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ITALIA

Molestie e discriminazioni di genere sul lavoro: quali strumenti giuridici?

In occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, le CLAP pubblicano un articolo degli avvocati Agnès Katia Giuliani e Alessandro Brunetti sugli strumenti del diritto del lavoro utili al contrasto delle discriminazioni, delle molestie e delle violenze di genere. Discriminazioni, molestie e violenze contro cui quotidianamente si battono, al nostro fianco e al fianco delle lavoratrici e dei lavoratori che alle CLAP si rivolgono

Sono molte le cose sul piano del diritto del lavoro che, già qui e ora, si possono fare per contrastare le molestie e le discriminazioni nel contesto lavorativo. Procedendo con ordine, è innanzitutto utile fare il punto sulla normativa antidiscriminatoria a oggi esistente e del relativo apparato sanzionatorio, anticipando sin da ora che si tratta di strumenti poco praticati e oggetto di continui tentativi di sabotaggio (sempre nelle prassi giuridiche che vedono coinvolti gli operatori del diritto), ma che vanno, a nostro avviso, nuovamente agiti a livello di massa per imporne una nuova ed efficace cogenza (nel mondo del diritto la reiterazione dell’azione apre spesso varchi evolutivi).

 

Scarica, stampa e diffondi il testo in PDF | Progettazione grafica e impaginazione di Vittorio Giannitelli

 

Prima di entrare nel merito dell’argomento, ci pare opportuno ribadire un principio che dovrebbe essere ovvio: eguaglianza non è il contrario di differenza, ma di disparità di trattamento. A tal proposito, Simone Veil, magistrato francese, donna, ebrea deportata ad Auschwitz, ha giustamente detto: “la mia rivendicazione in quanto donna, è che la mia differenza sia presa in considerazione, e che non sia invece costretta ad adattarmi al modello maschile”. Ecco questo semplicissimo concetto (forte delle esperienze di lotta delle donne) deve essere il corretto presupposto per garantire una nuova effettività al principio di eguaglianza sostanziale che deve essere imposto – anche e soprattutto con il conflitto – nei luoghi di lavoro.

 

Il lavoro delle donne, il principio di eguaglianza e la parità di trattamento nella Costituzione

Nella nostra Costituzione vi è un vero e proprio diritto soggettivo della lavoratrice alla parità di trattamento da parte del datore di lavoro, il quale è obbligato alla non discriminazione per sesso e al quale, quindi, è vietato porre in essere condizioni di lavoro e di retribuzione inferiori rispetto al trattamento della generalità dei lavoratori.

Le norme costituzionali, che qui ci interessano particolarmente, sono gli artt. 37 e 3 Cost. L’art. 37 Cost. sancisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

L’art. 3, al comma 1, detta il c.d. principio di eguaglianza formale secondo cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge; il successivo comma 2 detta quello di eguaglianza sostanziale che implica la doverosità dell’intervento dello Stato che, tenendo conto della diseguaglianza di fatto delle condizioni delle lavoratrici, soprattutto se madri, deve tendere alla rimozione degli ostacoli che favoriscono la discriminazione di genere. [Andrebbe certamente problematizzata, nonché criticata, l’identificazione del ruolo sociale delle donne con la funzione familiare, ma non è questo il luogo].

 

Dalla Costituzione ad alcune leggi storicamente poste a tutela delle donne

Dalle norme costituzionali appena richiamate sono scaturite alcune leggi storicamente importanti di tutela delle donne. Fino al 1977, la lavoratrice era legislativamente tutelata solo in occasione della maternità e del matrimonio. Nel corso degli anni il tema della parità di genere è emerso come uno degli argomenti centrali nelle questioni dell’Unione Europea, che è intervenuta con normative e direttive comunitarie a seguito delle quali anche la normativa italiana è cambiata. La svolta è avvenuta solo nel 1977, con la L. n. 903/77 ulteriormente rafforzata con la L. 125/1991 (ora trasfusa nel D.lgs 198/2006, Codice delle pari opportunità), che riconosce espressamente il principio di “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, come meglio vedremo in seguito.

Ricordiamo ora brevemente: la legge 7/1963 stabilisce la nullità dei licenziamenti intimati per causa di matrimonio nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione; tale presunzione è stata applicata anche alle dimissioni rassegnate dalla lavoratrice nello stesso periodo, a meno che le stesse non vengano ratificate avanti alla DTL (Direzione territoriale del lavoro). con riguardo alle lavoratrici madri, si rileva che la materia è stata risistemata principalmente dal Lgs n. 151/2001, T. U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità. Anche qui il licenziamento intimato nel periodo intercorrente dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino è nullo.

Non solo. Il licenziamento in ragione della gravidanza e/o della nascita di un figlio è sempre discriminatorio qualunque sia il momento in cui la decisione di licenziamento viene comunicata e, dunque, anche se il licenziamento è intimato dopo la scadenza del periodo di tutela e ciò perché è contrario alle direttive comunitarie in materia di parità di trattamento tra uomini e donne (Direttiva 76/207/Ce).

In tale ipotesi, la Corte di giustizia ritiene che la misura sanzionatoria scelta dallo Stato membro, deve garantire una tutela giurisdizionale efficace e avere per il datore di lavoro un effetto dissuasivo reale e deve essere almeno equivalente a quella prevista dal diritto nazionale per il licenziamento per gravidanza posto in essere all’interno del periodo di tutela, e ciò in esecuzione degli artt. 10 e 12 della Direttiva 92/85/Ce (Corte di Giustizia CE 11/10/2007 causa C-460/06, Pres. A. Rosas Rel. A.O Caoimh, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso, 81). Pertanto, il licenziamento discriminatorio viene considerato illecito ex art. 1345 c.c., quindi, nullo con la conseguente riammissione in servizio della lavoratrice nel posto di lavoro e il pagamento delle retribuzioni dal licenziamento all’effettiva riammissione in servizio, e ciò a prescindere dalle dimensioni del datore di lavoro (e anche in vigore il Jobs Act).

 

Dal divieto di licenziamento per matrimonio o maternità sono escluse le lavoratrici domestiche, in quanto ciò implicherebbe conseguenze troppo gravose per il datore di lavoro, in questo caso un nucleo familiare.

 

La legge n. 903 del 1977 era dedicata alla “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro” ma si limitava ad una eguaglianza meramente formale.
Con la 125/1991 – modificata da vari D. Lgs (D. Lgs 196/2000 e dal D. Lgs. 145/2005, in attuazione della Direttiva n. 2002/73/CE), ed ora trasfusa nel D. Lgs. 198/2006, Codice delle pari opportunità – il legislatore è finalmente partito dal corretto presupposto della necessità di garantire una eguaglianza sostanziale attraverso iniziative concrete, ossia le cosiddette azioni positive.

La legge dispone espressamente il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda sia l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, sia tutti gli altri aspetti del rapporto di lavoro e ciò a tutti i livelli della gerarchia professionale. Deroghe alla tutela antidiscriminatoria sono state previste in caso di assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, nelle quali ovviamente legare l’assunzione all’appartenenza all’uno o all’altro sesso non costituisce discriminazione, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro e della prestazione.

La legge non indica, neppure in via esemplificativa, quali azioni positive possano essere adottate, ma si limita a ribadirne la legittimità e a promuoverle. Invece, sono individuati i soggetti che possono rendersi promotori delle stesse. Tra costoro vi sono sia soggetti istituzionali (come il Comitato nazionale e le consigliere e i consiglieri di parità), sia soggetti privati (come sindacati e datori di lavoro). Un breve cenno sulle Consigliere di parità, soggetto presente a livello nazionale, regionale e provinciale. Tale figura svolge (o dovrebbe svolgere) una funzione di promozione e controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza tra donne e uomini. Nell’esercizio di tali funzioni, essi sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di segnalazione all’Autorità Giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza.

A dire il vero le azioni positive rimangono purtroppo confinate nel circuito del finanziamento pubblico (circuito pur sempre piccolo e soprattutto segnato dalla logica della sovvenzione). Inoltre, la mancata predisposizione di strumenti e mezzi adeguati rendono molto difficile attuare la legge 125: ad esempio per ottenere un’ispezione a opera degli ispettori della Direzione Territoriale del Lavoro nelle aziende ove risulta segnalata una discriminazione di genere, i tempi sono talmente lunghi che spesso l’ispezione stessa diviene inutile. Insomma, è difficile sostenere che la l. 125 abbia avuto un successo reale, e abbia rappresentato nei fatti un concreto avanzamento.

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Ciò premesso, analizziamo ora la nozione di discriminazione, per poi passare alle molestie di genere e sessuali, all’apparato sanzionatorio, all’onere della prova, e infine concludere con una breve rassegna della recente giurisprudenza in materia.

La nozione di discriminazione diretta ed indiretta

La Corte di Giustizia, con la sua preziosa opera di supplenza nei confronti del legislatore sia comunitario che nazionale, ha permesso di ricondurre alla violazione del principio di parità ogni forma di discriminazione indiretta.

A dire il vero una recentissima sentenza della Corte di Giustizia del 22.02.2018, causa C 103/2016, ha sorpreso un po’ tutti ritenendo lecito licenziare, nell’ambito di un licenziamento collettivo avviato in Spagna, una lavoratrice in gravidanza. La Corte ha dichiarato non sussistere discriminazione in quanto il licenziamento collettivo è fondato su motivi non connessi allo stato di gravidanza; ha tuttavia precisato che ciascuno Stato membro resta libero di prevedere forme di tutela più forti. In Italia fortunatamente ciò è vietato a meno che non vi sia una chiusura dell’intera azienda.

Ritornando alla definizione di discriminazione indiretta, le direttive nn. 97/80/CE e 73/2002/CE hanno specificato che questa si verifica quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto, un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere le lavoratrici/i lavoratori di un determinato genere in una posizione di particolare svantaggio. Nel nostro ordinamento, tale definizione è stata recepita nella l. 125/1991 (ora trasfusa nel D. Lgs. n. 198/2006).

Vediamo ora in cosa consistono questi criteri “apparentemente neutri”. La giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria, ha considerato tali, ad esempio: l’adattabilità a orari e luoghi di lavoro variabili (in ragione delle responsabilità familiari che ancora gravano sulle donne), l’anzianità di servizio (in genere le donne hanno una minore anzianità di servizio interrompendo l’attività lavorativa per ragioni familiari), la statura, l’assunzione a termine, ecc.

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Le molestie di genere e le molestie sessuali

Le molestie di genere e sessuali nei luoghi di lavoro sono considerate vere e proprie discriminazioni. In realtà, questa equiparazione delle molestie alla discriminazione deriva direttamente dalle direttive europee del 2000 e del 2002 (in particolare dalle Direttive n. 43 e 78/2000 e 73/2002).

In questo caso, non viene tutelata una parità violata, ma la libertà e dignità della persona offesa. Per molestie di genere si intendono i comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (art. 26 Codice pari opportunità).

Per molestie sessuali si intende ogni “comportamento indesiderato a connotazione sessuale espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Ciò che distingue la molestia sessuale da una molestia è dunque la “connotazione sessuale” del comportamento subito.

In entrambe le definizioni, vi è una nozione “soggettiva” (volta a perseguire il comportamento “avente lo scopo di” ledere la dignità della persona), ma anche una “oggettiva” in quanto la fattispecie molestia si può configurare anche quando non sia ravvisabile una intenzionalità dell’autore, e in ogni ipotesi di comportamento “indesiderato”. Con riferimento alle molestie sessuali, prima della definizione delle stesse come discriminazione di genere, la giurisprudenza italiana aveva già approntato una tutela nei confronti di quei comportamenti molesti a connotazione sessuale (come gli apprezzamenti allusivi, le battute a sfondo sessuale, gli inviti a cena tendenziosi, le telefonate continue con costanti ricadute sul piano sessuale, l’approccio tramite un bacio, ecc.) avvenuti nel luogo di lavoro, collegandoli alla violazione dell’art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro, norma cardine attraverso la quale agire la tutela giurisdizionale di tipo civilistico contro le molestie sessuali.

Ricordiamo come ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure, anche di natura disciplinare e organizzativa, necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori/delle lavoratrici. Da ciò deriva una precisa responsabilità con conseguente diritto per la parte lesa al risarcimento del danno non patrimoniale (c.d. danno esistenziale, danno alla dignità e alla libertà sessuale della persona offesa, danno biologico, ecc.). Ora, ai sensi della L. 125/1991 (ora D. Lgs. 198/2006), gli atti, i patti e qualsivoglia provvedimento inerente il rapporto di lavoro avente carattere di molestia sessuale sono nulli perché determinati da motivo illecito determinante.

 

L’ART. 2087 c.c., la lavoratrice molestata e l’onere della prova

Secondo la nuova nozione unitaria per il danno non patrimoniale (Sez. Un. n. 26972/08), la risarcibilità in ipotesi tipiche previste dalla legge va riferita al principio della tutela minima spettante ai diritti costituzionalmente tutelati nei casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di situazioni inviolabili della persona. In particolare, quanto al contratto di lavoro, l’art. 2087 c.c. inserisce nell’area del rapporto interessi non suscettibili di valutazione economica (integrità fisica e personalità morale) già implicando che, qualora l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale, considerata altresì la tutela di tali interessi della persona da parte della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili.

Ne discende quindi l’astratta risarcibilità del danno non patrimoniale rivendicato dalla lavoratrice dal momento che le discriminazioni per motivi di sesso realizzate dal datore di lavoro sono previste espressamente a tal fine dalla legge (art. 37 e 38 D. Lg.vo 198/06, art. 2087 cc). Quanto al riparto in concreto degli oneri di allegazione e prova a carico della lavoratrice, si evidenzia come si tratta sempre di prova presuntiva del danno non patrimoniale, e quindi di una prova che può essere fornita anche attraverso circostanze di senso comune.

In concreto, i fatti costitutivi delle lesioni a diritti della persona possono essere dedotti con riferimento al fatto che le molestie o il licenziamento discriminatorio producono un ovvio e notorio disagio fisico e psichico, dando luogo non solo a lesioni interiori e biologiche ma anche ad alterazioni della vita di relazione conseguenti inevitabilmente alla perdita dell’occupazione. Tali danni possono essere ulteriormente quantificabili per il tramite di una consulenza tecnica di ufficio.

Le discriminazioni di genere sono materia di diritto dell’Unione (da ultimo con la direttiva 2006/54, ricognitiva delle precedenti fonti comunitarie).

Ne discende l’obbligo del giudice nazionale di interpretare la normativa interna (artt. 37 e 38 del D.Lvo 198/2006), tra le diverse opzioni consentite, nel senso conforme al testo e agli obiettivi delle direttive (v. già Corte giust., 10 aprile 1984, causa c-14/83,Van Colson e Kamann; più recentemente, tra le altre, Corte giust., 13 novembre 1990, causa c-106/89, Marleasing, 15 maggio 2003, causa c-160/01, Mau, e 4 luglio 2006, causa c-212/04, Adeneler). Altrimenti, il giudice nazionale se constatasse l’impossibilità di pervenire a una soluzione ermeneutica conforme alle stesse direttive, sarebbe tenuto a non applicare la disposizione interna difforme, per dare integrale attuazione all’ordinamento europeo e proteggere i diritti che questo attribuisce ai singoli (Corte giust., 2 maggio 2003, causa c-462/99, Connect Austria Gesellschaft für Telekommunikation).

Ora, l’art. 18 della direttiva 2006/54 CE obbliga gli Stati membri a introdurre nei rispettivi ordinamenti nazionali le misure necessarie per garantire, per il danno subito da una persona lesa a causa di una discriminazione fondata sul sesso, “un indennizzo o una riparazione reali ed effettivi, da essi stessi stabiliti in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito. Tale indennizzo o riparazione non può avere un massimale stabilito a priori, fatti salvi i casi in cui il datore di lavoro può dimostrare che l’unico danno subito dall’aspirante a seguito di una discriminazione ai sensi della presente direttiva è costituito dal rifiuto di prendere in considerazione la sua domanda”.

La fonte sovranazionale quindi attribuisce al risarcimento del danno connotati necessari di effettività rapportati, non solo alla gravità del danno, ma anche alla funzione dissuasiva e sanzionatoria della qualificata riparazione. È inevitabile che una tale qualificazione del risarcimento del danno incida sui criteri di quantificazione obbligatori per il giudice nazionale, nel senso che provata l’esistenza del danno risarcibile ne deve seguire una determinazione in una misura idonea a soddisfare la funzione ripristinatoria e, nel contempo, dissuasiva.

Tali coordinate ermeneutiche non possono che condurre alla richiesta di “condanne” idonee a essere dissuasive. Dunque non irrisorie e con una funzione realmente deterrente al riprodursi dei fenomeni di discriminazione o violenza di genere.

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L’apparato sanzionatorio e l’onere della prova in materia di discriminazione di genere

Dalla violazione del divieto di discriminazione di genere deriva la sanzione della NULLITÀ dell’atto discriminatorio (L. 903/77, art. 15 Statuto Lav.). Ad esempio, nel caso di nullità del licenziamento discriminatorio, la parte lesa ha diritto di essere riammessa in servizio con il pagamento di tutte le retribuzioni dal licenziamento sino alla effettiva riammissione, e ciò a prescindere dalla dimensione del datore di lavoro e dalla categoria di appartenenza (essendo applicabile anche ai dirigenti) e anche a seguito dell’entrata in vigore del Jobs Act (L. 92/2012).

Con riferimento alle sanzioni di tipo amministrativo e penale nei confronti del datore di lavoro, il D. Lgs 198/2006 prevede che ogni accertamento di atto discriminatorio posti in essere da soggetti ai quali siano stati accordati benefici ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiamo stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, comporti, se necessario, la revoca del beneficio, e nei casi più gravi o nel caso di recidiva, l’esclusione del responsabile per un periodo di due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi appalto. La medesima norma prevede, inoltre, la sanzione dell’ammenda da 103 euro a 516 euro [sic!].

A livello processuale, è interessante notare come già l’art. 15 della l. 903/77, ora art. 38 D. Lgs. 198/2006, prevedeva una procedura d’urgenza strutturalmente analoga all’art. 28 Statuto Lav. (ricorso d’urgenza contro la condotta antisindacale). La procedura d’urgenza è azionabile con ricorso del singolo lavoratore, oppure su delega delle organizzazioni sindacali o del consigliere di parità, avanti il Tribunale del Lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunciato. Il Giudice, qualora ritenga sussistente la violazione delle norme antidiscriminatorie, ordina la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti, oltre, se richiesto, la condanna al risarcimento del danno anche non patrimoniale. Ovviamente, la parte ricorrente può altresì ricorrere con ricorso ordinario sempre avanti il Tribunale del Lavoro.

In merito all’onere della prova, si osserva come la prova presuntiva sia espressamente prevista dalla legge (L 125/1991, ora D. Lgs. 198/2006). E infatti, quando la parte ricorrente fornisce elementi di fatto – desunti da dati statistici relativi alle assunzioni, retribuzioni, assegnazione di mansioni e qualifica, licenziamento – idonei a fondare la presunzione della sussistenza della discriminazione di genere, spetta al convenuto l’onere della prova sulla insussistenza della stessa.

E infatti, come abbiamo visto, la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno (quali l’art. 4 della l. n. 604 del 1966, l’art. 15 st.lav. e l’art. 3 della l. n. 108 del 1990), nonché di diritto europeo (quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE), sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico” (Cass. Sez. Lav, sentenza n. 6575 del 05/04/2016).

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La giurisprudenza in materia di discriminazione di genere

La Corte di Appello di Torino con sentenza n. 937/2017 pubblicata il 10.01.2018 ha ritenuto discriminatorio il comportamento aziendale (peraltro avallato da accordi sindacali) che non computava nel calcolo del premio di risultato (basato sulla presenza in servizio dei dipendenti) le assenze delle dipendenti donne a causa di maternità obbligatoria, congedo parentale e malattia dei figli. La sentenza è la prima che si pronunzia in tal senso soprattutto per quanto concerne le assenze per malattia dei figli, assenze astrattamente “neutre” in quanto virtualmente attribuibili sia alle madri che ai padri. La difesa ha però dimostrato che le madri fruivano di tali permessi in misura 8 volte superiore ai colleghi maschi (cfr. altresì Tribunale di Torino, sentenza del 26 ottobre 2016).
La Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 667/2017 del 25.09.2017 ha ritenuto discriminata la ricorrente dirigente sotto vari profili:

sotto il profilo retributivo significativamente inferiore rispetto agli altri dirigenti e addirittura ad alcuni quadri e impiegati, tutti uomini; l’assunzione mediante contratto a termine, anziché immediatamente a tempo indeterminato, a differenza dei dirigenti uomini; la pattuizione, in sede di assunzione, di un premio ad personam inferiore a quello pattuito con i dirigenti uomini; eliminazione dell’incentivo senza preventiva contrattazione individuale, a differenza di quanto era accaduto per gli altri dirigenti, tutti uomini; anche il licenziamento è stato dichiarato discriminatorio in quanto l’esistenza di uno stato di crisi non ha spiegato in alcun modo per qual motivo, sia stata licenziata proprio l’unica dirigente donna.

Il Tribunale di Ferrara, con decreto (ex art. 38 D. Lgs. 198/2006) del 11.09.2017 ha dichiarato discriminatoria la modifica organizzativa del lavoro posta in essere dal datore, al rientro dalla maternità della dipendente, in quanto aveva comportato per la stessa una situazione di particolare svantaggio in un momento particolarmente delicato determinato appunto dalla ripresa lavorativa dopo un lungo periodo di assenza determinata da due gravidanze e dalla maternità; La unilaterale determinazione del datore di lavoro di modificare l’articolazione dell’orario della lavoratrice al suo rientro dalla maternità, richiedendole di lavorare su turni dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 9, dalle 15 alle 16 e dalle 17 alle 20, risulta, non solo obiettivamente idonea a pregiudicare l’adempimento dei doveri parentali della lavoratrice, così da indurla ragionevolmente a recedere lei stessa dal rapporto di lavoro (Tribunale di Pisa, sentenza del 17 luglio 2013). Il trasferimento della lavoratrice al rientro dalla maternità – a fronte di altre opzioni astrattamente praticabili per far fronte alle stesse esigenze produttive affermate dall’azienda – è da ritenersi discriminatorio in quanto sicuramente più gravoso per la lavoratrice (Corte d’Appello Torino 19.2.2013).

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Insomma, il diritto (l’insieme di norme che già esistono) consente di esercitare alcune controffensive idonee a contribuire al contrasto della violenza di genere. Tali controffensive, con le lotte delle donne, delle lavoratrici, dei lavoratori, dovranno e potranno produrre ulteriori, efficaci e maggiormente cogenti strumenti volti a combattere le sperequazioni, le discriminazioni e gli abusi che si danno nel mondo del lavoro. Una maggiore conoscenza (ed esercizio) dei diritti si impone, allora, come un primo, essenziale, benché parziale, passo in questa direzione.

 

Pubblicato sul sito di CLAP – Camere del lavoro autonomo e precario. Foto di copertina: Clap