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Per una storia giudiziaria della natura

Se la crisi dell’ecologia è innanzitutto crisi del rapporto tra natura e cultura, il libro “L’istituzione della natura” curato da Michele Spanò, che raccoglie per Quodlibet i saggi di Yan Thomas e Jacques Chiffoleau, mostra in che modo la natura possa essere pensata all’interno di una cornice giuridica diversa da quella che ha segnato la nascita dell’individualismo

Bruno Latour ha scritto che quella che ci troviamo a vivere non è una crisi della natura, bensì una crisi del concetto di natura. In questa battuta, formulata nello stile tipico dell’antropologo francese, si riassume il portato concettuale del dibattito sull’ecologia che da qualche tempo attraversa le scienze umane: per divenire politica, l’ecologia deve abbandonare il sogno di un terreno che le sarebbe proprio, di un orticello da circoscrivere e picchettare. La crisi investe, prima di tutto, la pretesa di definire l’ambito che all’ecologia sarebbe specifico – e, di conseguenza, le pratiche e i discorsi che sulla suddetta natura fanno affidamento per il proprio funzionamento.

Così, quello di natura è stato svelato, presso i moderni, come significante vuoto per eccellenza, che mentre prometteva appigli saldi per pratiche che si volevano incontestabili, razionali, concorreva più che altro a creare ambiti d’impunità che proprio dove sembravano offrire fondamento universale, nascondevano in realtà interessi tutti particolari. Si tratta di un discorso affascinante, per molti versi irrinunciabile, nutrito da antropologia, filosofia, studi di genere; e che, tuttavia, a questo livello di generalità, si sviluppa su un crinale scivoloso, sempre a rischio di sgretolarsi nell’abisso del senso comune e della ineffettività politica. Al versante critico, denunciatario, è giunto forse il momento, allora, di accostarne con più insistenza un altro, tecnico ed etnografico.

Si tratta, per molti versi, di una raccomandazione metodologica che è intrinseca a L’istituzione della natura, volume curato da Michele Spanò per Quodlibet. Il libro raccoglie due saggi: uno di Yan Thomas, grande studioso di diritto romano, e l’altro di Jacques Chiffoleau, importante storico medievista, e si chiude poi con una postfazione del curatore. I due testi degli studiosi francesi – scritti separatamente, ma all’interno di un dialogo aperto – battono il sentiero di una storia della natura romana e medievale. Con approccio che nell’accuratezza storiografica non cerca pretesto per deporre la speculazione, quanto casomai per collocarla più saldamente su di un terreno a tutti gli effetti etnografico, i due saggi estraggono da taluni casi esemplari selezionati nella casuistica – romana in un caso, medievale nell’altro – una pragmatica della natura, che, invece di guardare a come essa venisse definita nelle opere didattiche e filosofiche, si dedica piuttosto a indagarne gli effetti.

Il testo di Thomas ci porta a Roma, per mostrarci il concetto di “natura” al lavoro nelle mani dei giuristi di epoca classica. E scoprire così che esso si comportava in maniera differente rispetto a quanto si potrebbe pensare leggendo le opere didattiche dei giuristi stessi o i testi dei filosofi – presso i quali la natura «occupava una posizione eminente, ispiratrice e legittimante» (p. 17) rispetto al diritto. Nessuna trascendenza, per lo meno normativa, per la natura giuridica romana: «Lungi dal fondare delle norme, la natura, secondo i giuristi del II e III secolo, prepara soltanto il terreno per estenderle al di fuori delle leggi» (p. 22). La natura, dunque, non è convocata perché presti al diritto civile l’appiglio della propria supposta trascendenza, bensì istituita quale dispositivo squisitamente tecnico in grado di permetterne l’estensione; la «natura prefigura le istituzioni pur essendone a sua volta definita» (p. 26). Tramite riferimenti puntuali, Thomas ci illustra la topologia assolutamente piana – immanente – del diritto romano: la natura ha essa stessa consistenza istituzionale, e il giurista la evoca in quanto v’identifica fattispecie grazie alle quali «il diritto può pensare un atto giuridicamente impossibile, ma necessario per pensare se stesso» (p. 30). Così, per esempio, nella cattura degli animali selvaggi il giurista troverà l’occasione per concepire quel luogo «inattingibile all’esperienza, se non addirittura al pensiero» (p. 29) in cui i beni fanno ingresso nei circuiti dello scambio. Per il giurista romano d’epoca classica, l’istituzione della natura è il luogo dove il diritto, ogni volta qui e ora, comincia.

La scena muta quando, già negli ultimi secoli dell’impero romano, sotto l’influenza crescente del cristianesimo, e più compiutamente poi in epoca medievale, la natura si presta a servire da «criterio e da giustificazione alle decisioni imperiali» (p. 53). È questo il paesaggio illustrato da Jacques Chiffoleau, che dedica il proprio saggio a un’analisi degli atti condannati in quanto contra naturam. Questa locuzione non sarebbe potuta valere la persecuzione in epoca romana, se è vero che, come ci dice Thomas, «nel diritto romano classico non si riscontrano tabù morali fondati sul diritto naturale» (p. 21). Se la natura dei romani sembrava solo poter opporre ostacoli di carattere fisico, mentre la normatività giaceva integralmente sul piano squisitamente umano delle leggi e dei mores, ecco che ora l’orizzonte di questo snodo cambia radicalmente.

Il fatto è che la natura si fa Creazione – e dunque, prima di tutto, «eclatante manifestazione della sovranità divina» (p. 54). E sarà proprio questo nesso tra natura e sovranità – mediato dal tema contiguo dell’Onnipotenza – a determinare il profilo nuovo che la natura andrà assumendo nel lavoro dei giuristi medievali: «Dietro la sovversione della natura c’è sempre […] l’inquietante messa in causa di un potere sovrano» (p. 90). Per questo, essa va perseguita, estorcendo confessioni dettagliate, anche mediante l’uso della tortura. Nella persecuzione degli atti contro natura, infatti, si tratta sempre «di denunciare un attentato fondamentale al cuore del potere e di eliminare in questa maniera un grave ostacolo all’installazione di nuovi rapporti di potere» (p. 98). Nella lotta contro gli attentati alla maestà divina prende forma l’ordito istituzionale del nascente Stato moderno e si forgia al contempo – in un nesso, tutto foucaultiano, che Chiffoleau tiene a sottolineare – il soggetto che sarà supposto abitarlo. La natura immanente dei romani acquista consistenza e statura di un’entità trascendente, si erge al di sopra del diritto e viene invocata a giustificazione esterna, superiore, per le decisioni dei giudici. Essa si fa «riferimento esterno al diritto stesso che sostiene l’equità, permette di fissare dei vincoli al potere del principe e limita in una certa misura le loro stesse costruzioni finzionali» (p. 69).

Il saggio conclusivo di Spanò, più che dedicarsi a un’analisi dei testi che lo precedono, vi s’ispira per tracciare una cartografia critica del dibattito corrente su diritto e natura, all’interno del quale il testo è destinato a intervenire. La scena è vivace, e tuttavia le (altre) scienze sociali sembrano avvistarne soltanto i momenti più esotici: quelle notizie che di tanto in tanto filtrano da terre lontane, la Nuova Zelanda o l’Ecuador, dove un’entità che il nostro gergo ontologico vorrebbe “naturale” si vede invece riconosciuto lo status – apparentemente più dignitoso – di “persona”. La tentazione di scorgervi la traccia istituzionale di un’alterità cosmologica pregna di saggezza ecologica è diffusa, e certo avallata da talune sistemazioni eccessivamente rigide del dibattito antropologico su natura e cultura; e tuttavia va rigettata con fermezza. La sfida ecologica inerente al diritto non è quella di far passare le entità non-umane dal rango di cose a quello di persone; quanto, piuttosto, di spezzare la gabbia di un gioco a somma zero tanto arido sotto il profilo speculativo quanto esausto dal punto di vista politico. Infatti, «non è la “natura” a non entrare in diritto perché il fiume è una “cosa” e la foresta è un “oggetto”; un fiume e una foresta non entrano in quanto tali in diritto – a meno, appunto, di essere indifferentementepersonificate o patrimonializzate – perché sono una figura del molteplice, un assemblaggio, una mescola, un’assemblea di esseri eterogenei e plurali, fondamentalmente irriducibili alla metrica dell’unità e dell’individualità che è l’unica forma logica ammessa dal dispositivo del diritto soggettivo che presiede alla soglia della giuridicità» (p. 119). Il problema, allora, è da individuare nelle fondamenta soggettiviste del diritto, che, oltre a informare i codici, saturano ancora l’orizzonte di troppa immaginazione politica.

Ecco che la questione, allora, non riguarda nemmeno più specificamente la “natura” o le “entità naturali”: si tratta piuttosto di costruire un diritto che non abbia nel soggetto la sua unità minima fondamentale, capace di riconoscere il molteplice oltre quell’individuo proprietario e quel pubblico sovrano cui soli è disposta a conferire il proprio riconoscimento la topologia giuridica moderna. Scrive Spanò: «I diritti trans-soggettivi sono i contro-diritti del molteplice non personificato né patrimonializzato: non un soggetto dotato di diritti – un soggetto di diritto perché dotato di diritti soggettivi – ma una forma di vita che isola un fascio di interessi che non sono né particolari né generali, ma che, insorgendo, spezzano la forma logica dell’individuale e comandano una tutela all’altezza della loro morfologia» (p. 124). Una volta schiodata dalla cornice metafisica in cui ci s’affretta solitamente a inquadrarla, e riposta sul piano tecnico del discorso giuridico, ecco allora che la sfida ecologica del diritto appare immanente a un sociale di cui l’antropologia ha mostrato in maniera convincente l’intrinseca consistenza più che umana. Più che un diritto che finalmente attribuisca personalità agli enti naturali, allora, ne serve uno capace d’intercettare un mettersi in forma del mondo sociale che non si lascia ridurre alla presa della polarità persona/cosa; riparando non tanto il peccato originale della “cosificazione” della natura, quanto piuttosto, casomai, quello della sua invenzione. Prima che – eventualmente – moralmente questionabili, persona e cosa – soggetto e oggetto, natura e cultura – debbono essere additate come partizioni premature e indebite di una realtà collettiva che solo in momenti rari ed eccezionali del suo continuo farsi produce forme che assomiglino alla purezza di uno o l’altro di quei due poli. Posta in questi termini la questione, la natura apparirà nella sua consistenza irriducibilmente pragmatico-animistica, svelandosi per ciò che essa è, in fondo, sempre stata: «l’evento che si produce ogni volta che il diritto decida di ripararla» (p. 124).