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OPINIONI

Policrisi o crisi evenemenziale? Althusser e Machiavelli a spasso in un mondo in fiamme

Stiamo assistendo alla proliferazione di molte categorie che cercano di concettualizzare la correlazione tra le molte crisi manifestatesi negli ultimi anni, e che hanno visto nella pandemia da Covid un indicativo momento di addensamento. Indice di questo sforzo intellettuale e discorsivo è la diffusione di concetti come “policrisi”, “sindemia”, “regime di guerra”, “crisi climatica”: concetti che definiscono la società capitalistica non tanto come sistema in crisi, ma come sistema di molte crisi. Una ipotesi a partire da Althusser e Machiavelli

La filosofia e la lepre.

«Uno dei modi per risolvere l’aporia del “chi da ordini al filosofo?” è evidentemente quello di esporsi, il più spesso possibile e senza restrizioni di competenza, senza immunità garantita, a ordini, interrogazioni, richieste di teorizzazione di cui non si scelgono i termini […]. Si tratta di lasciare che altri soggetti, altre istanze determinino ciò di cui si ritiene, a torto o ragione, capaci di discutere, e, almeno in una certa misura, lasciarli scegliere per voi il linguaggio stesso della questione».

Balibar, La filosofia e l’attualità: oltre l’evento?, in Rita Fulco, Andrea Moresco (a cura di), Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica, Quodlibet, 2022, p. 110

Così parlò Balibar, elevando a condotta di pensiero la genesi “casuale” del marxismo: non ci sarebbe stato Il Capitale, come libro, modo di pensiero e strumento di agitazione, senza l’incontro imprevisto tra il Marx filosofo-giornalista e l’agitazione di lavoratori e lavoratrici in Inghilterra. Working class che, a quel tempo, era il fuori del pensiero. Cos’è una trasformazione nel pensiero? Althusser risponderebbe così: Machiavelli e il Valentino, Newton e la mela, Spinoza e la rivoluzione orangista, Hegel e la Rivoluzione Francese, Arendt e le guerre mondiali (e chi più ne ha più ne metta). Insomma, si tratta dell’incontro tra il pensiero e un’emergenza reale. Diremmo oggi, dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin: l’incontro tra il pensiero e il rumore di un soggetto imprevisto. [La biografia di Althusser è segnata dall’aver ucciso la moglie, e questo femminicidio pesa sulla sua memoria e mette in posizione scomoda anche chi scrive su di lui e con lui. Tutto ciò non deve essere negato, né obliato, né ridimensionato dal percorso psichiatrico che lo ha accompagnato nell’ultimo capitolo della sua vita.]

Ma potremmo dire: tra il pensiero e le foreste infiammate dalla calura delle ultime estati, le più fredde rispetto agli anni a venire. È qui il punto zero della filosofia: la contraddizione tra società umana ed equilibri non-umani. Soprattutto se la crisi climatica non si presenta più come un problema tra gli altri, ma è lo sfondo su cui si proiettano, innescano e giustappongono crisi sociali ed economiche, dell’immunizzazione biologica e belliche: poli-crisi, volendo usare l’espressione, molto fortunata, di Adam Tooze. Che fare? Farla finita con quell’atteggiamento che la filosofia eredita dall’Illuminismo. Come scrisse Kant nelle prime righe della famosa Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo, l’Illuminismo fu l’uscita del pensiero dallo «stato di minorità», inteso come stato di eteronomia – ovvero: pigrizia a servirsi del proprio intelletto senza guidarsi insieme agli altri – dunque regressione, sul piano della conoscenza, all’epoca in cui l’uomo era assolutamente determinato dalla natura. L’illuminismo è realizzare a pieno l’affrancamento dalla natura. Ma oggi questa separazione è più che mai impossibile, se non addirittura la cosa più stupida da desiderare (per non parlare dell’accusa di pigrizia, visto che siamo schiacciati da tempi di vita tossici per un intelletto che si voglia libero). La crisi climatica, la “natura”, oggi, è ciò che sceglie per noi il linguaggio e l’oggetto di cui occuparsi. Non perché siamo in emergenza, ma perché c’è urgenza di farlo. Altrimenti, come è stato scritto proprio su Dinamopress, rimaniamo confinati nello spiazzamento.

Dall’umile punto di vista di uno studente di filosofia che i tempi accademici li ha mancati alla grande, non mi rimane che attingere a due autori a me cari, Althusser e Machiavelli. Mi sono chiesto: cosa avrebbero scritto, o pensato, incontrando la lepre in fuga dalla foresta in fiamme? Da qui, proverò a mostrare che alcuni loro concetti permettono, almeno, di fornire una rappresentazione della crisi climatica.

Crisi ecologica come surdeterminazione.

Il primo concetto che vorrei presentarvi è quello di contraddizione surdeterminata, un concetto utile a rappresentarci la consistenza e funzionamento della crisi climatica. Che cos’è una contraddizione surdeterminata?

Prima di rispondere, figuriamocela con un’immagine, non rigorosa ma utile per capire. Immaginate il mondo come una grande rete da pesca fatta di tanti riquadri, e tutt* noi come piccoli pesci. La quadrettatura della rete cambia a seconda del punto in cui è tirata e a seconda della forza che ha ogni nodo, a seconda della forza dei punti di presa tra ogni quadrato. È chiaro che se un punto di presa dell’intreccio (gli angoli di ogni quadrato) è lasco, in quel punto la rete si sfalda. In più, una volta che i pesci ci cadono, ciò che essi saranno (o pesci liberi, o una frittura di paranza sul tavolo di un ristorante) non dipende più da questi, ma dalla tenuta dell’intreccio di fili che fanno la rete stessa. Una formazione sociale è questo intreccio fatto di fili (relazioni) che si prendono e modificano a vicenda quadrettandosi in regioni/istanze (l’economico, la politica, l’ideologia ecc.). E, cosa importante, essa non è l’insieme dei suoi elementi puntuali (individui, strumenti per produrre, oggetti di natura, singole idee o sistemi di pensiero ecc.), ma una totalità in cui le relazioni precedono gli elementi puntuali: anzi, gli elementi puntuali sono ciò che sono in virtù delle relazioni in cui sono presi, come i nodi della rete non sono altro che l’intreccio complessivo e, come i pesci, non sono altro che l’efficacia della rete stessa. Insomma, la rete è una grande relazione fatta di relazioni, che si influenzano a vicenda. Relazioni che possono essere chiamate “contraddizioni”.

Althusser, per definire una contraddizione surdeterminata, attinge dai resoconti della Rivoluzione russa scritti da Lenin. La prima cosa che ci viene detta è che la Russia del tempo presentava questo «tratto specifico: l’accumulazione e l’esasperazione di tutte le contraddizioni storiche allora possibili in un singolo Stato>>» Althusser, Per Marx (Contraddizione e surdeterminazione). Per intenderci: la compresenza del conflitto tra operai e padroni e di conflitti interni alle classi dominanti; la contraddizione tra lo sfruttamento capitalista nelle città e quello sviluppatosi nelle regioni minerarie e petrolifere più periferiche; la guerra mondiale come relazione conflitturale tra Stati, e tante altre. Ma non solo. Queste contraddizioni distribuite nello spazio perimetrano un momento storico segnato da una profonda stratificazione temporale. Ad esempio, la contraddizione tra la città e la campagna è, nello stesso momento, la contraddizione tra metodi della produzione capitalistica (il contemporaneo) concentrati nello spazio urbano e forme di lavoro e di proprietà di stampo medievale (il passato) propri delle zone rurali. O ancora: la Russia pronta alla rivoluzione è un paese «a un tempo in ritardo di almeno un secolo sul mondo dell’imperialismo, e alla sua punta più avanzata», dato che vi agisce il partito comunista dal carattere più avanzato d’Europa: ritardo e contemporaneità sul piano del modo di produzione, mentre sul piano soggettivo anticipo del futuro, perché il protagonista della lotta non si era mai visto e, allo stesso tempo, prefigura una società a-venire. Insomma, una pluralità di tempi che si aggiunge a una pluralità di luoghi di applicazione delle diverse contraddizioni. Eccola qui la contraddizione surdeterminata: quando più relazioni-contraddizioni interagiscono reciprocamente. Secondo Althusser, il concetto marxista di contraddizione esclude l’unicità e l’isolamento della contraddizione.

Ma c’è dell’altro: «alcune [contraddizioni] sono radicalmente eterogenee, […] non hanno tutte la stessa origine, né lo stesso senso, né lo stesso livello e luogo di applicazione». Origine e luogo l’abbiamo visto, ma cosa significa che queste relazioni non hanno lo stesso senso? Queste relazioni non sono neutre, ma ben specificate: non semplici combinazioni, ma modi di combinazione (Althusser, L’oggetto del Capitale, in Leggere il capitale, Mimesis, 2006), che si specificano in ragione della natura del loro risultato, dei loro effetti. Generalizzando, il senso di una contraddizione è una relazione tipica + la sua efficacia (risultato) sugli elementi e sul tutto.

Se, dunque, le contraddizioni sono eterogenee sotto l’aspetto del senso, nel gioco della surdeterminazione sono implicate relazioni capaci di effetti sugli elementi e sul tutto che seguono logiche e dinamiche non sovrapponibili. Le contraddizioni che operano intorno al processo di lavoro e all’economico non sono la stessa cosa di una lotta tra forze politiche, ad esempio. Logica dello sviluppo e della processualità da un lato, logica dell’invenzione e della costruzione dall’altro; logica dello sfruttamento da un lato, logica dell’inimicizia politica e dell’invenzione di nuove istituzioni del conflitto, dall’altro [Per inciso, chi scrive non condivide a pieno, rispetto al problema del dove si collochi il conflitto, la suddivisione tra economico e politico proposta da Althusser.]. La capacità di sporgenza è tutta in questa eterogeneità: siamo in presenza di uno strumento concettuale, la surdeterminazione, che apre all’irruzione di contraddizioni dai sensi inediti, come ad esempio il “continente ambiente” con i suoi eventi estremi, propri processi di rigenerazione, di frattura e ricomposizione tra umano e non umano, con le sue temporalità geologiche.

Pensata come contraddizione surdeterminata, il conflitto tra umano e non umano non è l’azione di un’Umanità indifferenziata e astorica, eterna rispetto ai suoi bisogni e modi di procedere, ma il gioco tra strutture non umane, rapporti sociali e di produzione, costituzioni politiche e conflitti, modi di pensare e sentire storicamente determinati; allo stesso tempo, il modo in cui il mondo naturale è corrotto, trasformato in ragione di questi rapporti sociali, agisce, è attivo su questi stessi rapporti, sia quelli economici che quelli politici, per non parlare delle menti, sentimenti e ideologie; in terzo luogo, questa crisi specifica si accompagna a una molteplicità di crisi e contraddizione. Socialmente e politicamente determinata, efficace e determinante a sua volta, non isolata.

Poli-crisi come spostamento

Il 2019 è stato l’anno dell’esplosione del movimento climatico globale, che ha innescato un processo altrettanto globale di maturazione della consapevolezza dei rischi climatici e ambientali del nostro modo di vivere. Inoltre, la crisi climatica si è manifestata come lo sfondo di tante crisi con un ritmo di innesco probabilmente inedito, sicuramente spiazzante. Non a caso negli ultimi anni, sia in ambito accademico che militante (ma anche nella politica alta e nei consessi internazionali – dall’OMS all’ONU, fino al WEF di Davos), stiamo assistendo alla proliferazione di molte categorie che cercano di concettualizzare la correlazione tra le molte crisi – economica, sanitaria climatica, militare, nei rapporti tra i generi, ecc. – manifestatesi negli ultimi anni, e che hanno visto nella pandemia da Covid un indicativo momento di addensamento. Indice di questo sforzo intellettuale e discorsivo è la diffusione di concetti come “policrisi”, “sindemia”, “regime di guerra”, “crisi climatica”: concetti che definiscono la società capitalistica non tanto come sistema in crisi, ma come sistema di molte crisi.

Partiamo da noi e da un punto di osservazione occidentale: come abbiamo esperito il cadenzare del tempo dal 2019 (ma potremmo benissimo partire dal 2008)? Il rischio ambientale diventa il centro, la dominante, poi sostituita dall’interruzione pandemica (crisi ambientale a tutti gli effetti, ma con un di più di centralità dell’umano, sia in termini di istituzioni e soluzioni sanitarie che di libertà di movimento); poi la guerra in Europa, il prevalere della geopolitica e degli effetti sul caro vita, poi la crisi in Palestina. E chissà quale sarà il prossimo slittamento. Un tempo in cui la processualità (corso medio-lungo) mostra un procedere in cui direzioni, protagonisti e nuovi prevalenti si impongono e/o sostituiscono senza centro e fini pienamente prevedibili, entro una continua rinegoziazione del nostro orizzonte di attesa, di ciò che ci aspettiamo: schizofrenia della tendenza? O schizofrenia come tendenza?

Torniamo ad Althusser. Secondo Althusser la storia si differenzia tra momenti di inibizione storica e di rottura rivoluzionaria, tra il momento in cui i rapporti sociali si conservano/riproducono e momenti in cui vengono smembrati e ricomposti in forme nuove, entrambi modi di esistenza della surdeterminazione sul piano del procedere del tempo. Piu nello specifico, Althusser concepisce il blocco storico come fase nonantagonistica, vale a dire come il momento in cui la «surdeterminazione della contraddizione esiste nella forma dominante dello spostamento» (Althusser, Per Marx “Sulla dialettica materialista”), cioè la fase in cui assistiamo a un mero spostamento di maggiore efficacia di una certa contraddizione sulle altre, mero cambiamento quantitativo nella forza di determinazione di una crisi sulle altre. Un modo curioso di intendete un momento di crisi, perché qui crisi non è “decadenza” o pura stasi, ma la repentina ascesa e sostituzione di un vecchio prevalente con un nuovo dominante: il gioco tra molte e diverse contraddizioni, che insistono le une sulle altre, può rendere permanente l’esistente, che si conserva proprio perché ciò che accade è semplicemente l’ascesa della maggiore efficacia di una contraddizione. L’immagine, a nostro avviso, è suggestiva perché risuona con il nostro tempo; tuttavia, non è pienamente efficace perché lo spostamento ricade su un centro, mentre l’esperienza che facciamo del nostro tempo ha più a che fare con la continua revoca dello spostamento.

Poli-crisi come crisi evenemenziale.

Viriamo adesso su Machiavelli e la sua idea di Fortuna. Tra le tante sfaccettature, essa è anche una certa percezione del tempo, una maniera, storicamente determinata ed efficace, di rappresentarci il tempo. Si guardi l’incipit di uno dei capitoli più famosi del Principe, il XXV, che ha per oggetto il ruolo della Fortuna nelle vicende umane. Citazione lunga, ma merita, e che metto in italiano moderno:

mi è ben noto che molti hanno l’opinione che le cose del mondo sono governate dalla fortuna e da Dio, in modo tale che gli uomini, con tutta la loro saggezza, non possono modificarle, e anzi non possano opporvi nessun rimedio; e da ciò si potrebbe dedurre che non valga la pena di affaticarsi, ma che convenga lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione si è diffusa in particolare nei nostri tempi per i grandi cambiamenti che si sono visti e si vedono accadere ogni giorno, ben al di là di ogni umana immaginazione.

[Machiavelli, Il Principe, cap. XXV, corsivo nostro: «e’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare ch’e’ non fussi da insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora da ogni umana coniettura». Traduzione presa da testo a fronte curato da Donzelli e Pedullà dell’edizione Donzelli del Principe, 2013.]

Cosa ci sta dicendo Machiavelli in questo passo? I grandi cambiamenti a cui si sta riferendo sono i continui e repentini cambi di fronte nei rapporti di forza militari che ridefiniscono di continuo la potenza e impotenza degli “stati”, per effetto degli scontri interni alla penisola o delle spedizioni delle potenze spagnola e francese. Uno sconquassamento continuo, previsto, ma imprevedibile rispetto al tempo e al luogo dell’innesco, e agli esiti: ecco il tempo in cui c’è continua sostituzione dell’entità dominante. Una situazione che per Machiavelli è indice di debolezza degli “stati” che non hanno armi proprie (eserciti non mercenari), e causa che produce un senso comune secondo cui all’incostanza del tempo, ai continui cambiamenti, alla Fortuna, non si può imporre una direzione, cadendo così nella rassegnazione a non poter che subire le sferzate del tempo. Infine, una situazione di corruzione, cioè di crisi come inibizione storica, come impossibilità di cambiare il piano di gioco con autentiche innovazioni (istituzionali, sociali) per effetto di una ripetizione interminabile di ostilità, o di eventi che superano l’immaginazione, che crea un “simulacro del mutamento” (Marchesi, Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Machiavelli, Quodlibet, pp. 265-277).

Da Althusser a Machiavelli, e ritorno. Cosa abbiamo ottenuto? Incrociando i due autori, una via di accesso per pensare il tempo della crisi climatica come fase di inibizione storica entro una temporalità null’affatto statica, quanto una temporalità in cui opera, paradossalmente, un di più di cose che accadono: una crisi nel segno dell’evenemenziale, una crisi in cui accade di tutto, e tutto può offuscarsi o svanire sotto l’efficacia di nuove circostanze: il paradosso di un blocco storico per eccesso di movimento, che sia il presentarsi di una guerra, di un evento climatico estremo, o di un virus che si diffonde per tutto il globo.

In secondo luogo, spostandoci su Machiavelli questa idea di crisi è arricchita da altri fattori: 1) che il senso di fatalità, che nei nostri tempi assume l’aspetto dell’Apocalisse climatica o del Terza Guerra Mondiale atomica non è tanto l’immagine/paura del mondo che finisce, ma più propriamente il modo di esistere, sul piano della rappresentazione del futuro, della continua revoca e spostamento di efficacia delle contraddizioni che costituiscono il nostro mondo, dell’essere sovrastati dalla policrisi; 2) che la storia delle società umane è fatta di periodi che si distinguono l’uno dall’altro per il ritmo proprio di quel tempo, tale per cui possono darsi dei periodi storici segnati da un di più di evenemenzialità aleatoria, ovvero di accadimenti che hanno una loro puntualità, evanescenza allo stesso tempo incisiva, e che appaiono e scompaiono entro un di più di imprevedibilità, come la penisola italica a cavallo dei secoli in cui agisce e pensa Machiavelli.

Svolta evenemenziale?

Scorgiamo bene le lacune e una certa dose di afasia del ragionamento appena proposto. Mi limito a mettere le mani avanti esplicitando la percezione che lo guida. Dato che siamo al cospetto di una crisi senza precedenti come quella climatica, bisogna ripensare da cima a fondo il modo in cui intendiamo i “processi” – tempi lunghi, tempi di preparazione, tempi scanditi da una legge di fondo, ecc. – e l’“evento” – temporalità puntuale, accadimento che trasforma radicalmente, oppure affioramento al tutto casuale che semplicemente accade, ecc. – e la loro dialettica. (Consiglio vivamente di immergersi nella lettura della collettanea curata da Rita Fulco e Andrea Moresco Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica (Quodlibet, 2022), uscito a ridosso della congiuntura pandemica).  

A tal proposito, è altamente suggestivo il concetto elaborato da Balibar di «evento trascendentale» (Balibar, La filosofia e l’attualità: oltre l’evento?, cit.). Per quest’ultimo, la storia della filosofia del Novecento può essere canonizzata come svolta evenemenziale:  a differenza del secolo (hegeliano) precedente in cui è il processo – corsi lunghi, tendenze necessarie, coerenza di fondo – la condizione di possibilità e spiegazione ultima degli eventi – momenti puntuali, interruzioni della legge sottostante, contingenza non deducibile da una causalità o da una finalità –, nel pensiero del XX secolo prende forza un approccio che inverte questi termini (Heidegger, Deleuze, Derrida, Badiou, e lo stesso Althusser, ecc.). Insomma, le categorie di rottura, contingenza, irreversibile e imprevedibile acquisiscono il primato. L’ipotesi, perché di ipotesi si tratta, che qui propongo è la radicalizzazione di questa lettura: l’evento trascendentale non è solo un approccio di pensiero, o un criterio di periodizzazione della storia delle idee, ma una svolta storicamente determinata nella grammatica dell’essere attuale; inoltre, tale precedenza dell’accadimento puntuale, o della rottura, o del momento fugace, non pertiene più esclusivamente alla dimensione intersoggettiva – dei rapporti in ultima istanza tra volontà umane – ma si caratterizza per un forte protagonismo della dimensione non umana. Per intenderci, la trasformazione, il blocco o la regressione non si riducono agli uomini/donne che trasformano il mondo (rivoluzione), o al disfunzionamento del sistema in cui producono e si riproducono (crisi economica), ma integrano il ruolo di soggettività non-umane, vale a dire di un’agency incisiva (sia produttiva che distruttiva) non pienamente sovrapponibile all’umano e alle logiche di un sistema sociale pensato con caratteristiche esclusivamente antropiche. Un esempio “sciocco” per capirsi: la sparizione dei coralli per il superamento del +2 gradi trasformerebbe fortemente, se non addirittura radicalmente (in peggio, e in maniera irreversibile), la vita sul pianeta.

NB. Una versione più estesa del testo, in cui approfondisco la pratica politica ecologista e la transizione ecologica e democratica, è uscita su Leparoleelecose. Le idee qui presentate sono in debito con il testo Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica (Quodlibet, 2022), a cura di Rita Fulco e Andrea Moresco.

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