OPINIONI

“Né con gli Usa, né con l’Iran”: accanto ai cittadini iracheni

In Iraq da tre mesi ci sono proteste che rivendicano il cambio di un sistema politico che dal 2003 ha alimentato le divisioni su base confessionale. Tre mesi raccontati poco. L’attenzione internazionale è arrivata solo con l’uccisione del generale Sulaimani. Ora più che mai occorre sostenere chi si ribella

Quasi 500 morti e 20.000 feriti. Senza contare il numero di attivisti/e, avvocati, difensori per i diritti umani uccisi, minacciati e costretti alla fuga. Da parte delle forze di sicurezza e milizie.

È questo il bilancio delle manifestazioni pacifiche che dal 1 ottobre hanno attraversato tutto l’Iraq. Da Baghdad fino a Basra, passando per Najaf, Kerbala, Babel, Nasiriyah, Amara e Muthana. Tre mesi di proteste pacifiche da parte di cittadini che rivendicano diritti, giustizia sociale e il cambio di un sistema politico che dal 2003 ha alimentato le divisioni su base confessionale in Iraq. Tre mesi raccontati e documentati da pochi, pochissimi giornali, media e organi di informazione.

Foto di Arianna Pagani

Eppure questa mattina tutti, ma proprio tutti, hanno avvertito l’esigenza di scrivere e condividere la propria analisi, commento e pronostico sull’attacco statunitense che ha ucciso ieri notte a Baghdad il comandante dell’unità al Quds Qassem Sulaimani e Abu Mahdi al-Muhandis vice capo delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMU).

Da giornalista impegnata a raccontare la società civile irachena dal 2015, ci sono un paio di cose che reputo faziose, ingiuste e fallaci di tutta questa narrazione.

  1. La polarizzazione. Non ci sono buoni e cattivi nelle dinamiche di potere ma attori che giocano le proprie carte a seconda dei propri interessi. E in entrambi i Paesi ci sono attori che hanno interessi spregiudicati. Il generale Sulaimani non è un eroe, ha portato devastazione in Siria, Yemen e in Iraq. Era un leader in un corpo militare che sopprime regolarmente i manifestanti e le persone che chiedono diritti umani e giustizia sociale in Iran. Non posso tuttavia essere d’accordo con coloro che accolgono con favore la sua uccisione. Le tensioni aumenteranno nella regione, portando probabilmente a uno scontro più armato tra l’Iran e i suoi nemici. I movimenti rivoluzionari emersi in luoghi come il Libano e l’Iraq saranno coinvolti in questa dinamica.
  2. L’attacco statunitense è un atto di guerra inaccettabile che avrà delle conseguenze enormi sui civili e sul popolo iracheno. E qui entra il secondo punto che trovo inaccettabile. La narrazione geopolitica priva della “dimensione umana”. L’insopportabile narrazione della maggior parte di commentatori, analisti fatta di scontro/escalation/tensione/polarizzazione. Di bianco e nero. Dove le sfumature e le complessità vengono appiattite e cancellate. E qui cito Riccardo Cristiano che sapientemente scrive su Reset «Le piazze di Beirut e Baghdad contano molto di più di questo generale che sarà certamente sostituito da un altro, mentre quelle piazze sono insostituibili. Ma nel racconto del mondo spariscono».

Ecco, proprio in quelle piazze ci sono cittadini che rivendicano diritti e giustizia sociale, che non vogliono stare “nè gli Usa, né l’Iran” ma che si troveranno a pagare il prezzo di un’altra lotta di potere regionale e globale.

In quelle piazze ci sono giovani, giovanissimi iracheni, con il cellulare in una mano e nell’altra la bandiera nazionale. Sono laureati e disoccupati, delle classi popolari e della medio borghesia. Sunniti, sciiti, curdi e cristiani. Uniti, senza riferimenti politici e religiosi, intonano “La gente vuole abbattere il regime”, “Un altro Iraq è possibile” e “Vogliamo una patria”.

Foto di Arianna Pagani

In quelle piazze ci sono giovani come Huda, Salman e Ali, tre protagonisti del documentario che ho girato lo scorso novembre per il canale francese ARTE. Giovani, quasi trentenni, che chiedono un futuro migliore e che fanno parte di un movimento globale più ampio che – seppur con le dovute differenze – sta caratterizzando numerosi paesi (dal Cile a Honk Kong, passando per Algeria, Libano, Francia). Ciò che sta avvenendo in quelle piazze è più di una semplice rivolta.

È una lotta contro un sistema. Ecco allora che questa “narrazione geopolitica” non fa altro che offuscare i movimenti rivoluzionari in corso in paesi come l’Iraq o in Libano.  Come scrive il giornalista di Rai 1 Amedeo Ricucci: «Sia a Baghdad che a Beirut la rivolta delle piazza era riuscita a far cadere i due primi ministri, Abdel Madhi e Saad Hariri. Adesso è quasi scontato che i “regimi” si chiuderanno a riccio e aumenterà la repressione, giustificata dalla necessità di rafforzare l’unità nazionale contro gli attacchi alla sovranità».

Ora più che mai serve quindi il massimo sostegno alle ragazze e ai ragazzi di piazza Tahrir e ai giovani libanesi. Non è più tempo di fare il tifo da stadio per quella potenza o quell’attore. Qui, servirebbe una mobilitazione internazionale in sostegno del popolo iracheno e libanese.

Servirebbe una politica europea comune che tendesse la mano a queste persone in cerca di giustizia e libertà e non ai loro tiranni. E servirebbe soprattutto una narrazione che riporti al centro le persone. Una narrazione che racconti questi ragazzi e queste ragazze, che da più di tre mesi occupano la piazza, rivendicando diritti e giustizia sociale.

 

Sara Manisera è una giornalista indipendente che collabora per numerose testate nazionali e internazionali. Si occupa di donne, società civile e ambiente in Iraq, Siria e Libano.

Il suo ultimo documentario sull’Iraq:

 

Gli ultimi articoli sull’Iraq della giornalista

Tutte le immagini dall’Iraq sono di Arianna Pagani

 

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