ITALIA

Le vittime del 4 marzo

Mentre i primi commenti dei risultati elettorali si sono concentrati esclusivamente sull’avanzata del blocco conservatore e securitario, una più attenta analisi dei flussi elettorali e della composizione sociale mostra uno scenario più complesso e articolato

È facile, persino troppo facile, dare un nome e un cognome alla prima delle vittime che questa sciagurata campagna elettorale e i suoi esiti hanno lasciato sul campo: Idy Diene, 54 anni, venditore ambulante a Firenze, migrante del Senegal con regolare permesso di soggiorno, ammazzato a colpi di pistola da un folle, o presunto tale, che meditava di togliersi la vita ma che, alla fine, ha deciso toglierla ad un altro, ad un nero, per trovare – avrebbe dichiarato – un motivo per essere portato in carcere. Tra tutti i nessi possibili, ci sembra sufficiente a definire Idy Diene la prima vittima anche solo la coincidenza temporale tra questo omicidio e i contenuti di una tornata elettorale che non soltanto vede i razzisti e gli xenofobi dichiarati aumentare le proprie postazioni in Parlamento e consolidare il proprio consenso nel paese, ma che vede l’intero arco della rappresentanza politica appena eletta attestarsi sull’incapacità, anzi proprio sul rifiuto categorico, di articolare un discorso diverso da quello promosso dalle retoriche razziste e xenofobe: non il Movimento 5 Stelle, silente sul tema nella tattica comunicativa, ma privo di qualunque esitazione o remora a rispondere con lo stesso linguaggio della Lega quando interrogato sul punto; non il Partito Democratico, cimentatosi negli ultimissimi giorni di campagna elettorale in un impossibile, incredibile e fuori tempo massimo, tentativo di ridisegnare il suo profilo, con l’alfiere della guerra ai poveri, il ministro Minniti, a raccontare di essere riuscito a bloccare i flussi migratori nel mediterraneo ma anche ad aprire corridoi umanitari, che non ci sono e ai quali nessuno può credere. Lo stesso ministro che, in ogni caso, nelle urne delle Marche è stato punito dall’elettorato che deve avere evidentemente preferito i razzisti veri alle copie sbiadite.

Altre vittime, certamente meno compiante ma decisamente più illustri, sono state lasciate sul campo di questa competizione elettorale. Proviamo ad elencarle, facendo però una doverosa premessa: pensiamo che, nell’analisi di questa tornata elettorale, sia necessario rifuggire due poli, molto presenti nelle discussioni di questi giorni. Da un lato, il piglio un po’ ingenuo di chi, la mattina del 5 marzo, sembra essersi svegliato, senza preavviso, come in un incubo: le premesse di questi esiti, soprattutto dei peggiori, ci è sembrato di averle lette abbastanza chiaramente nella realtà degli ultimi giorni, nell’aggravarsi e nel moltiplicarsi delle manifestazioni di violenza maledettamente concrete sui corpi delle donne e su quelli dei migranti, nei toni e nei contenuti di ogni confronto politico. Dall’altro lato, il piglio un po’ saccente e un po’ autoassolutorio di chi legge questi risultati come l’esito di un copione già scritto, senza interpretarne gli elementi evidentissimi di novità, soprattutto nella natura e nel contenuto delle istanze poste tramite il voto, che al contrario sono tali da imporre a tutti interrogativi nuovi o rinnovati.

La prima delle vittime illustri dell’esito elettorale è certamente la governabilità. Ripetuta come un mantra, dalla classe politica negli ultimi anni, come esigenza indispensabile della tenuta democratica dello Stato, regolarmente opposta con violenza a qualunque istanza emancipativa e a qualunque movimento, la retorica della governabilità è stata abbandonata non soltanto dall’elettorato, ma anche e soprattutto dai partiti, sia quando hanno immaginato questa legge elettorale, sia quando – come accade nelle ultime ore – si sbrigano a dismettere in massa i panni un tempo nobili dei «responsabili» (prontamente vestiti, invece, da Di Maio), arroccandosi piuttosto sui veti incrociati e sui tatticismi che caratterizzeranno più di ogni altra cosa il futuro prossimo. Pur non essendo affatto indifferenti a quale maggioranza parlamentare, tra le molte immaginabili (ma tutte, sin qui, ugualmente improbabili), sosterrà il prossimo governo, non ci interessa qui scommettere su questa o quella ipotesi, immaginare con quale escamotage lo Stato garantirà la propria auto-conservazione, quanto piuttosto prendere atto di quanto sia profonda e irreversibile la crisi dei modelli istituzionali della contemporaneità europea, inserendosi la situazione italiana in un trend che è pienamente europeo, appunto, come dimostrano con limpida chiarezza anche le ultime vicende tedesche, dove la socialdemocrazia ha infine scelto, per di più con un referendum, di avviarsi in maniera definitiva sulla via del non ritorno, accettando per l’ennesima volta la grande coalizione con il partito di Merkel.

La seconda delle vittime illustri è, senza dubbio, il “voto moderato”. Considerato da sempre il perno, il baricentro necessario degli equilibri elettorali italiani, il voto moderato sembra semplicemente scomparso dalla rilevanza rappresentativa, determinando la sconfitta di tutte le forze variamente considerate espressione dell’establishment, in un trend – anche qui – compiutamente transazionale e globale. Tutte le forze politiche che hanno giocato la propria partita attorno agli appelli al moderatismo e all’abbassamento dei toni, senza prendere posizioni nette o coraggiose sui temi caldi della campagna elettorale, hanno registrato una sconfitta sonora. Sembrerebbe proprio che, a differenza di un trend storico di questo paese, l’attenzione degli elettori non si sia mai rivolta verso il centro: vincono il Movimento 5 stelle e la Lega, cresce Fratelli d’Italia, perdono tutti gli altri. Anche da questo punto di vista, l’attentato di Macerata ha funzionato come un vero e proprio spartiacque: le forze politiche che in maniera più chiara hanno avuto posizioni “giustificatorie” e hanno collegato il gesto di Traini a una non meglio precisata “bomba sociale” non hanno pagato in termini elettorali, mentre le forze come il PD, che hanno inseguito sullo stesso terreno le destre, hanno avuto lo svantaggio di apparire da una parte come pallide fotocopie e dall’altra come soggetti non in grado di fornire risposte credibili, assorbite interamente negli equilibrismi utili a non perdere nemmeno un voto. I veri grandi assenti di questa campagna elettorale – la disoccupazione, la povertà, la precarietà, la divaricazione tra nord e sud – sono emersi con tutta la loro forza dirompente proprio al momento del voto.

Da questo punto di vista, letti con tutte le riserve e le precauzioni necessarie, sono interessanti i dati che emergono sulla composizione sociale del voto, da un lato, e sui flussi elettorali, dall’altro. Leggere l’avanzata del Movimento 5 Stelle e della Lega come un’indistinta avanzata di un non meglio precisato fronte delle destre razziste e securitarie è l’ennesimo abbaglio facilmente smentibile: senza analizzare il voto in termini di composizione sociale, estrazione politica e aspirazioni è impossibile capire il terremoto avvenuto il 4 Marzo.

Secondo uno studio sviluppato d  Tecné, ha votato Movimento 5 Stelle il 50% dei disoccupati e il 44% dei giovanissimi, nella fascia di età compresa tra i 18 e i 30 anni: sommando questi elementi al trionfo visto nei collegi del sud, possiamo affermare che la questione della povertà e della mancanza di lavoro è emersa fortemente e ha ingrossato le fila del movimento di Di Maio. A chi liquida questi dati con battute che non esitiamo a definire classiste (i fannulloni del sud hanno creduto alla favoletta del reddito), soprattutto da sinistra, non si può non far notare che si continua a riprodurre lo stesso errore che ne ha portato alla sparizione. Altrettanto interessanti i dati rispetto alle fluttuazioni del voto: il 17% di quelli che 5 anni fa avevano votato PD scelgono il movimento 5 stelle, così come il 12% dei vecchi elettori di Forza Italia; sempre il 12% invece sono gli elettori che avevano espresso preferenza nel 2013 per i 5 stelle e che invece in questa tornata elettorale hanno scelto la Lega, che guadagna anche il 21% dei vecchi elettori di Forza Italia. È quindi evidente che Di Maio pesca voti dalla ridotta astensione ma soprattutto da “sinistra”, perdendo parte dell’elettorato della destra a vantaggio della Lega e recuperando alcuni voti della cosiddetta destra “popolare” e moderata. Tutto un altro contenitore politico rispetto a quello di 5 anni fa, e questo non potrà che influenzare le scelte e le politiche future. Viceversa, la Lega guadagna consensi soprattutto in virtù della radicalizzazione sui temi della sicurezza e della migrazione, diventando prima forza del centrodestra e rompendo la guida della destra moderata sulla coalizione. Terzo e ultimo elemento di differenziazione tra queste due forze sono le aspirazioni dell’elettorato che rappresenta: se nel sud il reddito di cittadinanza ha giocato una partita fondamentale per l’uscita dalla crisi e dalla povertà, a nord la protezione degli interessi dei piccoli e medi proprietari e la proposta classista della flat tax ha mobilitato altri interessi e ha quindi fatto guadagnare alla Lega e al centro destra maggioranza quasi ovunque.

Prendere questi dati per oro colato e costruirci attorno un’analisi cristallizzata sarebbe sbagliato, ignorare però che alcune istanze sono assolutamente incompatibili tra loro vuol dire, di nuovo, auto-assolversi o rappresentare un quadro che non esiste. Per avere un quadro preciso si può sommare a questi elementi quelli che emergono da uno studio della LUISS (sic!)  sull’auto-collocazione da parte degli elettori all’interno di 5 classi sociali (da classe operaia a classe medio-alta): l’unico partito di classe risulta essere il Partito Democratico,  ovviamente, neanche a dirlo, della classe medio-alta, delle élites, che manda i suoi rampolli a studiare proprio in università come la Luiss, che apprezza il Jobs Act, confida nella meritocrazia, non prova così tanto fastidio nella prospettiva di faticare fino ai 70 anni, e via dicendo. Questa gente, e quasi solo questa, massicciamente vota il Partito Democratico.

Si profila così la terza vittima illustre di questa tornata elettorale: la sinistra. Già morta innumerevoli volte dalla fine del secolo breve, nei contenuti, nei simboli, nelle politiche; la sinistra, la rappresentanza di sinistra stavolta, più di sempre, sparisce nelle urne. Sparisce con la polverizzazione di ogni residuo ottimismo della possibilità di rifondarla con accordi di segreterie, ad opera di un ceto politico vecchio, marcio, troppo coimplicato nel disastro recente da rendersi credibile. Sparisce, infine e purtroppo, con la constatazione che, da un lato, neppure la (auto)rappresentanza più sincera delle lotte è sufficiente, quando quelle stesse lotte hanno urgente bisogno di essere rinvigorite, rinnovate, rafforzate con un nuovo programma di lavoro di base ma che, dall’altro, il nesso tra radicamento territoriale e consenso è tutt’altro che lineare.

Ma non sparisce la “sinistra”, di certo, nel movente elettorale, continuando ad alimentare istanze materialiste di miglioramento delle condizioni di vita delle persone, speranze di liberazione dalla povertà del salario, dalla disoccupazione e dalla precarietà, dalla condanna al lavoro in vecchiaia, dall’avvelenamento ambientale, dalla corruzione come espropriazione dall’alto di risorse.

Ed è in questo contesto che fioccano battute e ironia, sui meridionali che non hanno capito niente e sono in fila ai CAF per chiedere reddito di cittadinanza: forse il problema non è semplicemente costruire una “sinistra-veramente-sinistra”, ma immaginare strumenti che siano in grado realmente di comprendere le istanze di classe. Perché i poveri e i disoccupati hanno votato in massa una forza politica che prometteva loro l’erogazione di denaro slegato dalla prestazione lavorativa, dopo aver ascoltato 25 anni di promesse vuote sul lavoro e mentre si lavora in condizioni penose, di sfruttamento, contrazione salariale, ricatto continuo.

Da questo, pensiamo, bisognerebbe ripartire: nonostante la proposta di reddito dei 5 stelle sia pessima sotto una serie di fondamentali punti di vista, dentro questo spazio che si apre bisogna spingere, nel tentativo di restituire strumenti e parole utili alle lotte di chi, lungi dall’essere un ingenuo sprovveduto meridionale, ha preferito dare uno schiaffone in faccia ai molti che, in questi anni, hanno fatto solo i loro interessi.