cult

CULT

Mostri pieni di speranza

La storia dei Collettivi politici veneti raccontata dai suoi protagonisti. Il VI volume degli Autonomi ricostruisce, attraverso le voci di Piero e Giacomo Despali, il lungo Sessantotto italiano nel territorio – il Nord Est – che più di altri sarà investito dal mutamento produttivo e politico della Seconda Repubblica

Militante complessivo. Sembrerebbe, di primo acchito, quello «di professione» presentato da Lenin nel Che fare? Eppure, non è la stessa cosa. È un modo di essere del soggetto rivoluzionario nella transizione novecentesca, il salto d’epoca che dal fordismo, e dallo Stato keynesiano, procede verso la società del general intellect. Un militante comunista e combattente, certo, ma del tutto interno al proletariato giovanile, nella sua «grande trasformazione». Organizzatore rigoroso, è vero, ma desideroso di assaporare i Grundrisse di Marx o gli Illuministi. Agitatore davanti ai cancelli delle fabbriche, senz’altro, ma pure e soprattutto nelle piazze libere, ascoltando i Led Zeppelin e progettando un lungo viaggio. Un romano della specie in questione, scomparso troppo presto, per ritrarre fattezze e comportamenti della nuova figura produttiva, dell’intellettualità di massa, usò un’espressione avvincente: hopefulmonsters; in genetica, i mostri pieni di speranza che scandiscono i salti evolutivi. Sfugge ai più, ma la comparsa delle figure ormai fin troppo note del lavoro cognitivo – povero di salario, precario di contratto, ricco di competenze e capacità imprenditoriali – ha un precedente nel militante complessivo degli italici anni Settanta. Mostro pieno di speranza, appunto.

Il libro-intervista a cura di Mimmo Sersante, il VI volume DeriveApprodi dedicato alla storia dell’Autonomia Operaia, ha per protagonisti due militanti complessivi di Padova: due fratelli di origine dalmata, Piero e Giacomo Despali. La loro storia porta con sé e racconta quella dei Collettivi politici veneti, vicenda nata dopo lo scioglimento del gruppo Potere Operaio e conclusa dalla furia repressiva che ha inizio il 7 aprile del 1979. Il volume, composto anche da schede, interviste e documenti, diverte e appassiona chi i fratelli li conosce e li ha frequentati, ma sollecita anche i giovani che da non molto si sono buttati nella mischia. Il racconto è denso e impegnativo, intendiamoci. Eppure c’è ritmo: la forma del dialogo è quella giusta, perché senza polifonia non c’è storia di quegli anni; il ricordo delle gesta, giustamente orgoglioso, non sfugge alla lama dell’autocritica; il dettaglio biografico, che pure compare, è sempre agganciato ai sussulti dell’epoca.

Proviamo a individuare alcuni punti singolari, che orientano e muovono la lettura.

Il territorio. Un Mao non dogmatico insegna ai padovani che la spazio non è già dato, statico. È piuttosto dinamico, ha a che fare con la fabbrica che si fa società, con la produzione che diviene coestensiva alla riproduzione. Non stupisce, allora, che il territorio sia in primo luogo quello dei pendolari, la merce forza-lavoro, sia essa in formazione o già impiegata, che si muove e circola. Non è Mao, ma è Marx ovviamente, quello acuminato dell’operaismo dei “Quaderni rossi” e di “Classe operaia”, quello che ha il nome di Toni Negri e dell’Istituto di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Il gioco del go, però, indica che il territorio va strappato, occupato. È nel territorio che si fa la «base rossa», il contropotere, ovvero un dualismo di potere permanente, che non ambisce alla presa del Palazzo d’Inverno. È nel territorio che il nuovo soggetto proletario – scolarizzato, ostile alla fatica salariata, intraprendente – si compone e fa della sua esistenza, del suo desiderio di conoscenza, trama offensiva.

La muta. Il combattente non è un clandestino, e nemmeno un «tifoso». Ha sempre in mente l’adagio di Lukács – da Lenin sempre ispirato: «per lottare efficacemente contro la borghesia, occorre variare di continuo le armi legali e illegali e spesso utilizzarle contemporaneamente nelle stesse questioni». Non si tratta di eroi romantici, né di monaci della III Internazionale: meglio pensare ai lupi. Il massimo teorico della sovranità statale, ovvero Thomas Hobbes, definirebbe le mute di lupi «sistemi irregolari». Cosa intendeva il misantropo? Il federalismo contro lo Stato, l’uso collettivo della forza contro il Leviatano. Il mostro biblico, che fa il popolo contro la moltitudine, teme follemente la moltitudine contro il popolo. C’è dunque una lunga tradizione che precede e sollecita gli autonomi veneti, e non solo loro ovviamente (pensiamo a Roma, Milano, Bologna): quella che ritiene regola la seditio e legge il compromesso temporaneo; quella che stringe patti battagliando, ma respinge i contratti e il diritto privato.

Biblioteca. I primi saggi del materialismo, quello razionale e quello storico, Piero e Giacomo li trovano tra i libri degli Istituti tecnici frequentati. Si chiama mobilità sociale. La lotta operaia e il lungo Sessantotto italiano sono in primo luogo questo: «non farò la tua stessa sporca vita», lamentava Claudio Lolli. Rifiuto del lavoro è sì combattimento, ma perché è desiderio di conoscenza, di socialità altra. I fratelli Despali, ed è forse il movimento più bello del racconto, fanno delle loro letture le protagoniste della scena, al pari del picchetto e della mensa autogestita, degli scontri e delle assemblee del 1977. L’operaismo è la scoperta di un Marx sconosciuto, dal Pci e dalla sinistra manomesso e maltrattato. Ed è una chiave per mettere in scacco Francoforte e la sua Scuola. Ma ci sono anche George Jackson e Angela Davis. C’è il Settecento francese che prepara la rivoluzione borghese, c’è la Francia di Foucault e Deleuze. Il militante complessivo scopre mondi, preparando le sue armi.

Essendo una storia dei Collettivi politici, il racconto si ferma con la devastazione repressiva di Calogero e teoremi vari. È vero però che, se c’è un elemento davvero singolare dell’Autonomia veneta, questo è la sua continuità, la capacità di rilanciare l’innovazione politica con la stagione dei centri sociali, col «popolo di Seattle», col movimento dei Forum sociali. È vero pure che interruzione vi fu. Per la repressione, indubbiamente, ma per un problema più rilevante, che ancora ci affligge: quale il rovescio della fabbrica postfordista? Il movimento dell’Autonomia, che anticipa il salto d’epoca, viene dallo stesso superato. I mostri pieni di speranza si fanno recalcitranti alla forma partito, più in generale all’organizzazione, preferendo l’exit alla voice. Problema di ieri, nella transizione in corso; problema di oggi, con la transizione finita da un pezzo e il neoliberalismo, controrivoluzione permanente, che passa di crisi in crisi.

Nella foto 28/05/1975: scontri a Padova per impedire il comizio del presidente dell’Msi Covelli (via collettivipoliticiveneti)