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May Day a New York: segnali di vita dalla metropoli post-pandemica

Nonostante sia stata istituita per ricordare i martiri della rivolta operaia di Haymarket (Chicago, 1886), il Primo Maggio, negli Stati Uniti d’America, non è festa nazionale. Racconti dalle piazze dove essential worker e sindacato sono le parole d’ordine

Washington Square Park, Manhattan, May 1st.

Sotto un pallido sole primaverile, una piccola ma rumorosa folla sventola bandiere e agita cartelloni colorati. Tra tutti, spiccano gli striscioni, in inglese e in spagnolo, delle essential domestic worker dell’associazione “Make The Road”, che riunisce e difende le lavoratrici e lavoratori latinxs della città di New York. Turisti e passanti osservano stupiti la scena.

Nonostante sia stata istituita per ricordare i martiri della rivolta operaia di Haymarket (Chicago, 1886), il Primo Maggio, negli Stati Uniti d’America, non è festa nazionale.

La data è anzi associata al Loyalty Day, “giorno della lealtà nei confronti della patria e della libertà americana”. Dopo alcuni primi interventi al megafono, la folla si compatta. La manifestazione sfila per le strade di Soho, raggiunge Broadway, e si dirige verso il Lower East Side, per sciogliersi infine di fronte al Tribunale della Contea di New York, a pochi passi dal City Hall.

La giornata si conclude con una serie di interventi tenuti dai sindacalisti dell’Amazon Labor Union (ALU) e da Alexandra Ocasio Cortez, senatrice del distretto del Bronx e membro di spicco dei Democratic Socialists of America (DSA).

Due le principali rivendicazioni espresse delle varie componenti del corteo.

La prima riguarda appunto i diritti e le condizioni materiali delle essential worker della megalopoli newyorkese ed è strettamente connessa alla richiesta di cittadinanza per il lavoro migrante e per i sans papiers. Formato in maggioranza da lavoratrici provenienti dall’America Latina, e di gran lunga il più numeroso, lo spezzone che assemblea queste vertenze ricorda l’impatto pesantissimo – e drammaticamente diseguale – del Covid-19 sulla città: l’ulteriore impoverimento delle classi subalterne, l’eccidio subito dalle comunità vulnerabili e ghettizzate, il drastico deterioramento delle loro condizioni di vita e di abitazione.

Ma esso impone anche, con forza, la centralità politica e economica del cosiddetto “lavoro essenziale”, cioè di quel variegato insieme di attività, spesso tra le più sfruttate e mal pagate, che garantiscono la riproduzione sociale, divenute ancor più fondamentali e ineludibili con la crisi sanitaria, tanto più nel contesto dei ripetuti lockdown.

Le loro rivendicazioni – aumento dei salari, sicurezza sul lavoro, diritto all’assistenza sanitaria, diritto alla cittadinanza – mettono in risalto le principali contraddizioni della governance pandemica e ne riattivano i conflitti. Esse si pongono in netto contrasto con le politiche del neo-sindaco Eric Adams, che hanno ridotto l’impatto della pandemia sul tessuto sociale ad una mera questione di deterioramento della sicurezza e di ordine pubblico, sfociando in politiche repressive che hanno ricordato a molti la violenza della broken windows policy dell’amministrazione Giuliani, per altro sostanzialmente proseguita da De Blasio.

Le lavoratrici rifiutano questa torsione securitaria e si concentrano, al contrario, sul razzismo strutturale della società americana, denunciando la continuità tra violenza poliziesca, segregazione urbana, divisione razziale del lavoro e molestie sessuali da parte di padroni e colleghi.

Le lavoratrici delineano in questo modo la più importante e complessa sfida delle lotte sociali americane nel presente e nel futuro: l’intersezione delle battaglie antirazziste e femministe con il conflitto nei luoghi di lavoro.

La seconda, coerente rivendicazione che emerge dalla May Day è quella per il diritto all’organizzazione e alla rappresentanza sindacale sul posto di lavoro. A farla da padrone, in questo caso, è proprio l’Amazon Labor Union, reduce dalla storica vittoria nel magazzino JFK8 del centro logistico Amazon di Staten Island, nel quale, per la prima volta sul suolo americano, la maggioranza assoluta dei lavoratori ha votato in favore della formazione di un sindacato autonomo, resistendo ostinatamente alla dura campagna intimidatoria, legale e illegale, della dirigenza aziendale ( qui un breve documentario sul voto sindacale a JFK8, girato da The Intercept).

Collocato tra New York e l’aeroporto internazionale di Newark (New Jersey), il “Matrix Logistics Park” (sic!) nel quale si trovano i magazzini è uno dei più importanti snodi logistici nordamericani, determinante per la strategia d’espansione e innovazione del colosso di Jeff Bezos e proprio per questo oggetto di un durissimo scontro con i lavoratori.

In attesa dei risultati del voto avvenuto nel centro di smistamento LDJ5 – sempre a Staten Island – gli attivisti dell’ALU intonano il loro coro preferito: “What do we want? Unions! When do we want it? Now! And if we don’t get it? Strike! Strike! Strike!”. L’appello alla unionization è anche al centro del nutrito spezzone dei DSA, il cui slogan “Fuck Jeff Bezos! scandisce, in tono con il resto delle rivendicazioni, il ritmo della marcia per buona parte della mattinata.

La nascita di una serie di Union autonome, non affiliate alle organizzazioni sindacali nazionali, in alcune delle principali multinazionali del paese – da Starbucks ad Amazon – rappresenta senz’altro uno dei più interessanti processi organizzativi in corso negli Stati Uniti.

Per quanto legati a un più lungo reinvestimento politico del mondo del lavoro, che risale almeno alla campagna di lotta sul salario minimo lanciata nel 2012 (il Fight for 15$ Movement), non si può ignorare, anche in questo caso, il legame diretto con gli effetti socio-economici e psico-politici della pandemia, che ha reso sempre più evidente l’inaccettabilità delle condizioni di lavoro in enormi comparti dell’economia statunitense, generando il dibattito sulla  cosiddetta Great Resignation, nonché la totale insufficienza delle rappresentanze sindacali tradizionali, che qui – quando presenti – siedono addirittura nei CDA delle aziende.

In questo senso, la difficile sfida posta da questo processo di sindacalizzazione è doppia. Da un lato, ruota intorno la possibilità di un effetto domino suscitato dalla battaglia di Staten Island, alla quale potrebbe seguire, come avvenne con la vittoria dei dipendenti dello Starbucks di Buffalo, una moltiplicazione dei conflitti nei luoghi di lavoro e dei tentativi di organizzazione di una forza-lavoro giovane e multirazziale.

Dall’altro, la sfida consiste nella possibilità di coordinamento di questi conflitti e nella loro composizione all’interno di un fronte più ampio, capace di schivare la cattura finanziaria dei sindacati nazionali e la cattura elettorale dell’apparato del partito democratico.

La diffusione delle tenant unions (sindacati degli inquilini) – nate anzitutto nella Bay Area californiana, ma arrivate ora, in seguito al rent strike del 2020, anche a Brooklyn – fa in questo senso ben sperare. Segnala infatti la trasversalità di questo frammentario processo di soggettivazione e organizzazione di classe, non riducibile al solo mondo del lavoro salariato tradizionale.

La pacificazione sociale che sembra dominare New York da dopo la fine delle sommosse seguite all’omicidio di George Floyd nella primavera 2020 è dunque soltanto apparente. Essa nasconde, anzi, tensioni e processi sociali in gestazione, per il momento lenti e sotterranei, che potrebbero tuttavia accelerare, facendosi incandescenti con il modificarsi del contesto nazionale, nel quale non è da escludere un nuovo rigurgito trumpiano fin dalle prossime elezioni di midterm, con la conquista della maggioranza del Congresso da parte dei repubblicani.

Un rigurgito ben testimoniato, ad esempio, dall’inquietante leak di una bozza di risoluzione della Corte Suprema in cui i giudici si mostrano intenzionati a rendere legale l’abolizione del diritto di aborto in tutto il paese.

In un contesto generale segnato dall’impasse istituzionale dell’amministrazione Biden, il cui Build Back Better Bill è naufragato a causa della fronda interna capitanata dal senatore del West Virginia Joe Manchin, e ormai sovrastato dal dibattito sul sostegno militare all’esercito ucraino e sul rafforzamento del blocco Nato, la demonstration del Primo Maggio di New York offre un piccolo ma significativo scorcio su alcune delle tendenze in atto, in città e non solo.

Tendenze dall’esito incerto – la notizia della sconfitta sindacale nel voto del secondo magazzino Amazon arriva poche ore dopo la fine della manifestazione – ma in grado di fornire un contrappunto alla soffocante atmosfera politica americana. Segnali di vita infrangono, insomma, il tetro clima della metropoli globale post-pandemica.

Tutte le foto di Matteo Polleri e Andrea Di Gesu