrà concretamente realizzato il “reddito di cittadinanza” dei 5 stelle, più che «abolire la povertà», condurranno a un trattamento amministrativo dei poveri i quali saranno portati a scambiare con un sussidio alquanto contenuto e certo non risolutivo della loro condizione di deprivazione, la loro immissione forzata nel mercato del lavoro, prestando lavoro obbligatorio destinato a compensare gli inevitabili tagli al personale dei servizi sociali.

Più che al ritorno di una politica di stampo keynesiano, improntata al rilancio della spesa pubblica e al nuovo protagonismo dello Stato nella gestione della crescita economica, ci troviamo davanti a una logica di altro tipo: una politica fortemente redistributiva, è vero, ma che punta – soprattutto sul terreno della fiscalità – a trasferire risorse verso alcuni ceti.

 

Il “popolo” a cui allude questa manovra si presenta in altre parole come il progetto di un’alleanza tra “ceto proprietario” e “classi popolari”.

 

Un’alleanza fondata fin da subito da un patto escludente (tra cui, il reddito di cittadinanza solo per gli italiani) e segnata da un evidente rapporto gerarchico interno: laddove al primo saranno infatti riservati i privilegi economici, la libertà di evadere (pace fiscale) e la licenza di uccidere (DL sicurezza), alle seconde resterà l’opportunità di essere inserite in un programma di disciplinamento della povertà controllato dallo Stato.

Al posto di quella alternanza dell’umore che caratterizza buona parte della sinistra più o meno radicale, che vede un giorno il ritorno del fascismo e quello successivo l’instaurazione di un governo finalmente popolare, bisognerebbe abituarsi all’idea che un certo tipo di politiche redistributive non contraddicono, ma anzi sostanziano, una torsione in senso reazionario della società: la costruzione di una sfera di consenso fondata sulla difesa della comunità nazionale e laboriosa, passa tanto per una politica di sgomberi degli italiani poveri ed espulsioni dei migranti, quanto per politiche di riorganizzazione del sistema dei sussidi sociali.

In uno scenario così definito, segnato dalla falsa contesa tra conservatori e reazionari, è solo l’irruzione di corpi sociali radicalmente democratici che potrà rompere il quadro. A questi, sarà riservato il difficile compito di inserirsi nel conflitto redistributivo preparando il terreno a nuovi assemblaggi sociali e svelando, allo stesso tempo, l’intima logica che tiene insieme le politiche di privilegio per i proprietari, il razzismo istituzionale e il paternalismo riservato ai poveri.