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Nomi di classe. Su “Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente” di Sandro Mezzadra

Usando produttivamente le differenze e le tensioni fra Marx, Foucault e Thompson, Sandro Mezzadra, nel suo ultimo libro “Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente” (Meltemi), combina critica dell’economia e critica del soggetto per riformulare il concetto di classe

Wir müssen die Reise um die Welt machen, und sehen, ob es vielleicht von hinten irgendwo wieder offen ist

Heinrich von Kleist

 

In un saggio ormai classico Carlo Ginzburg ha mostrato, a partire da un luogo strategico de L’éducation sentimentale, che i bianchi e le spaziature funzionano come le articolazioni e le cartilagini di un testo, organizzandone tempo, ritmo e discontinuità ma anche aspettative, attese e disposizioni. Proust aveva giudicato lo spazio bianco che unisce – separandoli – due tempi incomponibili e tuttavia cruciali della vita di Frédéric Moreau il vertice dell’arte compositiva di Flaubert. Chiunque abbia preso in mano anche svogliatamente il primo libro del Capitale conosce un’esperienza non dissimile quando, come ascoltando una sinfonia, suppone che il finale del capitolo ventiquattresimo della settima sezione (La cosiddetta accumulazione originaria) costituisca anche la conclusione dell’intero libro. Sostenuto, com’è, da una imbattibile retorica in crescendo – rullo di tamburi, sfregamento di piatti, gran protagonismo dei timpani – esso pare autorizzare chi legge a disporsi all’imminente rito dell’applauso. Ma si tratta di un’attesa delusa o di una soddisfazione rimandata: lettore e lettrice si troveranno infatti inopinatamente sospesi in quell’incongruo addendum, disorientati da quella bizzarra escrescenza, che è il capitolo venticinquesimo (La teoria moderna della colonizzazione).

Non è una forzatura situare più o meno allegoricamente il lavoro teorico e militante di Sandro Mezzadra in questo spazio, o snodo, testuale, che – impiegando il lessico operaista che è il suo – illustra il rapporto tra sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale: l’arcano – quello forse eminente pure tra i molti disseminati nelle pagine marxiane – dell’”incontro” tra forza lavoro e capitale e la pluralità – per non dire l’idiosincrasia – dei suoi modi e dei suoi tempi. Tutti i saggi che Mezzadra ha deciso di raccogliere in questa corposa silloge – tanto distanti nelle occasioni, nei materiali, nelle lingue e negli oggetti – ruotano ossessivamente attorno a quel “salto”, a quel “bianco” che sospende – rendendola in-finita – la “fine” del Capitale.

Gli arnesi impiegati da Mezzadra – lettore bulimico, passeur o pusher della migliore e meno scontata letteratura (disposta qui in quasi quaranta fastose pagine di bibliografia) – sono disparati epperò ci sono due dioscuri a fare da guardia a Un mondo da guadagnare: Karl Marx e Michel Foucault. Tanto che forse il saggio che al loro (non) rapporto è dedicato potrebbe essere a buon diritto considerato il pivot attorno al quale gli altri sondaggi sono più o meno implicitamente incorollati. E non è d’altronde casuale che – almeno a una stima artigianale – il nome di studioso che ricorre con maggiore frequenza lungo le pagine del volume sia quello di Étienne Balibar, che, in uno studio tanto esemplare quanto spregiudicato, del dialogo tra i due aveva fissato le poste in gioco e dichiarato che le genuine e non irrisorie contraddizioni, a meno di soluzioni gesuitiche, potevano e dovevano essere fatte reagire le une contro le altre; soltanto così garantendo l’apertura, almeno virtuale, di una nuova problematizzazione.

 

 

I nomi di Marx e Foucault sono quindi due segnalatori di incendio: additano lo stesso luogo di una “critica” a cui Mezzadra sembra non voler rinunciare.  Non certo per fare la morale al mondo – che non è appunto guadagnato nella teoria, ma da guadagnare (al pensiero e nelle pratiche) – ma nel tentativo di combinare critica dell’economia politica e critica del soggetto. Questa censurabile e verbosa sintesi è l’esito della sovrapposizione di un’indagine sui modi e le forme in cui la ricchezza, da un lato, e il soggetto, dall’altro, sono entrambi “prodotti”. Le formule potrebbero moltiplicarsi, il loro fuoco è chiaro: l’incontro tra produzione e soggetto. Con il solito bifido genitivo – soggettivo e oggettivo – a unirli. Soggetto e produzione sono immersi in coordinate e variabili di tempi e spazi, inseriti in una sequela – archivio, genealogia, vicissitudine – storica e materiale: ogni conflitto tra lavoro e capitale – ché il loro incontro, lo si sarà capito, non può che avere la forma di uno scontro – è sempre anche un cronotopo unico che organizza temporalità molteplici e compone spazi scalarmente distinti.

Il rapporto tra sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale – che del volume è il lucido leitmotiv e non, come forse in questa recensione, il bizantino refrain – è il “rampino” che autorizza Mezzadra a leggere “coerentemente” scene diverse e contesti disparati del rapporto di capitale contemporaneo. Non si tratta infatti di valutare il carattere ora formale ora reale della sussunzione come se si trattasse di distinguere il grano dal loglio, ma di fissare la loro relazione sotto la specie della virtualità o della compossibilità. Il che vuol dire che l’istituzione di un soggetto produttivo – la separazione nella forza lavoro di ciò che è vivo e ciò che è morto – è sempre l’esito di un conflitto, di una domesticazione – che è insieme ottimizzazione e controllo – della cooperazione; di un’ortopedia o di un’inibizione della dissipazione, della mobilità o – più semplicemente – di quella libertà che ne è la intrascendibile condizione.

Se lavoro e capitale conoscono molti modi di incontrarsi allora ogni storia di sviluppo capitalistico è singolare. L’assidua frequentazione dei mondi postcoloniali ha insegnato a Mezzadra che l’accesso a queste “storie” è garantito soltanto dalla almeno provvisoria sospensione dell’egemonia teorica del lavoro salariato “libero”. Esso – a dispetto del suo apparentemente inderogabile carattere fisiologico – è lontano da avere natura di fatto e vigenza di legge. Una volta rettificato l’angolo di visuale, ciò che appare è l’eterogeneità delle forme di sussunzione del lavoro al capitale, la pluralità di processi di trasformazione della forza-lavoro in merce. Al lavoro astratto si oppongono i modi situati e le operazioni diverse di estrazione del valore. Ciascuna di esse è un tentativo di astrarre lavoro per estrarre valore. Ma è proprio la radicale irriducibilità della forza-lavoro a una soltanto delle sue specificazioni possibili, che situa il lavoro vivo costitutivamente fuori dal rapporto di capitale. Logistica e finanza sono nient’altro che le – formidabili, concediamolo – astrazioni capitalistiche contemporanee con cui il capitale – e il diritto privato che ne è la più fondamentale infrastruttura – cerca di riguadagnare al rapporto e riappropriare al profitto quel lavoro vivo e quella cooperazione che gli sono fatalmente esteriori.

È dunque questa batteria di operazioni – giuridiche, politiche, logistiche – di governo del lavoro vivo a essere l’oggetto degli studi di Mezzadra. Questo spiega anche l’apparente cospicua distanza che corre tra il saggio dedicato alla lezione filosofico-politica di Bepi Duso e quelli che – riprendendo, glossando e radicalizzando i lavori stesi a quattro mani con Brett Neilson – sono consacrati alla moltiplicazione del lavoro, e, più recentemente, all’estrattivismo, alla logistica e alla finanza. Con una battuta: Althusius con Marx vuol dire che non c’è critica della politica (della sovranità, della forma Stato, della scienza politica dei moderni) senza critica dell’economia politica e Marx con Foucault (e Thompson) vuol dire che non c’è critica dell’economia politica senza critica del soggetto (del principio di individuazione moderno, del teologico-politico, dell’Uno).

Quelli gli oggetti, questi gli arnesi: primato delle lotte, metodo della tendenza, analisi della composizione. Una dotazione la cui marca non è difficile riconoscere. Tuttavia usati con tanta spregiudicatezza da essere pure felicemente abusati. Perché se è vero che Mezzadra squaderna una filza di argomenti il cui rango metafisico è indubitabile la sua è una esigente e rigorosa fisica dell’organizzazione. Quindi anche gli apparecchi più sofisticati stanno e cadono con le ipotesi che verificano. La strumentazione operaista è sfoggiata per pensare cos’è e cosa può oggi un soggetto collettivo. Da qui derivano non insignificanti grattacapi. Perché la “soluzione” di Mezzadra (qui debitore di un Thompson cui dedica pagine straordinariamente lucide) è che “che cosa” un collettivo sia è integralmente determinato da cosa esso possa. I “soggetti” di cui è questione nelle pagine di Mezzadra non precedono ma sono piuttosto i prodotti delle loro azioni (lotte, riti, abitudini, conflitti). Lotte parziali e soggetti eterogenei, dunque; ma natura comune della potenza – sinapsi e muscoli – estorta e messa a profitto dal capitale.

 

 

Questa apparente divaricazione – che è poi una genuina ambivalenza – tra differenza e genericità, singolarità e comune, è la posta in palio di un’ontologia che si sia integralmente confusa con la prassi. Una volta di più la metafisica è provata con l’organizzazione. È quindi infine il venerabile concetto di classe che si tratta di verificare. Se esso sia il nome di un collettivo che consiste nel processo del suo farsi, se esso sia il nome di un’equivoca e dinamica assemblea di esseri eterogenei. Se cioè esso qualifichi quel lavoro vivo che – “fuori” dal rapporto di capitale – si organizza proprio quando questo cerca di “astrarlo” per “estrarne” valore. Se nomini, identificandolo, un collettivo che si istituisce nel conflitto, nel rifiuto, in una relazione autonoma dal rapporto di capitale, in una cooperazione che è associazione non comandata, in quell’azione a cui non pre-esiste ma di cui è un formidabile e offensivo prodotto. Si tratta di una questione speculativamente vertiginosa (il suo titolo è: la moltitudine non è il popolo) e politicamente urgente (il suo slogan suona: la moltitudine è la classe). Essa non può che “risolversi” in una domanda: cos’è e come si fa un collettivo che non è Uno (un popolo di maschi bianchi eterosessuali, per esempio)?

Marx e Foucault, quindi, ancora una volta: pensare la classe alla luce della soggettivazione vuol dire farla finita con la sua presunta omogeneità. La funzione Thompson sembra così davvero il punto di fuga di tutto quanto il libro di Mezzadra. La classe coincide integralmente con il suo proprio making: processo, formazione, produzione di sé stessa. Essa non si identifica con un insieme di proprietà, non si raccoglie in sostanza, non si fissa in essenza, non ha una natura né una coscienza, non conosce legge né sviluppo: è una certa maniera di fare, un modo storico di organizzare le relazioni e di qualificare i rapporti. Un’associazione di singolarità istituita da e in un conflitto. Stenograficamente: non c’è classe fuori dalla lotta di classe. Con un corollario decisivo: l’antagonismo non è la prestazione esemplare della classe; esso le inerisce essenzialmente: è la stessa dinamica che concorre a istituirla, formarla e comporla. La differenza di classe ha traslocato nella classe. La classe non è altro che quell’insieme di relazioni con cui la forza lavoro rifiuta, impedisce e ostacola la sua trasformazione in forza produttiva: un rifiuto istituente, che, organizzando la cooperazione fuori dal comando, qualifica altrimenti lo stare assieme di un molteplice cooperante e dissipato.

 

“Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente” di Sandro Mezzadra verrà presentato oggi, giovedì 15 ottobre, alle ore 18 presso Esc Atelier. Discutono con l’autore: Adalgiso Amendola, Francesco Raparelli, Enrica Rigo. Introduce e modera: Giuliana Visco