editoriale

Da #metoo a #wetoogether

Un contributo teorico che va a situarsi nel dibattito sul #metoo e che ripercorre le fila della nascita del #wetoogether, la quarta ondata femminista, le contaminazioni sinergiche da Ni una menos al movimento globale, fino ai lavori dei tavoli di Non una di meno e la redazione del Piano Femminista

Intorno al fenomeno #metoo, ai suoi effetti e alle sue cause virtuali e materiali si sta discutendo molto in Italia e nel mondo. In entrambe le dimensioni geografiche, si discute sia in ambiti generalisti che soprattutto all’interno di quel frastagliato mondo che – più o meno a ragione – si agglomera sotto l’etichetta «femminismo». Dal palco del Golden Globe all’arena mediatica italiana, dai blog di opinione alla lettera delle attrici francesi, il dibattito è estremamente articolato e, a parte le reazioni prevedibili di ancelle dell’eteropatriarcato e guardiani dell’eterosessualità obbligatoria, ricco di interessanti e non banali riflessioni che restituiscono le ambivalenze connesse con tutto ciò che riguarda la sessualità, il potere, le gerarchie e le norme di genere, etc.

Di tale dibattito provo a dare una lettura parziale e riflessiva situata nel mezzo di questo sisma, cercando di non lasciare spazio a scorciatoie, vie di fuga, semplificazioni o autocelebrazioni. Il sisma – o meglio sarebbe lo sciame sismico – sono le articolazioni dei percorsi che a livello mondiale hanno portato a questo momento storico che potremmo definire kairòs: e cioè una nuova ondata femminista che ricompone generazioni di femministe con esperienze, linguaggi e pratiche diverse e a volte in conflitto – e che proprio per questo, come una cartina di tornasole, fanno riemergere e riportano a riva una serie di grovigli, contraddizioni e ambivalenze che vengono risignificati e tradotti nel nuovo contesto, senza risolverli. È in questa loro natura genealogica e nelle sue ambivalenze che è interessante leggerli per capire cosa ci dicono, e soprattutto provare a tracciare alcune traiettorie analitiche e politiche che siano capaci di spalancarne altre e farci approdare in nuovi porti. Insomma, questa nuova ondata, questa marea femminista composita, scomposta e potente ci costringe a inforcare lenti prismatiche e ad essere consapevoli che gli esiti della visione sono tutt’altro che lineari.

Fatte queste premesse, proverò ad abbozzare delle riflessioni su alcuni aspetti del dibattito politico scaturito intorno alle molestie sessuali, lanciato dal tweetstorm #metoo dalle attrici di Hollywood e tradotto in Italia, nel pieno dei preparativi della seconda grande mobilitazione di Non Una Di Meno del novembre 2017, nelle campagne #wetoogether e #quellavoltache – che hanno scosso profondamente il dibattito pubblico, mobilitando, come sappiamo, mass media, politici, think tank e, non ultimi, una serie di uomini che, minacciati nella loro virile seduttività e nel loro diritto ad esercitarla, hanno riaffilato le stesse armi da sempre utilizzate per mantenere intatte le condizioni di possibilità e legittimazione implicita della violenza di genere: la colpevolizzazione, la minimizzazione, la negazione (dell’altra e della violenza). Sul tavolo ci sono questioni come il rapporto tra sessualità e potere (come sottolineato da Ida Dominijanni in diversi articoli su Internazionale), il nesso costitutivo tra eteropatriarcato e neoliberismo, la sussunzione egemonica della libertà e così via. Ma poiché di questo è stato detto e scritto moltissimo, ciò che mi preme qui è ricomporre il quadro all’interno del quale questa mossa è stata possibile, per interrogarla alla luce di quanto ci aspetta nei prossimi mesi.

Innanzitutto, nella vicenda #metoo, ma soprattutto nel rilancio di #wetoogether e #quellavoltache, mi sembra che si siano saldate due questioni fondamentali per il femminismo. La prima è indissolubilmente legata alle sue genealogie: e cioè che la soggettivazione si produce dall’esperienza e dal riconoscimento reciproco. L’astrattezza delle evocazioni e dei significanti vuoti sprecati negli ultimi anni in tentativi di ricomposizione dei movimenti generalisti e spesso identitari che nulla dicevano e hanno detto dei vissuti reali e delle loro ambivalenze è stata letteralmente spazzata via dalla mossa più semplice e allo stesso tempo (forse per questo) più potente: la presa di parola pubblica sulla propria esperienza, a partire da sé. Una presa di parola soggettiva, #metoo, che ha aperto uno squarcio nella coltre di silenzio e omertà sulle molestie e la violenza sessuali nel mondo dello spettacolo e che subito si è propagata, mettendo al centro quel «me» che dice di una soggettività e un’esperienza, ma anche e soprattutto quel «too», che indica la ricorsività e allo stesso tempo allude a un legame, un filo che collega le esperienze di violenza e che diviene riconoscimento.

Esperienza e riconoscimento si manifestano dunque nella presa di parola pubblica e scandalosa, che come ci hanno insegnato ancora le prime ondate femministe, non è neutra ma profondamente politica, e si fondano su un secondo elemento centrale: il potere di nominare. Dire la violenza non significa solo denunciarne l’esistenza, significa invece definirne i contorni, sostantivarla a partire dal proprio posizionamento. Non è banale ripetere quanto la prospettiva di chi la subisce sia diventata centrale per definire la violenza di genere come problema assunto politicamente e socialmente – e non certo solo per «la possibilità di contrastarsi e dire all’altra “tu ti stai raccontando una favola”», come sostiene Lea Melandri nel suo recente articolo sul Manifesto – grazie all’autocoscienza, al lavoro dei centri antiviolenza e alle assemblee femministe. Se oggi possiamo dirla fuori da retoriche sicuritarie e vittimizzanti, psicopatologiche ed emergenziali, è grazie alla consapevolezza, al sapere e alle pratiche collettive che prima di noi si sono prodotte, e che ne hanno creato il campo semantico e politico. Con #metoo la voce delle attrici ha risuonato da un continente all’altro, le donne hanno nominato la piaga delle molestie sessuali – e facendolo hanno imposto, ora come allora, la loro esperienza come lente e criterio per leggere la realtà.

Quanti uomini, in messaggi privati o discussioni da bar per paura di essere messi alla gogna, ci hanno chiesto in questi giorni: ma allora dove sta il confine tra corteggiamento e molestia sessuale? Cifra di una messa in discussione (per quanto insufficiente) dell’universalità neutralizzante del proprio punto di vista? La parola delle donne che hanno subito violenza ha fatto vacillare la salda architettura culturale e sociale di normalizzazione della violenza sessuale? Lo capiremo. Intanto, possiamo osservare che le risposte balbettanti e isteriche (fatemelo dire) degli uomini e delle donne maschilisti sono indicativamente corse sul fil rouge della rimozione di questo conflitto agita da sempre  – da un lato, attraverso la negazione, con tutto il portato di delazioni, umiliazioni, denigrazioni a cui tutte le donne hanno dovuto far fronte; dall’altro, la neutralizzazione e la minimizzazione: è sempre stato così, lo sappiamo, che ci possiamo fare, siamo fatti in questo modo, tutelatevi, anche se un po’ ve la siete sempre cercata, o addirittura: vi/ci (nella voce delle «intellettuali» francesi) piace così. In più, e prevedibilmente, la reazione maschilista si è giocata sulla ridicolizzazione di un presunto moralismo puritano, sulla rivendicazione della disponibilità del corpo femminile come oggetto di predazione sessuale sotto la parvenza della seduzione, etc. È una storia che conosciamo e su cui non mi soffermo, ma che ci dice che qualche nervo scoperto è stato toccato – e questo di certo non può che essere positivo.

Giustamente è stato però sottolineato da più parti che #metoo ha corso alcuni rischi tipici della deriva vittimistica e sicuritaria della società della prevenzione (o del rischio stesso, o anche del merito, ma non mi addentro in queste definizioni): l’individualizzazione e la tentazione punitiva e criminalizzante sostenuta da una parte del femminismo anglosassone (penso a MacKinnon su tutte) e non solo, la deriva moralizzatrice e censoria sulla sessualità (una questione che, al di là della paura di molti uomini, ha diviso storicamente i femminismi, altra questione che meriterebbe un articolo a sé), il voyeurismo sul mondo di Hollywood che oscura la quotidianità delle violenze, oppure quello di confondere lo spazio social con un gigantesco confessionale – e probabilmente molte altre cose che non sono riuscita a leggere in questi giorni. Qui però vorrei sottolineare un altro aspetto che mi sembra altrettanto interessante, che è l’effetto parresiastico della denuncia di una verità sottaciuta e censurata per troppo tempo in una condizione di ricattabilità intrinseca ai rapporti di potere neoliberali. «Ora possiamo, è tempo di parlare, nessuna deve più sentirsi sola» dicono le attrici dal palco dei Golden Globe, facendo appello a tutte le donne che non hanno riflettori puntati addosso e la cui parola quindi non ha la stessa valenza nella nube opaca dello spazio social. Su quell’«ora possiamo» vorrei soffermarmi.

Infatti, anche se, come pure giustamente Lea Melandri ha sottolineato altrove, tra i rischi di questo strumento e del suo significato, #metoo comporta sicuramente quello di uno scollamento tra la pratica femminista del partire da sé rendendo il privato politico, e la relazione, la ricomposizione intorno a ciò che viene individuato come una condizione comune di subordinazione, violenza, sfruttamento etc., d’altro canto quello che va scandagliato è l’emersione di quel campo di intellegibilità che consiste senza dubbio nel processo di cui stiamo parlando: un movimento globale femminista che ha avuto la forza di determinare uno spostamento decisivo negli ordini discorsivi sulla sessualità, l’autodeterminazione, l’ordine sociale di genere. In altre parole, possiamo dire che questo fenomeno virale non sarebbe stato intellegibile né possibile nella sua diffusione se non ci fosse stato un terreno fertile come quello coltivato dal movimento globale Ni Una Menos, che aveva già aperto, prima con la manifestazione mondiale (articolata in decine di paesi) del 26 novembre 2016, poi con lo sciopero globale femminista dell’8 marzo e con la seconda manifestazione globale del 25 novembre 2017, la strada della ricomposizione politica, rimettendo al centro la lotta contro l’eteropatriarcato e il suo nesso inscindibile con il neoliberismo e le sue derivazioni neofondamentaliste. Questo terreno ha permesso di rendere immediatamente riconoscibile e situato il messaggio di #metoo – e di poterlo utilizzare come detonatore.

In questo senso la traduzione fatta da Non Una Di Meno in #wetoogether, una risposta agli ignobili attacchi in salsa italiota all’attrice Asia Argento proprio nel senso della collettività politica che si fa carico di ognuna perché non sia mai una di meno, e ripresa subito in molti altri paesi, ha avuto il merito di rendere esplicito ciò che in #metoo ancora non lo era: di dichiarare che, per lottare contro la banalizzazione della violenza, la denuncia e il riconoscimento necessitano di quel legame, quella relazione che allude alla ricomposizione e all’organizzazione di una mobilitazione e di uno spazio collettivo. #wetoogether simbolicamente ha spinto su questa necessità, che si è poi realizzata nella manifestazione del 25 novembre con rinnovata potenza. Il riconoscimento che emerge con #wetoogether supera dichiarandolo il senso di colpa e la vergogna, dice il ricatto e la connivenza, denuncia la violenza di genere intrinseca al lavoro e allo sfruttamento neoliberale, afferma che ora c’è un movimento che ha permesso di spezzare l’omertà.

Qualcosa che in Italia già con l’8 marzo, e prima ancora nei percorsi dello Sciopero Sociale, del Gender Strike e dello Sciopero alla Rovescia delle e dei ricercatori precari/e avevamo provato a fare con le bio-strikers e le auto-narrazioni: ripartire da noi, avere il coraggio di narrarci riconoscendo e sfidando il senso di impotenza e frustrazione dato dall’obbligo introiettato di autorappresentazione di sé in una performance permanente richiesta dai dispositivi etici di valorizzazione, merito ed estrazione neoliberisti. Rovesciarne la normalizzazione e renderlo politico. Ma anche sfidare la solitudine, l’individualizzazione, il regime di competizione a cui siamo state tutte abituate. Creare, ancora, una condizione comune nella frammentazione della precarietà esistenziale. Ma #wetoogether aggiunge un pezzo fondamentale che ancora non era stato affrontato esplicitamente in queste campagne: la dimensione sessuale della violenza del lavoro. A scorrere gli hashtag la banalità del male ci investe come uno tsunami: chi infatti può dire #NotMe? Le storie raccontate non hanno solo a che fare con stupri o molestie sessuali penalmente rilevanti. Hanno a che fare con la quotidianità esperita dalla maggior parte di donne e persone LGBTQ in ogni sfera della propria vita, soprattutto quella lavorativa – e che individua il nesso tra sfruttamento, precarietà, ricattabilità, violenza sessuale e di genere. Una quotidianità che colpisce i corpi sessualizzati e gerarchizzati strutturalmente nel mercato del lavoro. Dalla denuncia della molestia subita individualmente al too-gether possiamo dire dunque che è stata fatta una duplice mossa: quella di rendere collettiva e politica la denuncia e quella di esondare i confini pericolosi citati prima entro cui la denuncia rischiava di ripiegare, ossia la tentazione criminalizzante e punitiva paventata ipocritamente anche dalle 100 artiste francesi – richiesta di nuove leggi, nuove aggravanti, nuovi codici di condotta, nuove forme di classificazione, individualizzazione e censura delle condotte stesse, ciò che Pitch e altre hanno definito ipergiuridificazione della politica e della vita sociale [1] – per rimettere al centro la dimensione di potere della violenza di genere nello e dello sfruttamento del bio-capitalismo.

È infatti questo, forse, il punto. Come distinguere i confini tra l’esperienza della molestia sessuale e la strutturale subordinazione di genere nel «contesto prostituzionale allargato» della femminilizzazione della precarietà, della condizione di ricattabilità e della performance-prestazione che mette a valore estetica, sensualità, relazioni, affettività (di cui abbiamo provato a descrivere ambivalenze e violenza nel «Tariffario del lavoro gratuito» elaborato dalla rete del SomMovimento nazioAnale per il Gender Strike)? E come fare in modo che dalla denuncia, dalla presa di parola, dal riconoscimento e dalla mobilitazione si sedimentino pratiche reali, situate, in grado di rispondere concretamente a chi deciderà di esporsi col suo «metoo» e divenire un together?

Una risposta, forse, abbiamo già iniziato a scriverla. È nel Piano Femminista contro la violenza sulle donne e di genere (titolo com’è noto criticato da Luisa Muraro) di Non Una Di Meno, stilato grazie al lavoro instancabile di centinaia di attiviste e attivisti che hanno animato gli 8 tavoli di discussione, le iniziative, le manifestazioni, e soprattutto lo sciopero femminista dell’8 marzo 2017 – uno sciopero biopolitico, com’è stato definito da Cristina Morini, perché ha messo a tema i processi di estrazione e sussunzione della vita, dei desideri, dei ruoli e delle relazioni di genere, la riproduzione sociale, etc. Uno sciopero insieme sociale e femminista, che ci ha permesso di interrogare e risignificare lo sciopero come strumento non solo di lotta e rivendicazione, ma di pratica politica e di sottrazione. Biopolitico in questo senso: se corpi, soggettività e desideri, ciò che compone il bios, sono strumenti di valorizzazione e quindi di sfruttamento, allora scioperare significa sottrarsi a questa vita, sabotarne la riproduzione, tradirla (ancora con le parole di Morini), dis-identificarsene. Un’intuizione che più che darsi come obiettivo la sua realizzazione qui ed ora è e vuole divenire processo, pratica, esercizio e sperimentazione – e che, come suggerisce Alisa Del Re, dovrà fare i conti anche con le forme già attuali, ma non (ancora) organizzate, di quello sciopero dei e dai generi che praticano le migliaia di donne che scelgono di non riprodursi, di soggetti che non aderiscono entusiastiche all’assimilazione neoliberale etero e omonormativa, etc.

È qui che un’ipotesi si sta facendo strada. A partire dal riconoscimento dello scarto tra rappresentazione pubblica/social del #metoo-#wetoogether e la sua praticabilità nella vita offline – laddove, come detto, ricattabilità, frammentazione, ma anche necessità di adeguamento e sopravvivenza impediscono di fatto l’esposizione soggettiva contro la molestia sessuale del/nel lavoro -, è emersa con forza all’interno dei tavoli di discussione di Non Una di Meno l’esigenza di individuare forme di mutualismo e solidarietà in grado non solo di rispondere alle violenze sessuali e supportarne le vittime, ma anche e soprattutto di ricostruire una forma di alfabetizzazione/soggettivazione sindacale attraverso campagne pubbliche e assemblee territoriali sulle forme di violenza di genere in cui si declina lo sfruttamento capitalista contemporaneo. Il Piano, pubblicato in occasione della seconda manifestazione globale del 25 novembre 2017, è composto da 8 capitoli che restituiscono il lavoro collettivo svolto da ciascun tavolo di lavoro. Tra questi, il capitolo «Libere dalla violenza economica, dallo sfruttamento e dalla precarietà», che dice:

«Al fine di rompere la frammentazione e l’isolamento che contraddistinguono il mondo del lavoro contemporaneo, riteniamo fondamentale riaffermare, tra le nostre pratiche femministe, l’importanza della costruzione di nuove reti solidali e di mutuo soccorso, riaffermare cioè, contro la barbarie, l’individualismo e la solitudine, la potenza dell’essere in comune, il sostegno, la sorellanza. Mutualismo e solidarietà contro le ritorsioni datoriali, contro i ricatti, le molestie, le discriminazioni e ogni forma di violenza dentro e fuori i posti di lavoro; reti di supporto tra le lotte, creazione di casse di resistenza per sostenere le stesse e le situazioni di difficoltà delle lavoratrici; spazi – sulla scia della storia dei movimenti femministi che hanno rivendicato, costruito e autogestito servizi delle donne per le donne espropriando al dominio maschile conoscenze e decisioni – dove sia possibile rimettere al centro i propri bisogni e desideri, l’ascolto e il mutuo aiuto, scambio e autoformazione sui diritti che abbiamo e quelli che vogliamo conquistare»

Ripartendo dalle genealogie femministe di intervento sociale e politico contro la violenza sulle donne, e connettendole alle più recenti esperienze e analisi transfemministe nel campo della precarietà esistenziale e del genere come dispositivo di valorizzazione, il mutualismo, l’autorganizzazione e la solidarietà femminista appaiono come le pratiche sociali da mettere in campo contro la violenza e le molestie, come epifenomeno di un paradigma di gerarchizzazione e subordinazione e sfruttamento delle donne e di tutte le soggettività che non rispondono al regime di eterosessualità obbligatoria. Questa è la risposta al rischio di cedere alla tentazione vittimizzante e punitiva, foriera dei rischi già descritti sopra, ma anche alla domanda su come rendere concreta una pratica di sottrazione che non si limiti alla denuncia. Si intravede anche qui la genealogia femminista contro la violenza sulle donne, che sin dagli anni ’70 ha individuato proprio in istituzioni autonome e mutualistiche, come i consultori e i centri antiviolenza autogestiti e femministi, gli spazi in cui elaborare lavoro politico e sociale, teorico e metodologico, costruire relazioni e organizzare lotte. E si connettono, in questa ipotesi, i percorsi di sindacalizzazione sociale, dello sciopero dei e dai generi dell’8 marzo e le forme di mutualismo che si stanno riformulando nelle nuove consultorie in diverse città. Si tratta di innestare questi processi, che sono reciprocamente necessari: il partire da sé, la soggettivazione e il riconoscimento da un lato, e la ricomposizione, il mutualismo e il conflitto dall’altro, che non possono che essere legati tra loro da nuove forme di solidarietà, di riconnessione sociale, di supporto che sappiano leggere l’intersezionalità e la multidimensionalità delle forme di violenza del lavoro, della precarietà e dello sfruttamento. Una forma di nuovo mutualismo che è già profondamente politico, e che forse potremmo azzardare a immaginare come preludio di sindacalizzazione sociale femminista?

Articolo apparso su Effimera

Note

[1] Cfr. T. Pitch, Un diritto per due, Il Saggiatore, Milano, 1998 e T. Pitch, C. Ventimiglia, Che genere di Sicurezza. Donne e uomini in città, FrancoAngeli, Milano, 2001.