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Decostruire la decostruzione. “Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter

Nell’ideologia contemporanea trova sempre più spazio una retorica vittimistica debole, che fa da premessa a un vasto tentativo di sfruttamento politico e di cooptazione capitalistica di un generale senso di impotenza. L’unico modo per reagire e rompere questa immedesimazione narcisistica con se stessi è attivare la dimensione negativa e di rottura del desiderio

«La Donna non esiste».

Con questa fulminante asserzione, Alenka Zupančič descrive nel suo Che cosa è il sesso? la scoperta psicoanalitica per cui “una buona metà” della popolazione umana è stata fino a ora concepita solo come antitesi, è stata cioè costruita in negativo. Il genere femminile, per come lo conosciamo, non sarebbe altro che un non-maschile, poiché appunto soltanto al maschile e agli uomini è stato concesso il privilegio di costruirsi come genere neutro e universale e da lì far da “cardine” per il resto delle sessualizzazioni. La donna dunque, o meglio ancora la femminilità, altro non è che (per dirla con Joan Riviere) un travestimento, una fantasmagoria.

Non è allora forse un caso che a scrivere Ripartire dal desiderio (Minimum Fax, 2020) sia una critica cinematografica, qualcuno che si è da sempre occupato di immagini e finzioni, della realtà come maschera. Elisa Cuter, alla sua prima prova saggistica di ampio respiro, è infatti dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg (Germania) e da anni intreccia le proprie riflessioni estetiche con analisi e discorsi di genere. Il suo approccio alle questioni femministe non è dunque quello dell’accademica o della teorica né della militante (benché nella sua scrittura convivano anche questi due aspetti), ma di una persona innanzitutto attenta agli effetti di rifrazione, agli inganni dello sguardo.

Coerentemente, ciò che muove la sua esplorazione è proprio voler ripercorrere le diverse linee di frattura che interrompono le visioni e da cui diparte una pluralità di punti di vista difficilmente ricomponibili.

 

Ripartire dal desiderio è un libro totalmente immerso nel presente, a suo modo “interventista”. Il discorso pare come “aggirarsi” in mezzo a tutta una serie di posture e atteggiamenti contemporanei, che riguardano il femminismo, le questioni di classe e l’inconscio politico del nostro tempo

 

«Lo scopo di questo libro non è quello di essere un manuale per l’attivismo» – viene detto nell’introduzione – bensì quello di «capire come certe narrazioni parziali abbiano in realtà solo rimosso le altre e così facendo riproducano quelle stesse impasse e quelle false dicotomie che ci hanno portato a questo punto».

C’è infatti non una tesi, ma una convinzione di fondo che sembra far da molla al ragionamento. Cuter è, almeno in una certa misura, “pessimista” nei confronti di tante posizioni odierne: quello che le interessa smascherare è come varie correnti e tendenze che si sviluppano in seno al femminismo – da alcuni modi di intendere la body positivity all’orientamento smaccatamente liberal di Freeda, dai risvolti più eccessivamente vittimistici dell’ondata del MeToo fino all’essenzialismo estremo e trans-escludente delle attitudini “Terf” – costituiscano in ultima analisi un cedimento alle logiche del marketing e dell’autopromozione, un cedimento cioè alle dinamiche più propriamente capitalistiche che cercano di ridurre ogni questione collettiva a problema individuale. Perché alcuni blog che si occupano di diritti femminili sembrano assomigliare così tanto a dei manuali di auto-aiuto? Come mai certe lotte per l’uguaglianza paiono essere finite nel vicolo cieco del carrierismo a tutti i costi, sebbene non più di stampo esclusivamente maschile?

La risposta è molto semplice, perlomeno a livello preliminare: perché è stata accantonata la dimensione del desiderio. O meglio, si è smesso di pensare al desiderio come luogo di un conflitto possibile e, dunque, come punto di potenziale convergenza di lotte e tensioni diverse. Una sorta di rimozione di massa, che corre in parallelo a – per come lo definisce Cuter stessa, seguendo in qualche modo il collettivo francese Tiqqun di Elementi per una teoria della Jeune-Fille – un processo di femminilizzazione costante delle società e degli individui che le compongono. Non, evidentemente e come sarebbe invece auspicabile, nel senso di un accesso generalizzato di individui di genere femminile negli assetti di potere e nemmeno di un divenire-donna delle istituzioni e delle architetture comunitarie ma, al contrario, nel senso di un’applicazione a un sempre crescente numero di piani dell’esistenza di quei caratteri che il potere maschile ha definito come femminili per estendere il proprio dominio.

 

E dunque, nella tanto incalzante quanto impietosa disamina contenuta in Ripartire dal desiderio, assistiamo alla critica di quelle soggettività che si autocostituiscono e si percepiscono sempre più come vittime, dell’attitudine generalizzata per il sacrificio individuale, dell’avanzata di un’idea sempre più edulcorata dei rapporti, delle relazioni sociali, del sesso, ecc.

 

In una parola, assistiamo a una radicale messa in discussione dell’impotenza. Nell’introduzione al libro, Cuter è molto netta in questo senso: nella fase storica che stiamo attraversando imperversa, secondo l’autrice, «una retorica vittimista, che cerca di politicizzare proprio questo senso di impotenza percepita, che viene abbracciata indifferentemente da donne (si pensi al #metoo) e da uomini (spaventati, minacciati, rancorosi, gelosi, si pensi al femminicidio e agli incel). Gli esiti sono opposti, conformemente alla divisione tra generi che perdura, e che porta gli uomini a estroflettere la loro sofferenza in violenza. Ma la percezione di impotenza di base è la stessa. E l’effetto finale è quello di una guerra tra poveri, per quanto banale o provocatoria questa conclusione possa sembrare, e con tutte le ovvie distinzioni in termini di responsabilità». Un effetto che, sempre secondo l’autrice, sta anche, se non all’origine, quantomeno intrecciato nella spirale di crescita dei populismi e degli autoritarismi degli ultimi anni. Fatti i dovuti distinguo, figure come Donald Trump, Orbán o magari Erdoğan godono di un vasto consenso popolare anche perché sono figure che esorcizzano la nostra percezione di impotenza.

Si tratta già di una prima provocazione, sebbene indiretta, che potrebbe riguardare le “politiche di movimento”. Ben consci delle differenze che intercorrono fra potenza e potere, fra attuale e virtuale, fra antagonismi di classe e contropoteri costituenti, Ripartire dal desiderio ci impone però di ripensare il rapporto fra la nostra facoltà di agire – in qualità di individui, ma soprattutto come collettivi, gruppi, “sciami” digitali o meno – e il luogo da cui è possibile esercitarla. Il luogo, cioè, del sovrano, del potere inteso nel suo senso più semplice e più prossimo a un’idea tradizionale (e istituzionalistica) della politica. Detto altrimenti: negli ultimi tempi è come se il rifiuto sia strategico che sostanziale da parte dei movimenti di uno “scontro frontale” e di un’occupazione (più o meno simbolica) di veri e propri centri decisionali si stia tramutando in difficoltà a incidere sul presente, se non in nicchie sempre più ristrette. Si è giustamente iniziato a pensare a ogni esercizio del potere come a una usurpazione e si è dunque passati non già alla sua conquista ma alla decostruzione del potere stesso, scontando però la deriva di una sempre maggiore introflessione, di un solipsismo dell’azione che rispecchia l’identitarismo delle coscienze.

Sono dubbi esplicitati da più parti, e che hanno anche a che fare con il passaggio – mai veramente digerito fino in fondo – dalla modernità alla postmodernità, dalla politica di forza novecentesca a nuove e variegate pratiche di dissenso, dalla rivoluzione (con la “r” maiuscola?) alle ribellioni o tumulti. Così affermava lo studioso di letterature Daniele Giglioli nel suo Critica della vittima (Nottetempo, 2014, opera peraltro citata dalla stessa Cuter):

 

«La rivoluzione è l’altro nome della modernità: soggetto, responsabilità, capacità di fare scelte anche tragiche, gli altri pensati non solo come minaccia o limite ma anche come moltiplicatore di potenza, creatività, immaginazione, godimento. E se la parola postmoderno ha un senso è nell’inversione speculare di quei termini: identità, passività, deresponsabilizzazione, gli altri come rivali, concorrenti, motivo di risentimento. Da una parte l’idea di felicità come qualcosa di costitutivamente pubblico, comune, non divisibile ma condivisibile: dall’altra la felicità privata dello scampato pericolo, della fetta più grande, dell’invidia rigettata sugli altri. Da una parte la critica, dall’altra il consenso».

 

Non si tratta, evidentemente, di rifiutare in toto i cambiamenti intercorsi negli ultimi decenni, né di esautorare la critica alle concezioni più “verticali” e dirigiste della politica in vista di una loro decolonizzazione. Si tratta però di tenere presente come sotto tante “maschere” contemporanee – vittima, identità, modernità liquida, decostruzione, privilegio – spesso risieda nient’altro che la cara e vecchia volontà di potenza e di dominio. Ambire a essere riconosciuti come vittime o a essere considerati senza-potere è anche un modo in realtà per acquisire potere, un potere che può anche diventare autocratico e intoccabile (la storia dello stato israeliano è in questo senso emblematica, rammenta Giglioli).

Cosa c’entra dunque il desiderio? C’entra nella misura in cui rappresenta forse il vero e proprio “punto di disintermediazione” del presente, il concetto da cui poi divergono le varie posizioni e le diverse attitudini. Si scontrano, cioè, due differenti concezioni: l’una che pone l’accento sui condizionamenti con cui storia, costumi, società e morali tendono a circoscrivere il desiderio e a normarlo; l’altra che prova invece a guardare al modo in cui sia al contrario il desiderio a costruire e plasmare storia, costumi, società e morali, o perlomeno a custodirne le potenzialità di trasformazione. Insomma, da una parte, il desiderio come “antro recondito” del sé, nucleo in qualche modo più originario e spontaneo dell’individuo e delle soggettività collettive da sempre asserragliato da poteri e influenze esterne; dall’altra, il desiderio come frattura, clinamen originario, dalla cui piega nasce la tensione verso l’altro, la socialità, in fin dei conti la realtà tutta.

E, d’altronde, è possibile pensarla altrimenti? Il libro di Cuter vuole appunto denunciare il carattere illusorio delle concezioni del primo tipo, per cui il desiderio rappresenterebbe insomma qualcosa di “puro” e “naturale”, al quale vanno semplicemente levate delle “incrostazioni” esterne (da una prospettiva femminista: che al di sotto dei condizionamenti sociali e patriarcale, esista davvero una femminilità più pura e, in qualche modo, più vera, più giusta).

 

Al contrario, lungi dal costituire la nostra identità più profonda e la nostra voce più sincera, il desiderio è proprio ciò che rompe l’immedesimazione con se stessi, produce una crepa nell’io e impone una de-soggettivazione traumatica che implica una perdita, una trasformazione dolorosa. Rimuovere (o rifiutare) una tale dinamica significa allora condannarsi all’impotenza, a ripeter-si senza realmente cambiare, a mettere in campo politiche che non contemplano la dimensione dell’alterità e non siano dunque per davvero agenti, poetiche.

 

Perché, dunque, assistiamo all’esplodere di questo tipo di attitudini? Da una parte perché, come abbiamo detto e forse con un tocco di paternalismo, il perdurare in uno stato di debolezza “scelta” è anche un modo per non mettersi in discussione, per godere di determinati privilegi. Dall’altra, in maniera molto più cogente, per via degli ultimi sviluppi sociali del neoliberismo o del tardo capitalismo che hanno sempre più cercato di riportare la responsabilità di ogni problema o questione critica alla dimensione dell’individuo, non più di risolverli a livello comunitario (e qui il riferimento esplicito è a Dardot e Laval). Ecco allora che – per tornare alle questioni iniziali – tanti discorsi e tante lotte in favore di maggiori diritti finiscono per l’apparire come semplici esercizi di auto-aiuto o consigli per far carriera, perché schiacciati su un piano illusorio, dove esisterebbero per le problematiche di genere soluzioni a portata dei singoli che non mettano in discussione l’intera società. In altre parole, i percorsi di empowerment di stampo più o meno liberale, che tanto si fanno strada fino ad approdare al “mainstream”, non sono che l’altra faccia di un’impotenza diffusa e generalizzata, percepita a livello psicologico ma anche più propriamente politico.

Per dirla con un bisticcio linguistico, l’intento polemico di Cuter sembra dunque essere quello di decostruire la decostruzione. O meglio: decostruire il potere automaticamente salvifico che si suole attribuire alla decostruzione.

 

L’autrice di Ripartire dal desiderio, in maniera estemporanea e – come già si diceva – restando profondamente immersa nel presente, di fatto si aggancia a una sorta di “tradizione del sospetto”, a una lunga serie di pensatori e pensatrici che in varie epoche storiche hanno cercato con ogni sforzo di mantenere viva la “fiducia nel negativo”, di alimentare cioè il dubbio che la molla dell’essere umano ad agire politicamente risieda oltre l’essere umano stesso, in un al di là della psiche e della coscienza.

 

«La vita è davvero possibile solo nell’errore», per usare un’affascinante formula leopardiana… Dal clinamen lucreziano, evocato in precedenza, alla dialettica negativa di Adorno, dalla lettura a ritroso della storia da parte di Benjamin all’antimodernismo critico di autori come Illich o Lasch, in molti – con accenti anche radicalmente differenti e differenti traiettorie di speculazione – hanno messo in luce contro il pensare corrente la natura paradossale del desiderio: qualcosa che trascende sempre comunità e individui e che non può mai essere ricondotto ai parametri della piena soddisfazione ma che anzi genera in continuazione mancanza, scontento.

In questo senso, Ripartire dal desiderio rappresenta una lettura in qualche modo rassicurante per uno sguardo maschile (ed eterosessuale). Non ci sono, infatti, particolari accuse verso il modo dell’uomo di relazionarsi e autoaffermarsi ma, anzi, sono spesso le consuete accuse verso quest’ultimo a ritrovarsi sottoposte a un rigoroso scrutinio. Certo non per difendere lo status quo, bensì per rendere la messa in discussione del modello patriarcale ancor più caustica e tagliente. E, in conclusione, è proprio in tale “effetto di rimbalzo” che risiede forse il maggior potenziale critico dell’opera: nel momento in cui si denuncia l’inesistenza di una concezione di femminilità più pura e originaria, ecco che di rimando anche la stessa idea di “uomo” – sulla quale sono in fondo strutturati questi miti – inizia a trascolorare. Nel momento in cui i contorni dell’immagine si fanno sfumati, a entrare in crisi è al contempo il sistema che proietta questa immagine, nutrendosene e producendone anche versioni più edulcorate, simulacri, «specchietti per allodole e soluzionisti liberal».

Invece, ci dice Elisa Cuter, non bisogna credere alle fantasmagorie. Occorre rifiutare l’idea che esistano immagini più vere o fedeli di altre, sapendo “saltare” da modello a modello senza confondersi con alcun archetipo. Rivolgendo lo sguardo in avanti, più che nel profondo. Sforzandosi di concepire il sé non già come identità ma come progetto, come incessante divenire del desiderio. Nessun “eden mitico” a cui far ritorno, insomma, ma tutto un mondo da guadagnare.

 

In copertina un’immagine da “La gaia scienza” di Jean-Luc Godard