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OPINIONI

Fine dell’Urss o tramonto dello Sguardo Occidentale? Non chiamatele “rivoluzioni colorate”

La sollevazione in Bielorussia ha finito per riproporre lo stesso quadro interpretativo che ormai da decenni caratterizza il discorso giornalistico ed accademico sulle rivolte nell’Europa dell’est. Tra eterodirezione geopolitica e orientalismo, queste interpretazioni rischiano di occultare il problema politico che quelle sollevazioni pongono davanti ai nostri occhi

Abbiamo trovato un termine soddisfacente, abbastanza evocativo da richiamare subito alla mente alcuni elementi ricorrenti (e, inconsciamente, anche un giudizio di fondo), ma allo stesso tempo sufficientemente generico da poter essere utilizzato nelle occasioni più svariate. Lo abbiamo rifinito, articolato, sviluppato e poi nuovamente applicato per diversi contesti, in diversi luoghi e tempi. Ne abbiamo fatto infine un automatismo del pensiero, quasi un tic intellettualistico che – come tutti gli automatismi – dopo un po’ inizia ai dire molto di più di chi lo usa rispetto all’oggetto che pretende di descrivere. Intanto, al di sotto delle definizioni e dei “chiacchiericci” esterni, gli eventi scorrono e si evolvono grazie a chi compie la scelta di esporsi in prima persona, quali che siano le motivazioni che decidiamo noi di affibbiargli.

Diceva il ricercatore Serhy Yekelchyk a proposito del Maidan ucraino del 2014-2015, nel suo The Conflitct in Ukraine: What Everybody Needs to Know:

 

«Ciò che è importante nell’analisi delle rivoluzioni è il quadro più ampio che vede, da una parte, un regime corrotto che tenta di restringere la democrazia e, dall’altra, la volontà dei cittadini disillusi di mettere in atto azioni di disobbedienza civile nel momento in cui avvengono gesti palesi di sovversione dello stesso processo democratico. Era ben al di là del potere di ogni agente occidentale la capacità di portare centinaia di migliaia di ucraini nelle proteste e fare in modo che rischiassero la propria vita per fronteggiare le élite al governo. Così come rimane al di là del potere di ogni agente occidentale completare la rivoluzione e fare in modo che in Ucraina si installi una democrazia compiuta».

 

Che si tratti della sollevazione ucraina di un lustro fa, poi degenerata in guerra civile, o delle proteste che da qualche settimana infiammano la Bielorussia per chiedere le dimissioni di Aljaksandr Lukašėnka, oppure ancora di uno dei tanti conflitti nel cosiddetto “spazio post-sovietico” che la narrativa giornalistica e accademica tende a far rientrare nel cappello di “rivoluzioni colorate” (per tacere di Hong Kong), le moltitudini in piazza pongono un problema. O meglio, sono il problema (politico) per eccellenza, se non fosse che a esse si sovrappongono poi tentativi di eterodirezione, fuochi incrociati di opposte propagande, interpretazioni nevrotiche che cercano di farle rientrare a forza in macro-categorie più ampie. Come appunto è il caso dello “spettro” del Maidan che, per quanto riguarda la Bielorussia, è stato agitato da parte del presidente uscente fin da prima delle elezioni nell’obiettivo di scongiurare il dissenso, oppure dell’appellativo di “rivoluzione colorata” che ricorre in tanti dei commenti di chi cerca di screditare, spesso da sinistra, le sollevazioni est-europee in quanto “teste d’ariete” per l’espansione dell’influenza della Nato a oriente.

Se non fosse che, nel continuare a utilizzare categorie di questo tipo, si rischia forse di diventare fautori dell’idea di fine della Storia ancor più della parte che si intende avversare. O, perlomeno, si rischia di perpetrare un’idea della storia come qualcosa di sostanzialmente immobile ed estremamente omogeneo: nel caso del termine “rivoluzioni colorate” per esempio si passa comodamente sopra al fatto che indichi anche eventi avvenuti oramai vent’anni fa, come le proteste anti-Milosevic in Serbia e il controverso coinvolgimento del movimento Otpor!, mentre per lo spauracchio del Maidan si tende spesso a dimenticare le peculiarità della situazione ucraina, a partire banalmente dalla sua estensione e dalla sua posizione geografica per finire con la particolare gestione oligarchica del potere che, al momento dei fatti del 2014, andava anche a determinare tutta una serie di intrecci di interessi economici e alleanze al di fuori dei confini nazionali. «Siamo di fronte a un Maidan bielorusso!», gridano alcuni, magari equiparando i manifestanti di Minsk ai neo-nazisti ucraini di Pravy Sektor o simili. «Non sarà un’ennesima rivoluzione colorata?», si chiedono altri, meno decisi sulla diagnosi ma altrettanto scettici verso la bontà degli esiti delle rivolte di piazza.

 

Il fatto è che, pur nel legittimo tentativo di abbozzare comprensioni di ampio respiro, le categorie con cui siamo soliti vedere descritte sollevazioni, rivoluzioni e ribellioni dell’area est-europea finiscono col silenziare una miriade di “differenze”, al di sotto delle quali esiste un’ancora più composita e multiforme miriade di possibilità politiche.

 

Come si accennava, il “fenomeno” delle rivoluzioni colorate abbraccia eventi che coprono un arco temporale di vent’anni e un’area geografica che spazia dalla Serbia al Kazakistan (sebbene le interpretazioni più inclusive si estendono addirittura fino alla Rivoluzione dei Garofani del 1974 e facciano rientrare anche proteste scoppiate in medio-oriente e in sud America). Inoltre, se esistono effettivamente degli elementi ricorrenti quali un ruolo variamente attivo di associazioni, enti e istituti “filo-occidentali”, l’adozione del metodo della non-violenza (vari analisti citano Gene Sharp come teorico ispiratore di numerose sollevazioni) e generici appelli da parte dei manifestanti a una “maggiore democrazia”, al contrario il numero di persone che decide di scendere in piazza, l’orizzontalità o la verticalità dei movimenti che si vengono a formare durante le proteste ma soprattutto gli esiti “finali” di queste ultime variano considerevolmente. La rivoluzione delle Rose del 2003 in Georgia ha sostanzialmente visto un cambio di classe dirigente in seguito a manifestazioni pacifiche, mentre i tentativi di sollevazione del 2005 in Uzbekistan hanno purtroppo condotto al massacro della città di Andijan, in cui forze dell’ordine e servizi segreti hanno ucciso centinaia di persone (il numero ufficiale è ancora oggetto di speculazione, dato l’uso di fosse comuni). Che dire poi di altri momenti di alta conflittualità di piazza, che generalmente non vengono “conteggiati” in quanto tentativi di rivoluzione colorata, come lo scoppio di scontri post-elettorali nella piccola repubblica moldava nell’aprile del 2009 in cui i manifestanti dopo aver invaso il Parlamento vi hanno issato sul tetto la bandiera dell’Unione Europea?

 

18 febbraio2014. Kiev, Ucraina

 

Similmente gli eventi del Maidan ucraino, che hanno certamente dato maggiore spazio di agibilità a realtà e sigle di ispirazione neo-nazista (dal già citato Pravy Sektor al Battaglione Azov) e sprofondato parte del paese in un conflitto civile che pare non trovare ancora una soluzione definitiva, hanno visto uno sviluppo talmente intenso e peculiare anche per via di caratteristiche che il paese dell’allora presidente Janukovyč condivide con poche altre nazioni dell’area, se non con nessuna. Per citare ancora la piccola e confinante Moldavia (un contesto peraltro attraversato anch’esso da una forte spaccatura politica e sociale fra forze e istanze “filo-europee” e “filo-russe”), quando, a solo due anni di distanza dalle crisi di Crimea e del Donbass, nella capitale Chișinău si sono verificate acampade e manifestazioni contrastanti di opposte fazioni in molti parlavano di “maidan” locale, salvo poi constatare che motivazioni ed esiti sarebbero stati di gran lunga differenti.

Allo stesso modo, e per ributtarsi a capofitto nella stretta attualità, viene allora da chiedersi quanto possa essere proficuo appellarsi a queste categorie interpretative nel guardare a quello che sta avvenendo oggi in Bielorussia. Un paese che, nell’insieme post-sovietico, possiede una traiettoria politica tutta sua (con Aljaksandr Lukašėnka che è al potere ininterrottamente da 26 anni senza alcun tipo di alternanza), in cui l’economia è rimasta in buona parte statalizzata (ove, tra le altre cose, la forte statalizzazione dell’economia ha storicamente anche rappresentato un “luogo di riproduzione” del consenso nei confronti del regime) e in cui, però, da ormai più di una decade si verificano episodi di proteste di piazza (non solo in vista di appuntamenti elettorali), che coinvolgono uno spettro molto ampio di popolazione e di realtà politiche e che quasi sempre sono represse attraverso l’uso di violenza poliziesca e arresti arbitrari. Non è dunque per “universalismo astratto” che si tende a parteggiare per chi scende in piazza in questi giorni a Minsk e in altre città del paese ma, tutt’al contrario, proprio perché si è convinti che lì e solo lì vi siano le specificità più importanti da cogliere per capire il presente della Bielorussia (e del contesto attorno).

 

È che, forse, esiste un problema diffuso di “orientalismo”, di pervasività di qualcosa che potrebbe essere chiamato “Sguardo Occidentale”? Non sono, troppo spesso, gli eventi di natura conflittuale che scoppiano nell’area dell’ex-Urss ricondotti a cosa noi occidentali vorremmo che fossero (rispetto ai nostri posizionamenti nei confronti dell’Urss stessa, per esempio, o alla fascinazione che sussiste anche a sinistra per la politica di forza putiniana, etc.), ancor prima che a quello che ci sembrano essere?

 

Autunno 2015, proteste a Chisinau, Moldavia

 

È vero: è pur lecito affermare che ancora viviamo nell’onda d’urto di quella frattura di ordine sociale, politico, ideologico, geografico che è venuta a crearsi dal 1989 in avanti e che non cessa di influenzare gli avvenimenti correnti. Al di là del fatto che in pochi si azzarderebbero ad affermare che i diversi regimi est-europei portino avanti riforme e adottino misure di stampo “socialista” (per quanto, visto il grado di accentramento e pianificazione, il “modello bielorusso” sia in effetti quello che più si avvicina a un’idea semplicistica di socialismo e statalismo economici), la loro appartenenza a una sorta di spazio comune che viene giustamente definito “spazio post-sovietico” resta pur sempre un elemento di ampia portata simbolica e culturale, con cui è necessario a fare i conti. Ma allora, e appunto, che i conti si facciano a partire dalla natura simbolica e culturale di un tale elemento e non “sradicandolo” – come vorrebbero le analisi “geopolitiche” da neo-guerra fredda – dalla sua inevitabile relativizzazione storica: vale a dire che rischia di risultare grottesco leggere i contrapposti schieramenti dei manifestanti in piazza e dei regimi al comando alla luce di categorie politiche pre-1989, e dunque come schieramenti appartenenti a un fantomatico “blocco imperialista” (o neo-liberista) da una parte e “blocco socialista” (o “non neo-liberista) dall’altra, quando al massimo (e pur legittimamente) ci si dovrebbe interrogare su quali rapporti di natura simbolica, di memoria e di eredità politica intrattengono le forze in campo con quel passato. Proprio a questo proposito: alcuni episodi delle proteste in corso in Bielorussia si sono svolti a Kurapaty, foresta poco fuori dal centro urbano della capitale in cui sono avvenute numerose fucilazioni relative alle purghe staliniane degli anni ‘30 e ‘40. Un luogo controverso, il cui valore simbolico è stato sempre oggetto di contesa fra popolazione, governo e movimenti d’opposizione fra monumenti distrutti, atti di vandalismo o commemorazioni negate.

Oppure ancora – lasciando da parte il passato e provando ad arrivare all’oggi – è vero: gli slogan e le rivendicazioni che vanno per la maggiore durante le proteste in Bielorussia e dintorni riguardano quasi sempre un generico appello a una “maggiore democrazia”, a “elezioni libere”, quando non – a volte e in determinati contesti – direttamente a una “implementazione dei valori europei”. Così come, lo si può osservare pure nei fatti di questi giorni, è innegabile che la più parte delle forze in campo e che prova a opporsi ai regimi al governo si appoggi in vario modo ad agenzie, associazioni, istituti anch’essi variamente legati all’Unione Europea o agli Stati Uniti, quando non all’Unione Europea stessa (il cui intervento si caratterizza il più delle volte come una sorta di “diplomazia interessata”, mentre proprio qualche giorno fa Stephen Bigan, il vice di Mike Pompeo, si è incontrato con il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov per discutere di come muoversi rispetto alla “crisi bielorussa”). Eppure, anche in questo caso, è come se esistesse una “curva della contestualizzazione” oltre la quale l’irrigidirsi dell’analisi si trasforma automaticamente in fiancheggiamento della reazione: si arriva all’assurdo di svalutare i valori della “libertà” e del “processo democratico”, dichiarandoli illusioni dettate da una non ben meglio precisata “falsa coscienza”, quando il punto sarebbe invece chiedersi, da una parte, come mai Unione Europea (o Stati Uniti) vengano visti da molti come referenti privilegiati per tali valori e, dall’altra, cosa potrebbe essere fatto affinché un tale riferimento riesca a essere meno univoco di quanto lo sia adesso e in che modo possano dunque darsi alleanze più trasversali e più “dal basso” di quelle consentito dai rapporti di forza attuali.

 

Anche perché, a guardare bene sotto la patina di queste retoriche, si scorge invece il ribollire sempre più insistente di nuove radicalità, di soggettività che si stanno prendendo la scena con una determinazione e con uno spazio d’agibilità che sarebbe stato forse impensabile 10 o 20 anni fa (quando appunto cresceva l’impiego delle categorie di “rivoluzioni colorate” o simili).

 

A cavallo fra Bielorussia, Polonia e repubbliche baltiche esiste un movimento di ispirazione anarchica che da ormai più di un decennio si scambia informazioni e pratiche, collabora politicamente, costruisce spazi di auto-organizzazione e solidarietà che, sia detto per inciso, in molti casi fungono anche da vero e proprio rifugio di protezione fisica per i dissidenti. Un movimento che, specialmente a Minsk o nelle altre grandi città, sta in questo momento scendendo in piazza a fianco degli altri manifestanti e che costituisce una parte molto attiva (per quanto certo non così ampia numericamente) della resistenza a Lukašėnka. Oppure ancora, esiste il variegato (benché talvolta silenziato e costretto alla semi-clandestinità) mondo dell’attivismo Lgbt che, prima delle elezioni, ha avuto il coraggio di esprimere una “terzietà” nei confronti delle forze politiche pur opponendosi a Lukašėnka e, allo scoppio delle contestazioni, ha deciso di occupare lo “spazio delle proteste” nonostante quest’ultimo non sia un ambiente necessariamente inclusivo verso ogni orientamento sessuale o identità di genere (le unità speciali anti-sommossa vengono spesso appellate in senso dispregiativo come “omosessuali”). Infine, e mentre magari alcuni fra i sostenitori “da sinistra” di Lukašėnka citano la “buona posizione” della Bielorussia nell’Indice di Sviluppo Umano e la “resistenza” del regime alle privatizzazioni di stampo neoliberale che hanno investito altri paesi dell’area in seguito al crollo dell’Urss, oltre alle manifestazioni di piazza sono iniziati anche scioperi e proteste da parte dei lavoratori di numerose fabbriche statali, tra cui l’importante aziende di trattori Mtz di Minsk. Alcuni di questi gruppi di lavoratori si sono uniti ai manifestanti nel chiedere un nuovo conteggio dei voti e nuove elezioni, ma altri hanno avanzato anche rivendicazioni legate a diritti lavorativi pretendendo sostanzialmente, e in maniera che difficilmente si potrebbe definire più “marxiana”, di avere un maggiore controllo sui mezzi di produzione e sull’organizzazione di quest’ultima (al che, sempre per inciso, Lukašėnka ha risposto affermando di essere pronto a chiudere le fabbriche in cui si verificano gli scioperi, finche le persone non si «sarebbero calmate»).

 

 

Ponderare – attraverso formule sempre più astratte e pose sempre più intellettualistiche – i sempiterni “rapporti di forza” in modo generalizzante, paventare l’inevitabilità di una “sovradeterminazione geopolitica” del corso degli eventi (leggi: un nuovo e rinnovato scontro fra Russia e Nato sulla pelle di chi protesta) riproponendo poi di fatto una versione rimaneggiata di “politica dei due tempi”, ripercorrere un’infinita catena di distinguo – sempre più apparentemente arguti quanto più inevitabilmente ricorsivi – per raggiungere infine un’equidistanza “neutra” che riesca a dichiararsi “né con Lukašėnka né con il neoliberismo”, non sono in fin dei conti tutti dispositivi retorici per eludere il confronto e il supporto concreto alle soggettività di cui sopra? O, perlomeno, per portare avanti un confronto e un supporto che si diano comunque da una posizione di “superiorità”, di radicale diversità (storica, geografica, etc.) che si traduce infine in in-differenza politica? Ha detto in modo molto chiaro il ricercatore e politologo Ilya Budraitskis (autore, tra l’altro, di Dissidents among dissidents) a proposito di un articolo di Slavoj Zizek sul “The Guardian” che cerca appunto di tratteggiare il futuro della Bielorussia come qualcosa di già scritto e per niente roseo:

 

«È chiaro che il pessimismo anti-capitalista di Zizek sulle proteste bielorusse è rivolto esclusivamente a un pubblico occidentale di “quasi-sinistra”, e corrisponde al suo profondo sospetto di qualsiasi universalismo, che da tempo è considerato esclusivamente una forma di imperialismo. I bielorussi, con i loro vent’anni di esperienza sotto il potere di Lukašėnka, sono ”altri”, una tribù periferica che professa i propri rituali di riproduzione della vita. E la richiesta di democrazia è vista conseguentemente come una “promessa coloniale” di felicità, che alla fine porterà solo a delusioni. Mi pare che questa ottica anti-universalista (che in un modo o nell’altro viene riprodotta da Zizek) porti infatti a un rifiuto programmatico di internazionalizzazione, e metta l’uno contro l’altro manifestanti in Oriente e Occidente, a Minsk o a Seattle. Questa impossibilità di un loro linguaggio comune è esattamente ciò che è necessario superare oggi».

 

In che modo? È difficile da dire. La contraddizione fra desiderio di democrazia e aspirazione al socialismo dei popoli, da una parte, ed effettivi interessi geo-strategici delle potenze economiche e militari, dall’altro, è una strettoia da cui è impossibile uscire senza sforzi, soprattutto “a est”. Ma, intanto, si potrebbe iniziare col dismettere sguardi colonizzanti e categorie interpretative consunte, che hanno fatto il loro tempo e non hanno più ragion d’essere. Proprio come l’autoritarismo di Lukašėnka.      

Immagine di copertina, Minsk, 30 luglio 2020. Da Wikipedia