editoriale

Periferie immaginarie

La “periferia” funziona troppo spesso come formula retorica, che poco spiega dello sviluppo urbano (fuori del caso Roma) e invece fa da alibi per il declino strutturale dei partiti di sinistra

Dici “periferie” e come un eco rimbalza “degradate”. E via per associazione di idee: marginalità, devianza, tossici, decoro, vulnerabilità, graffiti, retaker, migranti, zingari, neofascisti, abbandono delle e ritorno alle (periferie).
Un profluvio di luoghi comuni e di emerite cazzate.

Centro-periferie: di certo un problema, tipo le scale mobili del metro A o l’uso incongruo di “piuttosto” nel linguaggio middle-class, ma non proprio un problema universale. Nello sviluppo anomalo di Roma un approccio molto evidente, ma di scarsa utilità se trattiamo lo sprawl di Los Angeles o la conurbazione regionale di Città del Messico, o se prendiamo in esame le inner cities statunitensi ma anche la Napoli dei Quartieri Spagnoli e di Spaccanapoli o Palermo. Per ben poche capitali europee (neppure le banlieues parigine) e perfino regionali italiane (Milano, Bologna) vale l’immagine “romana” di una periferia fuori regola, sfornita di servizi e collegamenti veloci e quindi più soggetta a degrado, delinquenza, pulsioni ribellistiche o accensioni xenofobe. Tornare a radicarsi nelle periferie suonerebbe assurdo per un movimento di sinistra a Londra o Tokyo o New York, quanto per un movimento fascista aizzare i diseredati contro le élites del centro citta a Long Island, San Ángel o Hampstead, mentre evidentemente varrebbe per un discorso urbano generale o per singole aree sottoprivilegiate.

La periferia non esiste in natura, è alla lettera “costruita” in riferimento a un centro storico per opera di scelte programmatiche da parte dell’amministrazione comunale (ma in Italia gli alloggi popolari costituiscono appena il 5% del patrimonio complessivo e non se ne costruiscono più dal secolo scorso) o si sviluppa, come a Roma, in modo” spontaneo”, però anticipato e legalizzato ex post da delibere comunali (piani regolatori, deroghe e varianti agli stessi, meccanismi di compensazione, sanatorie, costose urbanizzazioni a insediamenti sparpagliati). Soprattutto è una “spontaneità” che segue a stretto giro le regole della rendita urbana e della speculazione. L’edificazione delle “periferie” è parte organica di una crisi dell’intera città. Fa ridere, dunque, che gli artefici dello sviluppo caotico e delle compensazioni per fare cassa scoprano a un certo punto che hanno messo su nidi di vipere, luoghi di conflitto e odio razziale, serbatoi di voti ostili (l’unica cosa che li preoccupi) e infine, dai loro confortevoli quartieri “bene”, proclamino di “tornare alle periferie”, come se laggiù ci fossero ancora le loro radici e qualcuno, sentendosi abbandonato, li avesse traditi.

Ma usciamo dai miasmi romani e respiriamo la “Berliner Luft”. Partiamo da Neukölln, quartiere ex-operaio e ora multikulti, una Torpigna con ben altro livello edilizio e di trasporti (scordatevi il mitico trenino a bande gialle della Casilina), e in tre fermate della U7 arriviamo a Parchimer Allee. Senza dubbio a Britz stiamo ai margini della città, ma già seguendo la lieve curva della Fritz-Reuter Allee all’uscita dalla stazione ci troviamo in un paesaggio metà campagna e metà elegante edilizia residenziale popolare, sul lato destro pittoresca, sul lato sinistra razionalista, ma assai variegata e con vivaci colori.  In meno di mezzo chilometro arriviamo nel cuore della Siedlung, il grande ferro di cavallo intorno a uno stagno (Hufeisensiedlung), costruito negli anni ‘20 da Bruno Taut per impulso dell’assessore socialdemocratico all’urbanistica Martin Wagner, oggi patrimonio dell’UNESCO. Una “periferia” ben pianificata e attrezzata secondo i canoni del riformismo weimariano in continuità con l’ideologia delle città-giardino inglesi – e con qualche similitudine, però, non architettonica, con analoghi esperimenti romani, dalla Garbatella alla Città Giardino di Monte Sacro. Non ci soffermiamo sul valore artistico, ben noto, dell’operazione, se non per constatare il perfetto stato di conservazione e restauro delle strutture originali. Non c’è uno scarto qualitativo fra il neoclassico schinkeliano di Unter den Linden e il modernismo singolarizzato di Britz. L’originaria destinazione operaia della Siedlung fu ben presto alterata in senso più “popolare” per la prevalenza di funzionari sindacali, tecnici, intellettuali – una roccaforte “rossa” e relativamente agiata, che nel 1933 fece gola ai nazisti, che sostituirono gli inquilini comunisti e di origine ebraica con i loro quadri intermedi, Adolf Eichmann uno fra tutti. Dal dopoguerra ha riacquisito abitanti più simili agli originari.

 

 

Come so tutto questo? (qui comincia la storia). Non dalla benemerita Wiki, ma sta scritto sui pannelli di un grande cilindro che sta all’ingresso dell’insediamento, prima della scalinata che scende allo stagno. Un’iniziativa documentaria dei condomini, che conclude vistosamente proclamando il luogo antifascista e anti-razzista. Altri cartelli dello stesso tenore girano sui lati bianco e blu del complesso, per i distratti. Il pensiero corre con tristezza a certa periferia romana. Berlino, Europa, 2019.

A meno di non voler attribuire un valore magico ai luoghi e agli autori, ci viene in mente che una dotazione edilizia compiuta e l’aggiuntiva (se non ossimorica) coscienza di appartenenza inclusiva, di “comunità di coloro che non vogliono fare comunità” dipendano da fattori materiali e politici ben concreti: una remota pianificazione, conservata con un’accurata manutenzione e l’estrusione di corpi estranei (non le torri della periferia romana, con  gli ascensori e le tubature rotte o l’intrusione di edifici di scarsa qualità in tessuti compatti semi-periferici), un sistema di collegamenti urbani all’altezza, un lavoro sulla memoria del nazismo e del luogo e un attivismo democratico sollecitato dall’ascesa nel resto della Germania di AfD. I pogrom vanno stroncati all’inizio – si legge sui muri di Kreuzberg, un altro quartiere alternativo ed etnico oggetto di insistente gentrificazione.

I due esempi romani citati, quartieri all’epoca marginali e di diverso stampo architettonico, condividono però con Britz una dignità abitativa e una certa continuità politica (dalle origini alla Resistenza e a oggi) in netta opposizione al disordine e al disagio delle tipiche periferie romane frutto di sprawl disordinato dettato dalla speculazione e della complicità comunale (la troppo vantata stagione veltroniana). La “periferia” (con tutta la retorica annessa) è una costruzione politica, valida prevalentemente nel caso romano, che viene enfatizzata per nascondere il boomerang della strategia edilizia del Pd, almeno dopo il grande risanamento di Petroselli e il fallimento dello SDO, e più in generale una perdita di contatto con quel mondo che si intendeva governare con interventi riformistici, ben presto abbandonati per la collusione con la rendita fondiaria e l’affarismo dei “palazzinari” prima, degli “sviluppatori” alla Parnasi poi.

La retorica centro-periferia, separata da qualsiasi progettualità urbanistica concreta, è una risposta alla retorica populista alto-basso: una risposta, per di più, poco efficace e non priva di venature paternalistiche al limite del razzismo. Si agita Bastogi per occultare Torre Maura, cioè per non fare i conti con una composizione di classe più complessa che richiederebbe una vera strategia, non un ravvedimento natalizio alla Scrooge o un melenso recupero della “rottura sentimentale con il proprio popolo” o, peggio, con “gli ultimi”.

Gli errori politici e urbanistici si possono recuperare con iniziative alternative, dove la dimensione spaziale è rilevante solo come luogo di applicazione e non come metafisica di una riscossa improbabile. Le stesse occupazioni, abitative e non, si distribuiscono ormai fra centro storico, semi-periferia e periferie seguendo i percorsi tortuosi degli insediamenti migranti, del recupero edilizio, della gentrificazione e degli usi ludici, ludopatici e culturali. Il vero margine di esclusione (il divieto di accesso perfino alle periferie) resta per rom e sinti, cui allo stesso tempo viene negata, con mezzi legali e illegali, sia la concessione di un alloggio nelle residue case popolari che la permanenza negli orrendi campi nomadi.

La perdita del centro e del senso della città crea una mappa molto più articolata in cui anche Roma, su scala minore, comincia a essere caotica città globale, cioè Calcutta o Rio, che richiede un’altra tipologia di conflitto. Che sia appunto un conflitto, in cui narrare proposte, vittorie e sconfitte, produzione di cultura e socialità, senza attardarci in vittimismo e deprecazione. Gli effetti di “provincializzazione” di un modello urbano storico non sono stati abbastanza indagati, figuriamoci le soluzioni. Non si conta più il mondo in miglia dal Campidoglio.