EUROPA

Mayorga #YoTeCreo: sulla cultura dello stupro e l’accusa a Ronaldo

A distanza di un anno dall’esplosione del #MeToo, si è riaperto il processo in cui Mayorga accusa Cristiano Ronaldo per una violazione anale accaduta nove anni fa. Mentre si esaminano i profili e le reticenze dell’accusatrice, un coro si alza a difendere il calciatore ed eroe nazionale

No means yes, yes means anal” (“No significa sì, sì significa anale”) – gridavano gli studenti di Yale, la iconica ed elitista università americana, nel 2010. La cultura dello stupro, così viva e crudele, così sonora e impunita, è sintetizzata in questo coro: ogni “no” femminile è letto come un invito alla trasgressione. Se una donna dice no, è necessario forzare; se dice di sì, la frontiera è un’altra. La messa in scena della mascolinità nel canto di Yale è (soprattutto) una messa in scena di potere: il sesso è (anche) un esercizio di dominio, una disciplina, una arma di guerra.

“Every hole is a goal” (“Ogni buco è un obiettivo”). Questa è una delle frasi preferite da uno dei ragazzi intervistati in uno studio britannico del 2014, che ha inchiestato ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni, a proposito della percezione e i comportamenti relativi al sesso anale. Lo stesso studio in cui diversi ragazzi affermavano di prevedere che la penetrazione anale fosse dolorosa per le ragazze (senza che ciò li demotivasse a praticare questo atto sessuale).

Nel 2018 si è gridato #YoTeCreo in un paese a noi vicino; un grido di protesta a cui abbiamo unito la nostra voce, davanti all’aberrazione giuridica di quel processo che conosciamo come “La Manada”. Una donna violata da cinque sconosciuti – per via vaginale, orale e anale.

Mesi dopo, e a distanza di un anno dall’esplosione del #MeToo, si è riaperto il processo in cui Mayorga accusa Cristiano Ronaldo per una violazione anale accaduta nove anni fa.

 

Si ripete così il giudizio sommario virtuale, con formule trite, che gridano al “golpe” – strategico e calcolatore – portato avanti da una donna sconosciuta. Una donna che “se l’è cercata”, perchè è salita in una camera – come se il consenso fosse un pacchetto completo e non una condizione (inaggirabile) specifica di ogni singolo atto sessuale, interamente revocabile in ogni momento.

 

Si ripetono la negazione e lo scetticismo davanti all’inchiesta giornalistica e giudiziaria, da cui veniamo a sapere che Mayorga fu sottoposta ad una perizia fisica, nella quale furono ritrovate lesioni compatibili con la violazione anale che aveva denunciato.

Si esamina il suo silenzio – come se fosse impossibile immaginare che cosa dissuada una donna sconosciuta dal denunciare una violazione anale, commessa da qualcuno con uno status completamente impari come quello di Cristiano Ronaldo.

Si specula sulla “trappola”, sulla seduzione premeditata, sulla menzogna. Come se non sapessimo niente di cosa motiva il silenzio delle vittime – dopo decenni di indagini e dopo la recente valanga di testimonianze di donne sopravvissute diffuse con l’hashtag #WhyIDidntReport.

Tutte confermano ciò che già sappiamo: che le vittime, molte volte, non denunciano, per paura, vergogna o rappresaglie; che denunciano, tante volte, anni dopo, perchè il tempo del trauma non obbedisce agli iter processuali. Che la certezza che la giustizia sia lenta e inefficace dissuade qualsiasi tentativo o speranza di riparazione. Che la previsione del discredito e della colpevolizzazione da parte di terzi (e tante volte anche interiorizzata) alimenta la spirale di silenzio.

 

E il silenzio, ora assordante, di chi tanto prontamente, quando si tratta di altri protagonisti, è stato solito ergere la bandiera del #MeToo. È Ronaldo, infondo. Uno dei nostri – il migliore dei nostri.

 

Come se il movimento #MeToo dovesse avere, alla fine, dei protetti, degli intoccabili. Come se Ronaldo fosse immune da una cultura di potere e impunità – lui che le simbolizza e iperbolizza entrambe, grazie all’immenso capitale finanziario, mediatico e sociale di cui dispone.

Come se la cultura dello stupro non fosse proprio così: perpetrata dai nostri amici, i nostri mariti, i nostri fratelli – e i nostri idoli. Come se il potere e l’impunità che perpetuano la cultura dello stupro non attraversassero tante sfere differenti – da Yale alle stelle dello sport, alle scuole e alle relazioni di tutti i giorni, proteggendo continuamente il silenzio di chi mente e alimentando il silenzio di chi soffre.

 

Come se la cultura dello stupro non fosse, infondo, l’assurda “banalità del male”, nella celebre espressione di Hannah Arendt.

 

Lo sappiamo già, pensiamo. Ma immediatamente, rifiutiamo che “i nostri” – che sia per affetto, identificazione, ammirazione o idolatria – siano protagonisti di questa tela. Come se la cultura dello stupro fosse qualcosa di esterno o estraneo; sappiamo che è insidiosa, onnipresente, strutturale, ma insistiamo ancora a rappresentare lo stupratore come l’altro, uno estraneo, o, al limite, una figura ostile. Trump e Kanavaugh sono, alla fine, “estranei” in tutti i sensi – nella lingua, nell’immaginario, negli affetti. Rifiutiamo che siano “i nostri”: la nostra casa, i nostri mariti, i nostri amici, i nostri idoli.

Quelli sono gli “altri” – e anche quelle sono le “altre”, donne che non risparmiamo perchè non hanno parlato, perchè hanno parlato troppo tardi, perchè hanno ceduto ad un accordo, per essere salite in una camera (è così facile pensare che noi, alla fine, siamo fatte di un’altra pasta e animate da un’altra virtù, fino al momento in cui la realtà ci mette alla prova).

Sappiamo che il terrore non è estraneo, non è alieno né esterno alle nostre vite. Sta con noi, vive con noi, cresce con noi – nella complicità del nostro silenzio, nella violenza del nostro discredito. Per questo, adesso gridiamo YoTeCreo. Il #MeToo non può avere intoccabili: è per tutte, per tutte noi – o non sarà.

 

 

*Ricercatrice del dottorato in Psicologia nella Università di Auckland. Studia la violenza sessuale nel contesto/repertorio eterosessuale, i discorsi di normalizzazione e la connotazione di genere che la violenza sessuale assume.

 L’articolo è apparso originariamente su Publico

Traduzione di Carla Panico per DINAMOpress