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Performare il fuori-scena: un video-live sul desiderio

Come spostare la barriera fra eros e pornografia, disturbando l’immedesimazione dello spettatore e la fissazione del desiderio nei tag d’ordinanza: intervista di Elisa Cuter a una delle autrici di Camera Oscura, lo spettacolo che ha aperto Torino LGBTQI Visions 2018

Buio in sala, tutti seduti davanti a uno schermo. Ma non siamo al cinema: davanti al pubblico, dietro allo schermo che separa, deformando e dissolvendo l’immagine, c’è una performance, Camera Oscura/Dark Room di e con Titta Cosetta Raccagni e Barbara Stimoli. Nella prima parte compaiono dettagli dei corpi, nudi, in pose “oscene”. Poi, tra stacchi sul nero e bagliori momentanei, intuiamo i due corpi che progressivamente si avvicinano e si mostrano in un amplesso. In occasione del Lovers Film Festival – Torino LGBTQI Visions 2018, inaugurato dalla performance, abbiamo incontrato Titta Cosetta Raccagni per parlare di questa ricerca sul linguaggio dell’erotismo e della pornografia, sul potenziale e sui limiti di entrambe le forme.

 

EC: Non è sicuramente un caso se avete scelto questa performance in occasione di un festival cinematografico, trattandosi di un lavoro che riflette esplicitamente sul visivo, su quello che si mette in “campo” e quello che resta fuori. Tu stessa vieni da un percorso come videomaker e filmmaker, in una ricerca che metteva già in scena la tua esperienza e la tua storia – penso soprattutto a Diario Blu(e)(2016). Cosa cambia nel diventare performer, nell’essere fisicamente presente sulla scena?

TCR: Da alcuni anni mi sto approcciando alla performance, creando una commistione di discipline, di linguaggi. L’esigenza della presenza fisica era legata alla ricerca sui temi dell’eros, della pornografia, della sessualità, cioè su cosa voglia dire mettere in mostra dei corpi e su cosa implichi per il pubblico il fruire di un lavoro erotico/pornografico. Avevo bisogno di essere anche in scena e di partire dalla messa in mostra di me per percepire questa prossimità con il pubblico. Quello che interessa a me e Barbara è proprio il confronto costante con il pubblico perché ogni contesto in cui lo presentiamo è diversoe ogni reazione del pubblico, davanti a un lavoro che varca il confine dell’eros, è diversa. Questo è sicuramente uno, se non degli obiettivi, degli interessi nel portare avanti questo lavoro. Aprire non solo una discussione ma anche degli immaginari, degli scenari che non chiudano, non determinino un contesto o delle identità ma piuttosto neaprano di diversi e di nuovi. Mi piace parlare di questo lavoro come se fosse un “video live”, che comunque è molto diverso dall’assistere a una proiezione bidimensionale sullo schermo, nonostante ci sia uno schermo che divide il pubblico da noi due performer, perché come spettatore senti la presenza di due corpi e hai a che fare con una fruizione insieme ad altre persone di qualcosa che riguarda la sessualità, di due corpi che stanno performando l’Osceno –ed è una circostanza rara in un momento in cui la pornografia si fruisce in modo privato, dietro lo schermo del pc.

 

EC: A proposito dell’importanza del rapporto con il pubblico, avete raccolto reazioni non solo emotivamente o esteticamente ma anche eroticamente coinvolte? E se sì, come accogli questo tipo di ricezione?

TCR: Le reazioni come dicevo variano. C’è chi ti dice che l’ha trovata un’esperienza rilassante, una sensazione di calore che li porta in una specie di estraneazione meditativa, e chi invece ti dice che si è eccitato molto. Niente esclude qualcos’altro:quello su cui mi piace lavorare è la suggestione, offrire qualcosa in cui ognuno possa metterci del proprio, senza presunzioni, anzi il contrario. Diversamente dalla pornografia mainstream o da quella che si fruisce gratis online principalmente,che è costruita secondo una serie di categorizzazioni. Se il tuo gusto si caratterizza attorno a tre tag che poniamo sono latin, bdsm e anal, vai subito in cerca di quella cosa. Il nostro discorso è quello di provare a togliere questa preordinata categorizzazione lasciando… sì, una vera libertà, che è quello che in fondo forse nel fenomeno della pornografia online manca. L’esplosione della pornografia è inarrestabile e globale e lo dico senza giudizi –ci sono miliardi di video, di rappresentazioni, perciò non è una questione di giudizio né di morale ma di su che cosa si vuole lavorare. Da una parte questa esplosione lascia un’incredibile libertà, sia di vedersi riconosciuto nei propri desideri che di esprimersi –perché c’è anche volendo un corpo autopornografico: ognuno può riprendere se stesso uploadare il proprio video e far parte della community di pornhub o simili – dico pornhub perché è quello che ha praticamente il monopolio. D’altro canto in questa libertà c’è comunque un limite, perché vieni continuamente categorizzato in maniera molto precisa in categorie che sono già un giudizio (pensiamo alle categorie “razziali” come white, black, asian, ebony). Ti viene offerto uno schema prefissato di quello che ti piace e poi magari non sai nemmeno che ti piace qualcos’altro… E il problema non è solo questa gabbia identitaria, c’è anche l’egemonia di un immaginario da cui non si riesce molto a fuggire o a deviare.

 

 

EC: Ma questa performance nasce all’interno del vostro progetto più vasto che si chiama Pornopoetica, però, e che già dal nome sembra voler lo stesso provare a dialogare con questo immaginario…

TCR: Esatto. Non saprei se definire Camera Oscura un lavoro erotico o pornografico e non mi interessa neanche, anzi forse il mio interesse è proprio quello di spostare la barriera, l’etichetta tra che cos’è eros e che cos’è pornografia. È un lavoro che inizia con lo scorporare i corpi, che parte proprio dal linguaggio pornografico che è quello della frammentazione dei corpi, dell’iper-dettaglio, per continuare invece in una fluidità dei corpi stessi. Non si riconosce mai chi è chi, chi sta facendo cosa, cosa fanno i corpi, perché c’è questo schermo che divide il pubblico e noi l’abbiamo scelto appositamente come uno schermo opaco che lascia costantemente un fuori fuoco, perciò nessuno spettatore riesce mai a mettere pienamente a fuoco cosa stia avvenendo e questo è proprio il tipo di ricerca che vogliamo fare. Lasciare una distanza tra noi e il pubblico, ma una distanza che permetta al pubblico stesso di poter intervenire con la propria immaginazione, emotività, il proprio immaginario, e quindi è esattamente un lavoro che va in direzione diametralmente opposta rispetto a quello che la pornografia solitamente fa cioè quello di lavorare sull’immedesimazione. Di solito si scelgono i porno in cui ci si immedesima. In questo caso invece la scelta è proprio quella di lasciare una distanza in cui non ci sia possibilità di immedesimazione ma piuttosto quella di spaziare, di farsi un proprio percorso che possa attingere a un immaginario che parta dal proprio inconscio, dalla propria fantasia, che parta da quello che in quel momento si percepisce e si vede. Ci interessa quello che succede quando l’occhio non mette mai veramente a fuoco l’immagine, un occhio abituato a un’ipervisibilità dell’immagine, che nella pornografia ha il suo apice, e in quella della pornografia in hd il suo apice massimo, per ora. In un discorso in cui il dettaglio diventa il focus principale di quel linguaggio, qui si attua un’operazione opposta, e quindi la fatica nel mettere a fuoco è quella di continuare a dover dare una risposta, e questo è quello che ci interessa.

 

EC: Viceversa mi sembra che in altri lavori che nascano da Pornopoetica, come Pleasure Rocks ci sia un forte elemento feticistico, mi sbaglio?

TCR: Tutti i lavori partono da una performance (Pornopoetica) che è stata poi scorporata in altre cose, Pleasure Rocks è un discorso sui piaceri non convenzionali, che trascendono o addirittura esulano dal corpo e che puoi trovare in un elemento cyborg o in un elemento naturale. Pleasure Rocks è nato in una residenza d’artisti a Lamezia Terme in Calabria e decisamente non eravamo partite da Milano con quell’idea. Volevamo fare una cosa sul BDSM, anche perché Barbara viene un po’ da quel mondo, e poi invece si è trasformato completamente, eravamo lì con frustini che non c’entravano niente con la circostanza e l’ambiente, ci siamo accorte che non funzionava…abbiamo fatto una passeggiata in spiaggia e c’erano queste rocce e tutto è nato così, a livello esperienziale. Accarezzandone la lucentezza, sentendo il sapore di sale… Ci è sembrato un modo di uscire da quella codificazione che incontrano oggi certi ambienti. I codici a cui devi attenerti per entrare in circoli BDSM ad esempio sono davvero limitanti, dal dress-code alla procedura standard con cui ci si dovrebbe frustare. È la morte dell’immaginazione, della fantasia. Una chiusura in codici e stilemi che sono l’altra faccia della glamourizzazione e democratizzazione che hanno incontrato certe pratiche. La popolarizzazione totale di queste cose paradossalmente invece di aprire alla creatività individuale fa sì che siano le persone che vi si accostano a dover aderire a una serie di preconcetti.

 

EC: Mi viene in mente Carmelo Bene che parlava di erotismo come desiderio di un soggetto che si esprime verso un oggetto e di come questa dinamica riguardi in forme più o meno romantiche comunque sempre l’identità, mentre la pornografia, grazie proprio a questa parcellizzazione del corpo (un tanto al kilo, pura carne come voleva il femminismo poniamo di Andrea Dworkin) ha a che fare invece con l’osceno, l’irrappresentabile, che è la perdita dell’identità: il riconoscere e l’erotizzare (rieccoci) proprio questa scandalosa materialità del corpo. Vorrei insistere allora ancora un attimo sulla dialettica interna alla pornografia, se permetti, più che sul suo confronto con l’erotismo. Cioè tu trovi che ci sia nel porno, in questa messa in luce totale, nella visibilità assoluta, un potenziale emancipativo, una qualche possibilità di scardinare un discorso dominante dell’adesione sociale a un ruolo che ci viene imposto e che determina poi l’egemonia? C’è dell’altro nella stessa pornografia, piuttosto che “oltre” la pornografia?

TCR: Tutto il lavoro di Pornopoeticaè un tentativo di riscrivere la pornografia o il confine tra eros e pornografia in cui ci sono definizioni date ma in cui i confini sono labili e spostabili, non vuole dare delle tesi o delle sicurezze altrove, è una ricerca assolutamente aperta, in continua evoluzione, su ciò che è il linguaggio dell’immagine pornografica. Non a caso nasce anche dalla domanda che ci eravamo poste con il progetto Le Ragazze del Porno, nato nel 2011, che era un tentativo di fare un film collettivo scritto e diretto da registe e sceneggiatrici donne. Già da allora tutto lo scenario della pornografia è cambiato, nel 2011 era politicamente molto rilevante per noi dire che volevamo riappropriarci della pornografia. Ci sembrava che il corpo delle donne venisse ancora letto e strumentalizzato solo come oggetto, o come corpo violato. La narrazione, che poi non è lontana da quella egemone oggi nei media, sembrava aver totalmente dimenticato quanto un corpo abbia altrettanto bisogno del piacere e dell’affermazione di sé come soggetto. Ribaltare la prospettiva e partire da noi, da quello che i corpi femminili desiderano –per quanto anche qui il rischio del binarismo è forte e personalmente fatico a vedere maschile e femminile come contrapposti. Nel 2011 aveva un senso dire che la pornografia è stata una prerogativa maschile e che noi avevamo voglia di dire che anche a noi il porno piace, ci piace l’idea di scrivere e dirigere dei lavori pornografici. Era una novità, aveva una portata politica. Oggi nei portali c’è la categoria “female choice”: quel discorso è già stato assolutamente sussunto, non ha neanche già più senso parlare di questa cosa qua. Pornopoetica cerca di insinuarsi in un limbo, in un vuoto, in un interstizio. Anche a livello giornalistico, saggistico la domanda che rimbomba è: cos’è l’eros, cos’è il porno, siamo in una società pornificata? È un allarmismo giustificato? Non lo so, è qualcosa con cui si può provare a fare i conti. Sì, siamo in una società che sessualizza ogni aspetto, quindi questo cosa vuol dire? Pornopoetica si chiede questo e prova a trovare un proprio sguardo, senza tesi, come ricerca e come apertura.

 

 

EC: Mi sembra interessante il discorso che fai sul ribaltamento della prospettiva e la riappropriazione perché in tanti lavori usciti dall’esperimento Le Ragazze del Porno come nei tuoi c’è un punto di vista femminile in cui l’oggetto erotizzato resta la donna stessa, come nel mainstream si potrebbe dire. Mi sembra che anche questo possa essere letto in modi opposti. Da un lato c’è la questione del chiedersi quanto questo sguardo che si potrebbe malignamente definire “auto-oggettificante” (o narcisista) sia da un lato l’ineludibile conseguenza del fatto che il nostro desiderio si è formato all’interno di un contesto patriarcale, dall’altro è anche perfettamente conforme con il “self-management” che sembra l’unica via possibile al femminismo dell’ultima ondata, e che viene rivendicato da tante performer porno che si mettono in proprio. Dall’altro c’è invece proprio un discorso omoerotico che ricorda il femminismo storico, in cui le donne scoprivano il piacere del proprio corpo in una dimensione collettiva di rispecchiamento e accudimento reciproco insieme ad altre donne. Lo scambio fra donne come momento di accettazione di sé e di erotizzazione reciproca. Pensi che esperimenti come quello de Le Ragazze del Porno abbiano questa componente? E, se sì, qual è il valore e il senso di creare uno spazio “separato” in questo senso, nonostante i limiti riguardo al binarismo di genere a cui accennavi?

TCR: Credo che sia molto diverso scegliere di essere soggetto consapevole del proprio atto (anche) narcisistico ed esibizionista. C’è anche questo aspetto, certo, perchéno? Il mio scegliere di mettermi in scena ha a che fare anche con questo. Ma come scelta consapevole, politica, che combatte proprio il sistema (farmaco) pornografico e che mette in discussione il fatto che i corpi autopornografici e inconsapevoli del meccanismo, diventano appendici delle tecnologie e del tecnopotere. Mi rifaccio a Paul B. Preciado:la sua analisi del sistema che lui chiama farmacopornografico è una delle più innovative dell’ultimo decennio.

Per quanto riguarda l’esperienza delle Ragazze del Porno posso dire che è stato un incontro tra persone adulte e con un certo tipo di background culturale e politico, di spessore, di alta consapevolezza. Non siamo state un gruppo in cui specchiarsi, non siamo state un collettivo e ognuna ha mantenuto le proprie diversità: avevamo un progetto cinematografico preciso, che purtroppo non abbiamo portato a termine per problemi produttivi e distributivi. In Italia era una battaglia difficile: un progetto simile, anzi il progetto che ci ha ispirate, Dirty Diaries, in Svezia ha ottenuto i finanziamenti del Ministero. Capisci? Quic’è stata tanta attenzione mediatica, da tipico atteggiamento italiano curioso morboso, ma poi al dunque i problemi produttivi rimanevano. In ogni caso è stato un passaggio importante e un atto di coraggio. Ricordo ancora sulla pelle i giudizi morali, soprattutto di una certa sinistra, purtroppo cieca e poco lungimirante, che ha lasciato anche l’argomento sessualità in mano ad altri, contribuendo all’esplosione di immaginari biechi e ignoranti. Quindi gli spazi separati servono sempre, per capire e analizzare, per provare a trovare nuove parole e appunto, nuovi sguardi. Al di là del genere o dell’orientamento. Ognuna di noi, del gruppo RDP che ha deciso di sciogliersi, sta portando comunque avanti la propria battaglia sulla sessualità e pornografia, con tutte le differenze di sguardo e approccio, e che forse, proprio per questo, è ancora più interessante.