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ITALIA

Il mito del senzatetto “volontario”

Si moltiplicano i casi di intolleranza istituzionale e di strette repressive delle amministrazioni comunali nei confronti dei clochard. Dietro di queste, la figura del senzatetto “volontario”. Eppure alcune ricerche etnografiche mostrano una realtà ben più complessa

Ricorderete le vicende che qualche settimana fa hanno coinvolto il vice-sindaco di Trieste e un cosiddetto clochard straniero: il primo pubblicò su facebook un post in cui si compiaceva di aver contribuito alla difesa del decoro urbano gettando nell’immondizia le coperte e i vestiti del secondo.

Non è tuttavia del post che vogliamo parlare, che ci è sembrato – questo però va detto – una trovata propagandistica atta ad alimentare quei sentimenti di astio, paura e aggressività che influenzano attualmente le scelte dell’elettorato. È senza dubbio scioccante che un rappresentante delle istituzioni non solo agisca in questo modo, ma se ne vanti anche pubblicamente con parole che, a orecchie maliziose, potrebbero sembrare velati dileggiamenti e prudenti allusioni aporofobiche. Tuttavia, la ferma condanna di quanto è accaduto non deve impedirci di comprenderne il legame con il senso di frustrazione di una parte della popolazione, che percepisce la presenza dei senzatetto come una perturbazione, se non una minaccia, al proprio modo di vivere lo spazio pubblico.

Ora, questo articolo non vuole negare che la convivenza tra gruppi con necessità e desideri diversi (e spesso contrastanti) generi problemi complessi; al contrario, è proprio perché ne riconosciamo urgenza e gravità che riteniamo necessario affrontarli in modo razionale. Il che significa elaborare soluzioni condivise tra i diversi attori a partire da una conoscenza approfondita della realtà, che prenda in considerazione le ragioni di tutti; e non imporre dei falsi compromessi che, radicandosi in una rappresentazione stereotipata e distorta della vita dei clochard, aggravano i problemi al posto di risolverli.

In particolare, lo scopo di questo articolo è contribuire a smontare alcune di esse, a partire da quella su cui il Vice Sindaco Polidori ha costruito l’apologia delle proprie azioni: la figura del senza-tetto “volontario” che, per follia o malizia, decide espressamente di restare per strada.

Non si tratta semplicemente di una delle tante boutades che caratterizzano la comunicazione politica odierna, una trovata propagandistica pescata nei romanzi o film d’avventura (come dimenticare, ad esempio, il bellissimo film “I Picari” del maestro Monicelli?): odiosa, certo, ma destinata a lasciare il tempo che trova… In realtà è un concetto che riappare costantemente quando si parla di senzatetto: infatti lo incontriamo poco tempo dopo, in forma meno esplicita ma ben più operativa, dietro alla proposta del comune di Roma di includere nel “piano freddo” il ricovero coatto dei senza-tetto.

La banalità con cui questo presupposto viene utilizzato, non solo per giustificare gli atti di un individuo, ma anche per approntare delle politiche pubbliche, dimostra che i singoli casi sono epifenomeni di una questione strutturale, che se non viene riconosciuta e trattata in quanto tale, non potrà mai essere risolta.

Vogliamo allora cogliere l’occasione per condividere qualche dato e analisi di carattere generale che aiuti a comprendere cosa significhi nel concreto “scegliere” quando si vive per strada. Infatti, spesso i concetti che il senso comune ci dà come immediatamente accessibili, semplificano e distorcono una realtà più complessa e opaca. Il materiale proviene da tre inchieste etnografiche che abbiamo effettuato tra 2012 e 2017 sulle condizioni di vita dei senzatetto in una grande città europea affacciata sul mediterraneo.

Per prima cosa è importante comprendere che le ragioni che portano a cercare/rifiutare il ricorso in una struttura “protetta” o “di accoglienza” possono essere molteplici, diverse (e perfino contraddittorie) a seconda della struttura, della persona, della zona geografica, etc…

Tuttavia alcuni elementi che concorrono nella determinazione di questa scelta sono ricorrenti e dalla loro comprensione dipende la possibilità di cogliere la razionalità che vi sta dietro: i cosiddetti “barboni” non sono solo dei “pazzi” a cui manca la capacità cognitiva di prendere le “giuste decisioni”; né dei finti poveri che si arricchiscono stuzzicando i sentimenti di pietà degli ingenui e dei cosiddetti “buonisti”. Nemmeno commentiamo, a questo proposito, l’affermazione del Vice Sindaco che, nel corso dell’intervista rilasciata a un noto programma radiofonico, insinuava guadagni fino ai 1800 euro al mese: del resto, se qualcuno pensa veramente che una persona decida di vivere al freddo sotto i portici esclusivamente in virtù di un guadagno economico, nulla di quanto possiamo scrivere potrebbe convincerlo del contrario.

È necessario capire che, per un senzatetto, la “libera scelta” si configura come un calcolo rischio-beneficio tra diverse variabili, organizzate secondo un ordine di priorità finalizzato alla sopravvivenza quotidiana. Essa è allora comprensibile solo in relazione al contesto in cui le decisioni sono prese, in quanto questo definisce il campo delle possibilità di azione dell’individuo. Ad esempio, perché rifiutare un ricovero per la notte? Normalmente ci rappresentiamo il problema in modo fuorviante, appunto perché non ne analizziamo compiutamente i termini: sappiamo che rimanere per strada significa esporsi alle intemperie, al rischio di furti e violenze… La domanda che dovremmo porci, dunque, non è semplicemente “perché rimanere per strada?”, ma cosa, all’interno delle strutture protette, renda preferibile tale opzione.

È importante, innanzitutto, uscire da una visione essenzialista dei senzatetto: benché tutti condividano una situazione di deprivazione materiale, non rappresentano una categoria omogenea. Ognuno si trova in condizioni fisiche, sociali, mentali e affettive diverse (e spesso inconciliabili con quelle altrui), l’unico denominatore comune è una generica situazione di sofferenza: padri divorziati, immigrati senza permesso di soggiorno, donne vittime di violenza, latitanti, malati cronici, ex carcerati, itineranti, ex militari, persino ex-poliziotti etc. Questo significa che le strutture di accoglienza, specialmente quelle di grandi dimensioni, accolgono individui che provengono da percorsi di vita lontani tra loro. Questa promiscuità tra persone così diverse, sotto stress e in situazione di deprivazione materiale e di miseria affettiva, favorisce lo scatenarsi di episodi di violenza, verbale e fisica; inoltre, crea le condizioni per l’instaurarsi di dinamiche di sopraffazione e sottrazione di beni personali da parte dei più forti a discapito dei più deboli (ove per più debole si intende colui che presenta delle caratteristiche ulteriormente emarginanti: lingua, malattia, ignoranza delle regole informali, etc.).

Aggiungiamo che le medesime condizioni di promiscuità e sovraffollamento rendono estremamente complicato il mantenimento di condizioni igieniche accettabili: docce e sanitari utilizzati da decine di persone ogni giorno, letti maleodoranti, parassiti etc. Non solo tali circostanze trasformano attività quali dormire, lavarsi, riposare e mangiare in espletamento meccanico di necessità biologiche, sottraendovi ogni traccia di piacere e scelta personale; ma li trasformano in momenti di reale rischio sanitario: dalle malattie infettive (pidocchi, scabbia, tubercolosi) a quelle legate allo stress (emicranie, eczemi, etc.), questi centri possono essere estremamente patogeni. Allora si capisce meglio perché, nonostante i disagi, alcune persone si sentano (e a volte siano) più al sicuro sulla via pubblica: già alla luce di ciò, la scelta di non dormire in queste strutture appare molto meno insensata.

Un altro elemento suscettibile di influenzare la “scelta” di dormire o meno in un ricovero è la sua compatibilità con il resto delle pratiche di sopravvivenza della persona. Da questo punto di vista, le condizioni di accesso a un servizio, dai suoi orari alle norme di comportamento, non sono solo una privazione della propria autonomia (che, da un punto di vista simbolico, è una dei pochi elementi che, insieme a quello del piacere, permettono alla persona di riconoscersi come un essere umano); ma possono diventare dei veri e propri impedimenti oggettivi. Il luogo in cui le persone senza-tetto decidono di passare la giornata, solitamente non è casuale, ma scelto in base ai vantaggi che fornisce: presenza di bagni pubblici, luoghi di passaggio per l’elemosina, relazioni sociali, etc. Allora, la lontananza del centro di accoglienza dal luogo prescelto può essere problematica, soprattutto se il primo ha orari d’accesso costrittivi e/o la persona non ha modo di accedere ai mezzi pubblici.

A questo proposito, vale la pena accennare anche alle condizioni psicologiche, emotive ed affettive che possono concorrere in vari modi alla “scelta” di vivere per strada. Ad esempio, come accennato sopra, alcuni sono riusciti a costruirsi una nicchia di socialità, che rimane però completamente ancorata alla loro permanenza in un luogo specifico e si struttura di relazioni con altri senzatetto, commercianti della zona, passanti abituali.  Si tratta per lo più di interazioni “deboli”, che nascono e si mantengono in virtù delle occasioni che il luogo presenta, piccole gentilezze o veri e propri escamotage, come ad esempio: un barista che offre la colazione, un negoziante che permette l’uso del bagno, un edicolante che chiede aiuto per lo scarico dei giornali, etc. Magari anche solo un sorriso o un saluto distratto da parte di un passante abituale, tutti gesti apparentemente anodini che però finiscono per abituare due persone l’una all’altra. Si tratta di legami fragili ma importanti, in quanto la socialità è un’altra caratteristica profondamente umana la cui precarietà si aggrava in tale condizione di vita. Allora, è anche per proteggere tali legami che l’individuo può preferire rimanere nella zona della loro forza gravitazionale e non rischiare, per esempio, di arrivare un mattino e trovare qualcun altro a occupare il suo posto… Con che legittimità potrebbe, allora, difendere il “suo” interstizio nel mondo? Un posto “rosicchiato” alla società, che ha potuto occupare solo perché vuoto al momento del suo arrivo, proprio come l’ha trovato l’eventuale “concorrente”: che magari è più forte, più giovane, più aggressivo, con meno da perdere … Il rischio dell’escalation violenta diventa concreto e, spesso, ingestibile.

Un’altra possibilità, sempre in questo ambito, è che una persona trovi insopportabile la promiscuità imposta dal vivere collettivo (soprattutto nelle condizioni che abbiamo descritto) o che, addirittura, non sia in condizioni psicologiche per gestirla. Senza contare che il fatto di rendersi in strutture di accoglienza specificatamente per senzatetto può avere un forte valore simbolico negativo, in quanto “ufficializza” l’appartenenza ad una categoria socialmente disprezzata: allora, il rifiuto di rendervisi, concretizza il rifiuto di cedere allo sconforto. È una speranza di riscatto, rappresenta il segno e il simbolo del non accettare la propria sorte: di non esser, per l’appunto, “un barbone volontario”.

Un altro esempio su cui vale la pena spendere due parole, perché rimanda ad una questione estremamente complessa, è il divieto di consumare bevande alcoliche all’interno di queste strutture. Le ragioni di tale divieto sono facilmente comprensibili, soprattutto rispetto alle condizioni attuali in cui viene fornito questo tipo di assistenza. Tuttavia, un’analisi approfondita di tale approccio rivela l’orientamento moralizzatore e, in definitiva, paternalistico, che caratterizza sia il modo di rapportarsi alle dipendenze che la relazione delle classi dominanti nei confronti di quelle subalterne.

Innanzitutto, coloro che hanno una dipendenza non possono stare in astinenza per tutte le ore di permanenza nel centro, salvo incorrere in gravi crisi che, nei casi peggiori, possono portare a episodi di epilessia e perfino alla morte. La disintossicazione potrebbe sembrare la soluzione migliore, e certamente in alcuni casi lo è… Tuttavia, pensare che con la sola forza di volontà e il supporto di strutture adatte sia possibile smettere di bere, rileva ancora una volta di una semplificazione fuorviante che non tiene conto del contesto.

Per prima cosa abbandonare una dipendenza richiede delle risorse considerevoli, soprattutto dopo la disintossicazione fisica, quando la vita va ripresa e gestita in assenza della sostanza ma nello stesso contesto. Di conseguenza il tasso di ricaduta delle persone che vivono per strada è molto alto; e i fallimenti ripetuti portano una persona a perdere fiducia in sé stessa e nelle proprie possibilità. Si impara a non provarci nemmeno più.

In secondo luogo, bere alcool, come fumare o assumere altre sostanze psicoattive, rappresenta in un certo senso una “tattica di sopravvivenza”: permette non solo di percepire meno il freddo, la fame e la fatica; ma anche di riempire il tempo e, soprattutto, di anestetizzare lo spirito qualora il percorso di vita e/o il peso dell’emarginazione diventino insostenibili (ad esempio, per farsi coraggio e chiedere l’elemosina). Certo, si tratta di una tattica che contribuisce al circolo vizioso di degradazione delle stesse condizioni di vita che lo rendono necessario, ma è importante riconoscerla come tale per comprendere la difficoltà di abbandonarla in assenza di un’alternativa altrettanto efficace nel breve termine.

Infine, spesso la pericolosità e i problemi comportamentali non sorgono tanto dal consumo di alcool in sé, quanto dalle modalità di assunzione: per allontanare il più a lungo possibile l’insorgere della crisi di astinenza, taluni ingurgitano grandi quantità di alcool prima di entrare nel centro, presentandosi così all’ingresso in condizioni ben peggiori di quelle che avrebbero raggiunto se avessero potuto ripartire la propria consumazione nell’arco della nottata. Questo rende la loro accettazione problematica in quanto, in un tale stato alterato di coscienza, possono rappresentare un rischio per gli altri ospiti e per il personale. Emerge l’incompatibilità della norma con le condizioni reali di vita di una parte importante di senzatetto, a cui viene chiesto di scegliere per cosa stare male: per il freddo o per la crisi di astinenza? Se a questo aggiungiamo quanto detto prima sulle condizioni igieniche e sociali dei centri, la scelta è presto fatta, anche perché l’unica soluzione praticabile per “salvare capra e cavoli”, come abbiamo visto, rischia di farli espellere.

Per tutte queste ragioni, il divieto di bere alcolici porta alcune persone a non ricorrere alle strutture di accoglienza e/o ad affondare sempre di più nella dipendenza: il circolo vizioso che si instaura diviene così sempre più difficile da spezzare.

Alla luce di tale complessità, il carattere volontario del vivere e dormire per strada appare sotto un’altra luce: una scelta, è vero, ma compiuta tra un ventaglio di possibilità limitato dalla scarsità delle risorse mobilizzabili da un individuo. È quindi una scelta per il male minore: la vita dei senzatetto fuori dai centri di accoglienza è ben lontana dall’essere “una pacchia”, per usare una sfortunata espressione la cui recente fama risiede nel suo uso a sproposito.

Dormire per strada, infatti, comporta disagi importanti e tutta una serie di accorgimenti per ovviare alle diverse difficoltà di un quotidiano che si svolge interamente sullo spazio pubblico. Tale savoir-faire si accumula solo con il tempo, e pagando gli errori sulla propria pelle. Alcuni, per esempio, cercano per il riposo luoghi nascosti e appartati, mentre altri optano per la soluzione opposta: il sistemarsi in luoghi molto frequentati, alla vista di molte persone, può essere una tattica per garantire la propria sicurezza. A tal scopo alcune persone arrivano a invertire i ritmi circadiani e dormono di giorno, nonostante questo complichi l’accesso ad alcuni servizi (come i pasti gratuiti) o ad un piccolo reddito (tramite, ad esempio, lavoretti in nero). Inoltre, in questi casi, può essere necessario mettere in atto delle tattiche di dissimulazione: fingere di aspettare un treno, di leggere un libro in biblioteca, etc. Ma spesso l’aspetto della persona tradisce le sue reali intenzioni. Inoltre, bisogna pensare ai propri averi, che in assenza di un luogo privato, devono essere sempre portati con sé, con tutte le difficoltà che questo comporta, specie nel caso di anziani e disabili; oppure, lasciati in un angolo della strada sperando che nessuno li porti via.

Come si può comprendere dal discorso fatto finora, l’aspetto dominante del vivere per strada è la precarietà di ogni possibile strategia che, per quanto studiata e costruita nel tempo, rischia di essere vanificata dall’aleatorietà del contesto: ad esempio, ci si può trovare una sera senza coperte, gettate nell’immondizia per iniziativa di qualche sconosciuto in nome della sua idea di decoro urbano. E rischiare così il congelamento.

Tuttavia, sarebbe oltremodo ipocrita fermarsi alle necessità dei senza-tetto senza tenere conto di quelle del resto della popolazione che frequenta gli stessi spazi con necessità diverse. Le esternazioni rumorose, i comportamenti imprevedibili e inopportuni, come le risse che avvengono spesso per un nonnulla, generano giustamente disagio e inquietudine; allo stesso modo, i cattivi odori, l’impudicizia e i rifiuti legati ad una vita vissuta per strada, senza alcuna intimità, non solo aggrediscono i sensi, ma rappresentano dei problemi igienici ed eventualmente economici importanti, tanto per i commercianti che per i residenti della zona.

Le nostre osservazioni intendono contribuire a una messa in prospettiva del problema che consenta la concezione e messa in opera di interventi efficaci. Infatti, al fine di migliorare la situazione per l’insieme della collettività è necessario riflettere a livello strutturale e trovare possibili compromessi tra le istanze di tutti gli attori coinvolti: le istituzioni, in primis, invece di assumere un atteggiamento repressivo nei confronti dei comportamenti “devianti”, dovrebbero partire dalla loro analisi per creare una base di dialogo efficace. Questo ci aspettiamo dalla politica: ascolto delle istanze dei vari soggetti che formano il corpo sociale e sintesi delle contraddizioni che vi sono espresse… Vogliamo che l’Amministrazione sia demiurgo dell’integrazione tra i vari elementi che vivono la città e lo spazio pubblico. La repressione cieca può essere un’ottima tattica per vincere le prossime elezioni ma dimostra miopia politica: l’esclusione non risolve mai un problema ma lo aggrava, perché ogni regola, se non è condivisa, è destinata ad essere infranta o aggirata.

La nostra non è semplice speculazione accademica o “buonismo”, al contrario siamo molto pragmatici: ci sono degli esempi dell’efficacia di questo approccio, magari limitati e perfettibili… Ma ci sono, e ignorarli è segno di incompetenza o, peggio, di malafede. Un esempio a nostro avviso virtuoso è quello di Lisbona, che ha allestito per strada degli armadietti per consentire ai senzatetto di conservare in sicurezza i propri beni.

Certo, la soluzione perfetta non esiste, qualcuno sarà sempre scontento e la real-politik della governance dello spazio pubblico richiede che “alcuni animali siano più uguali degli altri” … Ma anche da questo punto di vista va preso atto che, se non facciamo evolvere strumenti e servizi nella direzione dei bisogni espressi dai senzatetto, questi finiranno per adattarne altri alle loro esigenze, creando disagio e concorrenza tra differenti gruppi sociali… Se ci sono persone che si servono delle fontanelle per lavarsi, è perché non hanno un’altra possibilità più adeguata: fornirgliela sarà più efficace (per non dire più umano) che cacciarle. Allora, invece che investire nella repressione e nel controllo dello spazio pubblico, sarebbe meglio scommettere sulla condivisione, rinforzando il difficile lavoro di prossimità delle équipe mobili e degli operatori sociali, innanzitutto fornendo i mezzi adeguati al lavoro che devono svolgere.

Così invece di voler forzare le persone ad adattarsi a strutture che offrono un’accoglienza standardizzata e, in questo modo, negano implicitamente l’irriducibile individualità di ogni persona, sarebbe più utile ed efficace diversificare i centri e gli approcci in funzione della “domanda”. Degli esempi virtuosi con cui abbiamo avuto a che fare, per esempio, comprendono centri che permettono di consumare bevande alcoliche al loro interno, cosa che ha portato, nel corso del tempo, diversi utenti a stabilizzare la propria consumazione e poter svolgere varie attività: volontariato, piccoli lavoretti, etc. Altre strutture, invece, si sono specializzate nell’accoglienza delle persone anziane o dei giovani, creando una rete di rapporti di solidarietà (nonostante le immancabili idiosincrasie) tra gli utenti. E molti altri sono gli esempi.

Per questo, però, servono ricerche ed esperimenti, cioè tempo, mezzi economici ed umani. Quello che di certo non serve sono comportamenti che rendano ancora più dura la vita di queste persone, atteggiamenti che ne aggravino la discriminazione e l’esclusione, così come retoriche e narrazioni che li giustifichino.