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Formalismo selvaggio. A proposito di “Diritto vivente. Ravaisson, Tarde, Hauriou” di Sandro Chignola

Nel suo ultimo libro, pubblicato per Quodlibet, “Diritto vivente. Ravaisson, Tarde, Hauriou”, Sandro Chignola esamina il problema della forma del diritto in rapporto alle espressioni del vivente. Il formalismo non emerge come un’architettura che costringe la vita ma come una con-figurazione che co-evolve con le forze della natura

Le social est au fond du vital

Henri Bergson

 

Sandro Chignola premette alla sua più recente ricerca – com’è sua «abitudine» – una introduzione che è tanto succinta almeno quanto è impegnativa. Una premessa singolare: essa parla perlopiù tedesco (così come pure il Goethe che campeggia in esergo) benché abbia l’ufficio di introdurre una collezione di saggi dedicata a autori quintessenzialmente francesi (Ravaisson, Tarde, Hauriou). Potrebbe non essere senza importanza intrattenersi su questa spia paratestuale. Perché il programma di ricerca impostato e poi svolto nei quattro sondaggi allestiti da Chignola è una rivisitazione critica – e in conversazione con un recente revival “istituzionalista” – di quella che Rickert aveva chiamato nel 1920 la Modeströmung del proprio tempo: la filosofia della vita. Possiamo allora intendere altrimenti il titolo della ricerca: il sintagma «diritto vivente» – che Chignola toglie a Gabriel Tarde –, e che pure per i giuristi è quasi un terminus technicus, impiegato in Italia per la prima volta dalla sentenza n. 274 del 1976 della Corte costituzionale, è qui la provvisoria insegna issata su un cantiere la cui ipotesi è quella di saggiare la parentela tra due intrattabili e cruciali galassie speculative esplose a cavallo tra il XIX e il XX secolo: una certa metafisica della natura e l’istituzionalismo giuridico.

 

Ciò che Chignola fa emergere e documenta è proprio questa “aria di famiglia” che allinea e ordina quello che appare come un fenomeno di sostenuta circolazione – soprattutto franco-tedesca (ma non senza una decisiva “sponda” italiana) – di stili, toni, inflessioni e quadri concettuali a cavallo tra i secoli: una moda più che una linea, una sensibilità più che una scuola, un dossier di cui occorre ancora produrre l’archivio.

 

Ma va da sé, se l’operazione di Chignola non è certamente filologica, essa non è neppure puramente archeologica. La sua proposta è anche e forse soprattutto un chiaro impegno di politica della filosofia. La passerella gettata tra le imprese metafisiche di Ravaisson e Tarde e quella giuridica di Hauriou è l’antropologia filosofica (evocata nella versione materialista praticata da Paolo Virno). A sostenere una perlustrazione che ha le sembianze di un’indagine squisitamente metafisica è quindi il partito preso secondo cui ogni seria inchiesta sulla politica non possa prescindere dalla storia naturale di quel vivente che ne è il protagonista. Attraverso questo prisma si tratta perciò di capire come una vita si doti di quegli equipaggiamenti – forme, norme, regole, abiti, abitudini, riti, modi, rimedi, istituti, istituzioni – che le permettono di consistere, riprodursi e trasformarsi; attraverso quali processi, in altre parole, una vita trascorra in una forma-di-vita.

 

Il volume allinea quattro saggi dedicati a tre autori: il primo è consacrato al mémoire d’habilitation di Ravaisson: De l’habitude; seguono due studi – posti sotto titoli che ne suggeriscono una lettura pugilistica: “uno-due” – dedicati a Gabriel Tarde; e l’ultimo – ma il primo a confrontarsi con un giurista – ospita un attraversamento della intera traiettoria speculativa del doyen Maurice Hauriou.

 

Qualcosa sullo stile. Il protocollo prescelto da Chignola è quello di un tour de force ermeneutico: con lui siamo invitati a un seminario. I libri sono aperti, squadernati, sul tavolo: si tratta di leggerli e rileggerli, di frequentarli con sobria ossessione, con l’ausilio minimo di guide scelte, aggrappandosi alla lettera e provando a non fraintenderli, a renderli perspicui a forza di estenuarli. Lavorando sodo, ci si appassiona. Chignola “doppia” la voce dei testi per cavarne il suo guadagno speculativo. Quasi mimeticamente. Ma se il close reading ha a che fare con l’aderenza al testo non ha nulla a che spartire con l’adesione. Dunque, se l’immersione nei testi piega la sua voce, governa il suo timbro e gli impone un tono, è per questa singolare via ecfrastica che Chignola guadagna il suo originalissimo posizionamento. Lo stesso vale per la parsimoniosa economia che governa l’esplicitazione del rango politico dei testi che commenta. Che questa metafisica abbia uno statuto politico è un’evidenza la cui flagranza è l’esito stesso del processo di lettura a cui Chignola la sottopone e che molto probabilmente l’inopinata moltiplicazione della segnaletica bibliografica avrebbe potuto contribuire a occultare più ancora che a esaltare.

Il congegno esegetico funziona in maniera impeccabile e sotto l’apparenza sobria di un quaderno di lavoro (amplificata dall’understatement dell’umile grigio della collana che il libro inaugura da Quodlibet: “Ius. Ricerche”, spin-off della collega maggiore “Ius”, che a un restauro dell’istituzionalismo sta dando un non trascurabile contributo) rivela uno studiatissimo principio compositivo. La scelta è infatti deliberata e immediatamente dichiarata: mettere a tacere i commenti (o meglio: i commentatori) e lasciar parlare la lettera del testo. “Silenziare” la tradizione e il commento così da far brillare una serie virtuale, un concatenamento di enunciati il cui compito dovrebbe essere quello di indicare il luogo di una nuova problematica.

Andiamo con ordine: Chignola decide di mettere a tacere soprattutto due autori o, forse meglio, di farne tacere uno per interposta dell’altro. Si tratta, fin troppo prevedibilmente, di Bergson e Deleuze. L’ombra del loro commento sugli autori, ma sulla stessa vicenda speculativa che sta sotto il fuoco della sua indagine rischierebbe infatti di compromettere l’accesso ai testi, soprattutto se la manovra che impegna Chignola è quella di riordinarli in una diversa serie. Dunque le interpretazioni di Deleuze e Bergson non sono già i convitati di pietra della ricerca bensì il suo più segreto alimento e la stessa posta in gioco della verifica in cui essa in definitiva consiste. Se Chignola schiaccia il pedale della sordina nella prima pagina del libro è soltanto per sollevarlo finalmente nell’ultima. Perché il Deleuze – e il bergsonismo – che lo interessa, lontano dalla tenzone un po’ stucchevole tra l’interpretazione darkettona o buontempona della sua filosofia, è proprio lo “storico della filosofia” (fedele al protocollo dell’inculata o dell’immacolata concezione da lui stesso messo a punto).

La cauzione pagata a Deleuze è quindi ciò che permette a Chignola di dare eventualmente un nome alla problematica che la “serie” Ravaisson-Tarde-Hauriou individua. Il vitalismo – la re-impaginazione della questione del “dato” sotto la specie di forza e potenza – e l’ontologia relazionale che ne consegue urta ogni volta alla questione della forma e della durata. L’accordo tra vita e forma, organico e psicologico, dinamica e statica, evento e durata è l’ossessivo ritornello che queste pagine non smettono di diffondere, l’impegnativo experimentum crucis che non cessano di riproporre. La “soluzione” affacciata da Chignola è che questa provvisoria, traballante composizione tra una cosmologia (che fa risiedere nella vita una potenza anonima, eterogenea e agente) e una cosmetica (che architetta gli abiti che quella potenza fanno consistere e durare, che quella vita organizzano e riproducono) possa chiamarsi diritto. “Giuridica” è quindi un’intensità speciale del sociale: quella che, istituendolo, gli permette anche di trasformarsi. Non già un principio d’ordine che “catturando” la potenza vitale la esaurirebbe fatalmente sterilizzandola o inibendola in forme capaci solo di spegnere lo “slancio” delle forze, ma un operatore istituente, un “traduttore”, in grado di agganciarle alla durata, di riprodurle nell’imitazione, assicurando loro ripetibilità e mutamento eventuale, esaltandone il carattere plastico, la duttilità. Il diritto vivente è quindi l’insieme di quelle operazioni capaci di istituire, con-figurandole, le espressioni. Organismo e tecnica sono presi assieme in un perpetuo processo morfogenetico che, componendo trasformazione e ordine, garantisce al sociale quella stessa consistenza che, virtualmente, è anche condizione del suo disfarsi.

Decidendo di chiamare “diritto” (o istituzione) questo luogo di articolazione tra cosmologia e cosmetica Chignola non soltanto offre molta e nuova materia da pensare ma riorganizza anche, indirizzandolo verso questo “luogo”, un numero disparato di ricerche e programmi che avremmo altrimenti collocato su scaffali tra loro distanti. Citiamone qualcuno alla rinfusa con l’intenzione, incrociando le coordinate, di identificare questo “luogo” con un maggiore grado di attendibilità. In Francia – mediata da una “ripresa” della filosofia della natura di Whitehead e frequentando né più né meno il manipolo di autori convocato da Chignola – si sono moltiplicate le indagini speculative sulla cosmologia dei Moderni: da Isabelle Stengers a Didier Debaise, da Pierre Montebello a David Lapoujade. In Italia non si può non pensare al progetto alter-canonico di Rocco Ronchi così come ai lavori di Davide Tarizzo di qualche anno fa. Anche l’epistemologia e la filosofia delle tecniche sembrano interessate dallo stesso movimento: e in questo caso il pensiero va alla recentissima ricerca di Pierpaolo Cesaroni dedicata alla “vita dei concetti” e a quella, ancora inedita, che Emanuele Clarizio ha impostato attorno a una filosofia biologica della tecnica. Così accade nel distretto della filosofia politica: i molti saggi e articoli di Mariangela Milone e Natascia Tosel sulla “giurisprudenza” deleuziana e le sue parentele tardiane illustrano brillantemente questa rinnovata attenzione. E ancora, ovviamente, la storia della filosofia: qui, per economia, basti pensare al recentissimo volume di Suzanne Guerlac che riapre la Recherche proustiana con l’ausilio – guarda caso – di Ravaisson e Bergson.

 

Il diritto vivente si installa quindi, organizzandola altrimenti, re-impaginandola proprio perché e proprio mentre – quasi senza parere – la “politicizza” da parte a parte, in questa ripresa di una filosofia della natura non naturalista che integra, dimostrandone l’indiscernibilità, le dinamiche della socialità alle meccaniche della forma sotto il nome – ancorché spesso implicito – di istituzione. In chiusura non resta quindi – fin troppo prevedibilmente – che domandarsi: quid iuris?

 

Perché se la ricerca di Chignola consegna un legato questo ha come destinatari privilegiati senz’altro i giuristi. La questione qui non può essere svolta, ma sarebbe più onesto dire adombrata, che in maniera sbrigativa. La vertigine verso cui gli autori del diritto vivente corrono il rischio di attrarre il diritto – e primo fra essi forse proprio il giurista Hauriou, l’autore paradossalmente più “oneroso” da inscrivere nella serie perché più teoricamente “esposto” a incorrere in questa confusione – è la sua “soluzione” nella sociologia. Il “rischio” che tra essa e il diritto corra un’equivalenza tassativa e inemendabile. Che cioè la cosmologia si emancipi dalla cosmetica e che l’immanenza della creazione – anche quando abbia sbriciolato la volontà e l’autonomia nell’abito e nella ripetizione, quando abbia polverizzato la libertà nella durata e nell’imitazione – pretenda di segregarsi dalla forma che pure la mantiene in vita e la destina a ogni possibile trasformazione. Quello tra forma e forza non è un derby e Chignola non fa che dimostrarlo implacabilmente. Solo e soltanto perché il diritto è insieme tecnica d’ordine e grammatica di trasformazione esso istituisce la vita come storia (produzione, relazione, conflitto) non potendo mai – come Yan Thomas ha dimostrato una volta per tutte – istituire una vita biologicamente nuda e cruda, la vita sans phrase. Ai giuristi starebbe perciò di mostrare in che misura quella tecnica di astrazione e forma che è il diritto sia mescolata alla vitalità e alla attività di movimenti e forze sociali senza che l’una si confonda, a essa riducendosi, con l’altra; in che misura, cioè, mediazione e immanenza possano – e forse debbano – stare assieme. A chi consideri la sociologia una risposta troppo semplice (e in definitiva inconcludente) a questo rompicapo materialista, Sandro Chignola ne offre una assai più esigente e impegnativa: l’operazione giuridica, e il suo ineliminabile carattere tecnico, come (una) politica.