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L’ordinamento giuridico di Santi Romano

Il concetto di istituzione appartiene senza riserve all’ontologia giuridica, non all’ontologia politica, e le espressioni ordinamento giuridico e istituzione vengono a indicare il medesimo fenomeno: «ogni ordinamento giuridico è un’istituzione, e viceversa ogni istituzione è un ordinamento giuridico: l’equazione fra i due concetti è necessaria ed assoluta»

In cosa consiste l’attualità di un’opera? Di certo, non può dipendere dal ripresentarsi del suo contesto storico-politico. Non sono le vicende che la circondano a esaurirne il potenziale: se l’attualità si trovasse subordinata alle mere corrispondenze esteriori, al gioco sensazionalistico delle somiglianze e delle differenze, l’opera non farebbe altro che ripetere il già detto, esibendo, in realtà, solo lo stanco bagliore di una stella già morta. Piuttosto, l’attualità di un’opera sembra consistere nell’inesauribilità del suo potenziale che, come la brace che riposa sotto la cenere senza mai spegnersi, insiste all’interno delle vulgate dominanti e delle stratificazioni interpretative per sollecitare il momento in cui potrà finalmente esprimere qualcosa di diverso, lasciando divampare un altro incendio, generando nuova cenere. In tal senso, si avrebbe senz’altro torto se si scorgesse nell’odierna fragilità della democrazia rappresentativa e delle politiche europeiste o, ancora, nel rigurgito dei sovranismi e dei nazionalismi il motivo per cui un editore attento e brillante come Quodlibet ha deciso di volgere lo sguardo verso quel raffinato giurista istituzionalista che porta il nome di Santi Romano, ripubblicando il suo capolavoro a cento anni esatti di distanza dalla prima apparizione (L’ordinamento giuridico, Quodlibet, Macerata 2018, pp. 240).

Il volume, diviso in due parti e arricchito da un puntuale elenco dei riferimenti bibliografici, riproduce la seconda edizione del 1946, uscita per Sansoni, riportandone fedelmente tanto i riferimenti all’impaginazione originale quanto il prezioso apparato di note aggiunte tra parentesi quadre dallo stesso Romano, assente nella prima edizione del 1917-1918.

È proprio in direzione di quell’attualità, che «eccede la trama degli eventi passati e invita a un attraversamento» (p. 189), che si muove la post-fazione del curatore Mariano Croce, evidenziando come la riflessione impressa nelle pagine de L’ordinamento giuridico sia contraddistinta dalla capacità di scivolare, non senza contraddizioni, tra i corni delle dicotomie e delle antitesi più aspre della scienza giuridica moderna. Una simile inclinazione emerge già dai primi paragrafi del testo, a partire dall’esigenza di pervenire a una «vera, completa definizione del diritto in generale» (p. 25) capace di oltrepassare (o forse, meglio, di evitare) i particolarismi e gli specialismi delle discipline giuridiche senza, per questo, costituirsi di elementi neutrali, «indifferenti e indifferenziati» (p. 23). Pur rivendicando una prospettiva tutta interna alla descrizione giuridica del mondo, fedele alla sua grammatica e immune alle lusinghe della filosofia e della sociologia, Romano si cimenta in quella che Croce chiama un’autologia del campo giuridico, in un discorso che produce il campo che vorrebbe descrivere, svincolandosi, sin da subito, dalle pretese unilaterali del diritto pubblico e del diritto privato, del diritto internazionale e del diritto costituzionale, finanche del normativismo e del decisionismo. Ciò non significa che vengano semplicemente ignorate – il corpo a corpo è continuo ed esplicito in diverse pagine del libro – ma nessuna di esse, presa singolarmente, può costituire il punto di partenza privilegiato per una chiarificazione del concetto di diritto.

Gli elementi su cui si sofferma Romano nella sua definizione del diritto sono tre: la società, presa nella sua unitarietà e concretezza; l’ordine, ovvero l’esclusione di ogni pura arbitrarietà o forza materiale; l’organizzazione, intesa come la determinata configurazione strutturale che assume una società ordinata. Il diritto è l’interazione di questi tre elementi. È una dinamica, un processo. Proprio a questa definizione è affidata la responsabilità di condurre il lettore a una delle tesi fondamentali del testo circa la perfetta identità del concetto di ordinamento giuridico con quello di istituzione, ove per istituzione si intenda un’organizzazione sociale chiusa, permanente e dotata di esistenza concreta (si noti, a tal riguardo, l’assenza di ogni riferimento al campo semantico della sovranità). È infatti nel termine organizzazione, ricondotto al suo autentico significato giuridico, che Romano colloca questa relazione d’identità in cui, come osservato da Vittorio Emanuele Orlando, l’ordinamento giuridico e l’istituzione si comportano ognuno come «il genitore e il generato» (p. 49) dell’altro. Pertanto, come già indicato dalla riflessione di Maurice Hariou, il concetto di istituzione appartiene senza riserve all’ontologia giuridica, non all’ontologia politica, e le espressioni ordinamento giuridico e istituzione vengono a indicare il medesimo fenomeno: «ogni ordinamento giuridico è un’istituzione, e viceversa ogni istituzione è un ordinamento giuridico: l’equazione fra i due concetti è necessaria ed assoluta» (p. 38).

Non si devono sottovalutare le implicazioni di una simile affermazione, in particolare per la dottrina dello Stato: se ogni forza sociale, una volta ordinata e organizzata, è già un ordinamento giuridico, allo Stato viene sottratta ogni pretesa monopolistica sul diritto. Osservato attraverso la lente giuridica, lo Stato non gode di alcuna speciale legittimazione trascendente rispetto alle altre istituzioni (e la forsennata sovrapproduzione normativa degli ultimi decenni ne è, forse, solo l’ennesima testimonianza). La tradizione politica della modernità esplode in frammenti di differenti dimensioni e gradi complessità: ne risulta una vera e propria proliferazione istituzionale, una pluralizzazione degli ordinamenti giuridici che si scandisce lungo un processo di decentralizzazione. Il Dio mortale è ridotto a istituzione tra le istituzioni, a ordinamento tra gli ordinamenti. È opportuno sottolineare che la tesi del giurista italiano deve essere accolta in tutta la sua radicalità, fino al paradosso sovversivo per cui il carattere antigiuridico di alcune organizzazioni sociali non sarà mai assoluto, ma sempre e solo relativo al diritto statuale. Si pensi a un’organizzazione terroristica o a un’associazione per delinquere di stampo mafioso: la loro dichiarata antigiuridicità, ovvero il loro effetto disorganizzatore e dissolutore, sarà sempre e solo relativo al diritto dello Stato al quale si oppongono o che trasgrediscono, senza per questo contravvenire alla loro intrinseca condizione di ordinamento giuridico. Seguendo quest’argomentazione, nulla vieta che si possa affermare l’esatto contrario, dichiarando l’antigiuridicità dello Stato e della sua Polizia a partire dal diritto interno di certe organizzazioni. La relazione, qui, si dimostra perfettamente simmetrica. Come scrive Romano: «non è diritto ciò e soltanto ciò che non ha un’organizzazione sociale» (p. 50).

Questo significa che i sindacati, Black Lives Matter, l’Università, la Chiesa, le saune gay di San Francisco, l’ISIS, la Fédération Internationale de Football Association, Cosa Nostra e i Centri Sociali Occupati e Autogestiti, malgrado tutto, per quanto diversi e talvolta in concorrenza o in conflitto tra loro (oltreché con lo Stato), sono degli ordinamenti giuridici e delle istituzioni, con tutte le implicazioni che questo può comportare. D’altronde, contrariamente al lavoro politico che si introduce nelle fratture del tessuto sociale per esasperarle in conflitto e, successivamente, governarle, la tecnica giuridica impiegata da Romano si introduce in quelle stesse fratture per ricomporle e riorganizzarle. Sotto questa luce, assume una connotazione tutt’altro che ingenua il rifiuto di ogni modello organizzativo rivendicato da alcune correnti dell’anarchismo nella loro battaglia contro le istituzioni. Se, dove vi è organizzazione, vi sono anche ordinamento giuridico e istituzione, è chiaro che solo uno spontaneismo individualista, asociale e disorganizzato, potrà provare ad avanzare la pretesa di considerarsi assolutamente antigiuridico.

È lecito domandarsi se lo sforzo compositivo di Romano non si sia tradotto in una contraddizione storico-biografica, con il suo coinvolgimento nella catastrofe del regime fascista tra il 1928 il 1944 – parabola condivisa da un altro grande teorico istituzionalista, quel Widar Cesarini Sforza di cui sempre Quodlibet ha recentemente ripubblicato Il diritto dei privati. Difficile dimenticare che il teorico di un’ontologia giuridica pluralista abbia finito per aderire all’ontologia politica fascista dell’Unicità. Possibile che il paradosso sovversivo si sia limitato a presiedere alla genesi di una simile contraddizione? Il dubbio è legittimo. Al contempo, però, non è possibile ridurre l’intera questione a tale aspetto. A questo proposito, è possibile prendere le recensioni di Roberto Esposito e di Toni Negri ai testi, rispettivamente, di Romano e di Cesarini Sforza attraverso le quali, i due filosofi, proseguono un dialogo condotto all’insegna della comune necessità di ripensare la categoria dell’istituzione (seppur a partire da presupposti teorici molto diversi). Entrambi lasciano interagire gli elementi della loro riflessione con quelli di Romano e Cesarini Sforza, dando luogo a una contaminazione che segue e, allo stesso tempo, traccia una possibile traiettoria di attualizzazione. Così L’ordinamento giuridico riesce a divincolarsi dalla forza contenitiva delle circostanze storiche di appartenenza – le stesse nelle quali, al contrario, il soggetto Santi Romano rimane invischiato e irretito – per divampare «in ogni contesto sociale segnato da nuovi processi di istituzionalizzazione» (p. 204).

In conclusione, è questo il contributo che la riflessione romaniana offre, ancora un secolo dopo, a chiunque non nutra il timore della contaminazione e del paradosso: un sapere organizzativo e decentralizzante che si radica negli strappi del tessuto sociale continuamente riaperti dalla forma-Stato, agendo trasformativamente sulla realtà attraverso un gusto per lo scivolamento che, da un lato, inibisce le opposizioni politiche e concettuali storicamente sedimentate e, dall’altro, alimenta le nuove istanze di ricomposizione.