Non serve un meteorologo per capire da che parte tira il vento.

Sulla “Regola del silenzio” di Roberto Redford

Redford portando sullo schermo lo stesso tema raccontato da Philip Roth in Pastorale Americana: quello di una generazione decisa a “portare la guerra in casa”, parla anche alla sua generazione figlia del cinema dell’impegno ed, oggi, delle produzioni indipendenti.

Albany (New York). All’interno di una cucina, direttamente affacciata sul giardino di una casa unifamiliare, padre e figlia fanno colazione prima che lui l’accompagni a scuola. Il tempo di scambiarsi attenzioni reciproche, guardare il giornale, raccontarsi il mondo.

Lui ( Jim Grant), pieno di attenzioni verso la bambina rimasta senza madre, getta uno sguardo alla pagina del quotidiano che, ancora piegato in due, è posato sul tavolo. E’ certo gratificante sentirsi osservato. “Hai la faccia strana”, dice lei.

Vuol dire che, allora, come padre non sei proprio tanto male, se quella bambina undicenne sa cogliere dall’ispessirsi delle rughe del tuo volto che ti è successo qualcosa che non avresti voluto accadesse.

Il problema adesso sarà riuscire a continuare a parlarle, perché tutto non potrà continuare come è stato fin’ora. Prima ancora che per proteggerla da quello che s’abbatterà su di lei, riuscire a dirle che quel padre un po’ anziano, tanto tempo fa, non ha ucciso un uomo durante una rapina in banca come certo presto si sentirà dire.

Non è stato lui. Anche se, quella morte, c’è stata. Anche se con quella morte lui e i suoi amici di allora c’entrano e ne hanno a che fare.

E’successo oltre quarant’anni fa. Quando la “ sua” generazione in tutto il mondo urlava il proprio no al genocidio del popolo vietnamita.

Quando, nel suo paese, erano proprio loro, i giovani, a ribellarsi alla leva obbligatoria. Quando in migliaia invasero Chicago ( 1968) per chiedere che il partito democratico scegliesse un candidato/presidente capace di fermare la guerra.

Quando la guardia nazionale represse con violenza inaudita quelle richieste. Quando, dopo quei giorni della Convenzione, quel movimento giovanile si divise frantumandosi.

Quando lui e altri presero in prestito da Bob Dylan un verso, sull’inutilità del meteorologo per capire dove va il vento, per chiamarsi Weather Underground.

Quando questa non fu solo una scelta musicale, ma la decisione – per alzare il livello della protesta – di attaccare militarmente luoghi e simboli del potere che quella guerra aveva voluto e voleva far continuare.

Jim di quel gruppo d’ispirazione marxista faceva parte. Ora una militante di quel tempo, dopo tanti anni passati pensando “d’aver sbagliato anche avendo ragione “, non ce l’ha fatta più . Ha detto basta con la latitanza. E’ nelle mani dei federali.

Non resta che fuggire. Non resta che ristabilire la verità e che sia la verità a parlare a sua figlia.

Un giovane cronista della cittadina dove lui si era ricostruito la propria vita, infatti, ha scoperto che dietro il brillante avvocato Jim Grant, paladino dei diritti civili, c’è uno dei componenti del gruppo Weather Underground e non intende rinunciare allo scoop. Lo cerca chiedendosi il perché di una scomparsa che più che una fuga sembra la ricerca di qualche cosa.

Tutto ritorna: sarai braccato, ma tu non fuggi, devi andare a trovare le prove che non c’eri e le parole per dirlo alla bambina.

Devi trovare i compagni di allora, quelli che insieme alla tua generazione seppero sognarsi capaci, come nella canzone che allora cantava Graham Nash: “cambiare il mondo, mettere in ordine il mondo “.

Devi trovarli, facendo quelle telefonate, chiamare quella sequenza di numeri, per arrivare, così, alla tua compagna con cui dividevi scelte di vita ed amore. Chiederle, anche se non sai in forza di che cosa, di dire la verità, di parlare proprio di e a quella generazione delle scelte di allora.

Per vederla devi trovare, prima, gli altri compagni che non sembrano aver voglia di parlare di quei tempi anche se ci pensano sempre. “Tutti siamo morti. Solo che alcuni sono tornati”. Così verrà accolto da uno di questi che, oggi imprenditore nel campo dei trasporti, l’aiuterà.

Farà lo stesso il docente universitario di cui ascolterà una prolusione a un corso in cui gli allievi saranno spinti costruirsi progettisti della propria vita.

Sarà lui , con cui nel gruppo aveva sempre avuto molte incomprensioni, a rendergli possibile quella chiamata telefonica che, forse, potrà permettere, anche a Jim di progettare una vita futura o, almeno, di tentarci.

Ed è qui che ti accorgi, vedendo gli attori scelti, che Redford, con questo film, portando sullo schermo un tema non facile per il pubblico americano (lo stesso raccontato da Philip Roth in Pastorale Americana) intende anche parlare alla sua generazione figlia del cinema dell’impegno ed, oggi, delle produzioni indipendenti.

Quelli che lavorano per lui a “ minimo sindacale”. Come Susan Sarandon, che in “quei giorni” era a Chicago; come Julie Cristie, che ha animato i personaggi di parte del cinema progressista americano (Altman); come Chris Cooper, che ha recitato nel suo Uomo che sussurrava ai cavalli; come Nick Nolte, che ci ha fatto riflettere ed emozionare sull’esperienza sandinista (Sotto tiro).

Quelli che, avendo ragione non hanno sbagliato, a pensare, quando è stato possibile, al cinema politico e civile.

Anche a costo, come in questo caso, di dotare il film di una certa lentezza, di fin troppo facili connessioni, della ricerca esasperata di “location”” accattivanti e stereotipate, di fughe ed inseguimenti troppo visti in altre occasioni.

Trovata l’informazione giusta (il numero della lista da contattare), rotta così la regola del silenzio che fino ad allora aveva protetto tante esistenze, sarà facile trovare la sua compagna. Lì in un cottage nei laghi del Michigan dove lei ( Mimi Lurie) è cresciuta andando a vela imparando a prendere il vento.

Lo stesso posto individuato dal giovane reporter facendo il suo lavoro di fare e farsi domande. Un metodo sconosciuto ai segugi delle Fbi che brancoleranno a lungo nel buio prima di scovarlo.

Trovandosi faccia a faccia con Jim Grant, di cui vuole scoprire per primo la storia, il cronista si sentirà dire che “svelare un segreto vuol dire scoprire anche sé stessi”.

Ed allora il suo scoop cosa potrà valere di fronte al fatto che quella ragazza, che lui corteggia per riuscire a sapere qualcosa di più su quella rapina la cui indagine era stata “chiusa” da un poliziotto locale che è suo padre oggi in pensione, in realtà è, anche lei, dentro la storia?

Anche per il giovane reporter non servirà essere un metereologo per capire dove va il vento. Non è triturando le vite degli altri che si costruiscono le notizie. Così facendo non si potranno ricostruire vite né, come comprende il reporter, spiegare a chi si vuole bene la propria. Non è fuggendo, per rifarsi una vita (con questa sarebbe la settima come computa dettagliatamente Mimi) che si potranno battere le scelte politiche e sociali che come allora schiacciano il mondo.

Ancora una questione di vento. Questa volta da catturare, con un bordo improvviso, per girare la vela e ritornare a terra. Mimi permetterà a Jim, tornato libero a New York, di trovare, in una lunga sequenza di una passeggiata lungo un viale del Central Park, parole che, avvolte da uno straniante silenzio, noi non riusciremo a sentire.

Quelle per continuare a raccontare e raccontarsi di essere padre, di essere figlia.