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Le strade tornano ad incendiarsi in Ecuador

Dopo la repressione violenta del governo, che ha causato 5 morti, diversi desaparecidos e centinaia di arresti e feriti, la resistenza del movimento indigeno e dei movimenti studenteschi femministi e sociali nella piazze non si sono fermati e sono cominciati i dialoghi tra il governo e i rappresentante indigeni. Il presidente Lasso sospende lo stato d’eccezione, ma la Conaie continua le proteste finchè non si raggiungerà un accordo

L’Ecuador sta vivendo, nuovamente, una mobilitazione sociale antigovernativa guidata dal movimento indigeno. La reazione del governo, che sta facendo uso della repressione, ha fatto sì che molti settori sociali aderissero alle proteste

La convocazione del Paro e della mobilitazione da parte della Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador, la CONAIE, lo scorso 13 giugno, è la prima grande protesta che il presidente Guillermo Lasso deve affrontare da quando è arrivato al governo nel 2021. La protesta è cresciuta giorno dopo giorno anche per le azioni repressive dello stesso governo che hanno generato una grande risposta nel paese

Il governo denuncia l’esistenza dio un piano di destabilizzazione. Le Forze armate addirittura hanno segnalato un “nesso tra narcotraffico e mobilitazioni”, senza presentare nessuna prova rispetto a questa accusa. Intanto le organizzazioni sociali denunciano che è proprio la repressione del governo a far tremare l’istituzionalità democratica nel paese.

Questioni decisive per comprendere la protesta e il malessere sociale

Dal mese di giugno del 2021, la Conaie ha mantenuto diverse istanze di dialogo con il governo e ha consegnato una serie di proposte che non sono state accolte, per cui dal mese di novembre l’organizzazione indigena ha considerato terminato il dialogo. Da quel momento, la tensione è cresciuta fino all’attuale convocazione dello sciopero nazionale per chiedere il compimento delle dieci rivendicazioni fondamentali.

Tra queste, la sospensione del decreto che definisce l’aumento del costo della benzina; una rinegoziazione dei debiti dei clienti del sistema finanziario nazionale; la regolazione dei prezzi dei prodotti agricoli; la deroga dei decreti 95 e 151 che promuovono l’aumento dello sfruttamento petrolifero e delle miniere; il rispetto al voto popolare consultivo precedente ai progetti estrattivi, con voto libero e informato sui progetti estrattivi nei territori comunitari e indigeni; l’attenzione alla salute e all’educazione, e infine una regolazione dei prezzi dei prodotti di prima necessità.

Il governo afferma che non esistono ragioni per protestare, ma diversi settori della società hanno una percezione ben differente.

La crisi sociale ed economica, resa più acuta dalla pandemia di covid 19, ha messo a nudo l’assenza di politiche pubbliche del governo di destra di Lasso, un politico e banchiere che l’anno scorso ha sconfitto al ballottaggio il candidato correista Andrés Arauz, ma ha dovuto governare con una maggioranza parlamentare di opposizione nell’Assemblea nazionale e una opposizione latente nelle piazze.

Lasso ha dato priorità alla salvaguardia degli interessi delle grandi imprese e delle banche, approfondendo ancora di più la diseguaglianza nel paese. La crisi combina, di fatto, diversi fattori.

L’inflazione e l’aumento permanente dei prezzi ha fatto si che quasi il 70% della popolazione abbia difficoltà ad affrontare le spese minime di sopravvivenza. Il settore agricolo, specialmente i piccoli produttori, già duramente colpiti, soffrono ancora di più per gli effetti della guerra tra Russia e Ucraina.

A questo aggiungiamo l’assenza di medicine e la crisi del sistema sanitario, così come l’aumento dell’indice di disoccupazione e gli alti indici di lavoro precario che arrivano al 62,6% delle persone attive sul mercato del lavoro, specialmente donne, giovani, popoli e nazionalità indigene e afrodiscendenti.

A questa situazione, si aggiunge la riduzione del finanziamento statale delle università e la mancanza di risposte alla promessa di rendere l’accesso alle facoltà libero e senza restrizioni, oltre alla potente ondata di violenze con assassinii, in cui sono stati coinvolti membri delle forze dell’ordine, e la crisi carceraria, con l’assassinio di decine di persone private della libertà.

Il veto presidenziale alla legge per l’Interruzione volontaria della gravidanza per casi di stupro, che ha disconosciuto anche la sentenza della Corte Costituzionale che aveva depenalizzato l’aborto in caso di stupro, è stata la ciliegina sulla torta di questo cocktail esplosivo.

Di fronte a questa situazione, l’aumento delle proteste è diventato evidente. Lo stesso modo di agire del governo e delle forze repressive durante lo sciopero nazionale non ha fatto altro che contribuire a scaldare gli animi.

Il bastone e la carota, misure che ravvivano lo sciopero

Sebbene la convocazione dello sciopero ha riguardato principalmente il movimento indigeno, dall’inizio della protesta studenti e organizzazioni di donne, femministe e dissidenze hanno partecipato alle manifestazioni e le loro voci sono state incluse nelle conferenze stampa della dirigenza dello sciopero che si tengono ogni sera.

Ma a differenza di quanto successo nel 2019, con le forti proteste contro il governo di Lenin Moreno, le organizzazioni dei lavoratori non hanno aderito allo sciopero immediatamente e hanno convocato una mobilitazione per il 22 giugno.

Durante la seconda giornata di sciopero, il 14 giugno, è stato arrestato il presidente della Conaie Leónidas Iza, inizialmente accusato di sabotaggio, poi processato per il reato di “paralizzazione dei servizi pubblici”.

Per i protagonisti della protesta, questa azione rappresenta una chiara persecuzione politica e il compimento della minaccia che lo stesso presidente della nazione aveva proferito dicendo che “Leónidas Iza finirà la sua vita in un carcere”.

Questo arresto ha generato un’ondata di ripudio per le molteplici irregolarità che lo caratterizzavano e ha incendiato gli animi, spingendo molte organizzazioni e abitanti dei quartieri popolari a partecipare alle proteste.

Durante la terza giornata di sciopero, il 15 giugno, ci sono stati scontri nella terza città del paese, Cuenca, tra studenti e polizia che, violando l’autonomia universitaria, ha lanciato lacrimogeni dentro le facoltà, così come accaduto nel 2019 all’Università Cattolica di Quito.

La stessa azione repressiva ha portato all’adesione allo Sciopero Nazionale e ad una pacifica mobilitazione della comunità accademica con in testa la rettrice María Augusta Hermida.

Simili scene si sono viste durante l’ottavo e il nono giorno di sciopero, quando le forze di sicurezza hanno represso i manifestanti nei pressi dell’Università Salesiana che assieme all’Università Centrale hanno aperto le porte ai manifestanti diventando centri di accoglienza umanitaria.

La stessa cosa è avvenuta alla Cattolica, quando un plotone antisommossa è entrato a reprimere i manifestanti violandone l’autonomia istituzionale.

Il quarto giorno, tentando di calmare le acque, il governo ha annunciato la pubblicazione del Decreto Esecutivo 452 e la sottoscrizione dell’Accordo Ministeriale 0069, attraverso i quali rispondeva parzialmente a due delle rivendicazioni della Conaie.

Con il decreto, il governo prendeva l’impegno di intensificare gli interventi e gli operativi di controllo dei prezzi dei prodotti di prima necessità e a sanzionale quelli che non avessero rispettato le giuste paghe per i produttori di banane.

Il quinto giorno di sciopero è stato caratterizzato da una giornata di forti scontri nella provincia di Chimborazo, terminati secondo la Comich, la Confederazione del movimento indigeno di Chimborazo, con quaranta feriti di cui due gravi. Questi ultimi sarebbero stati colpiti da armi da fuoco nonostante la polizia avesse affermato di avere ricevuto l’ordine di non usare armi da fuoco né munizioni letali.  

La notte, il presidente della Repubblica ha dichiarato lo Stato d’eccezione in tre province: Pichincha, Cotopaxi e Imbabura. Il decreto ha avuto due versioni. Inizialmente ne ha circolata una in cui era inclusa una restrizione della libertà di informazione che avrebbe permesso la sospensione dei servizi di telecomunicazione fissi, portatili e di internet.

Si limitava inoltre la circolazione di informazione “debitamente classificata”, riservata o di circolazione ristretta attraverso i media di comunicazione sociale, reti sociali e contenuti multimediali. E si disponeva la possibilità dell’uso progressivo della forza anche con armi letali.

Finalmente, di fronte alle voci che denunciavano la violazione dei diritti costituzionali, il governo ha affermato che, nonostante fosse stata firmata dal presidente, la versione che aveva circolato fosse una bozza, e che la versione finale non conteneva questi articoli polemici. Nonostante ciò, per questo motivo è stata convocata l’Assemblea nazionale per discutere della deroga di questo decreto.

La Costituzione contempla la possibilità per il potere legislativo di “revocare il decreto in qualunque momento, senza limiti rispetto al pronunciamento sulla sua costituzionalità che possa essere fatto dalla Corte Costituzionale”.

Dopo la promulgazione del decreto, la deputata del partito indigeno Pachakutik Mireya Pazmiño, ha presentato una richiesta di discussione della revoca per lunedì 20 giugno.

Il 20 giugno, proprio prima della sessione parlamentare, il presidente Lasso ha derogato e sostituito il decreto con uno nuovo che aumentava il numero di province colpite dallo stato di eccezione. Con questa strategia il parlamento non ha potuto iniziare la sessione dovendo presentare una nuova mozione e attendere almeno 48 ore prima di poterne discutere.

Con questo decreto, il governo cerca di controllare l’estensione delle manifestazioni e restringere l’arrivo di indigeni alla capitale, ma allo stesso tempo mostra la discrezionalità nella scelta di applicare le leggi dato che mentre limita la libertà di associazione e di riunione, la stessa Segreteria Generale di comunicazione del governo ha convocato la cittadinanza a partecipare ad una mobilitazione per la èpace per il 18 giugno in vari punti della città di Quito.

L’ultima azione che ha messo sotto scacco l’istituzionalità democratica, ravvivando le tensioni, è stata la perquisizione e la successiva occupazione della Casa della Cultura Ecuatoriana a Quito da parte della polizia alla ricerca di “materiale bellico, esplosivi e armi artigianali”.

Durante le proteste del 2019, questa istituzione era stata la base per migliaia di persone e organizzazioni di base indigene e sociali, e spazio per le assemblee permanenti.

Non trovando nulla, e sostenendosi sul decreto di stato di eccezione, la polizia ha deciso di usare la Casa della Cultura come spazio operativo delle forze dell’ordine, generando l’indignazione di artisti, gestori culturali e cittadini che avevano convocato una protesta contro l’intervento poliziesco.

La Casa della Cultura è una istituzione creata nel 1944 che funzione in autonomia e che aveva subito un solo intervento poliziesco durante la dittatura militare nel 1963. Questa irruzione è stata condannata da numerosi comunicati di università, artisti e istituzioni, mentre è stata sostenuta solamente dal Ministero della Cultura, che ha identificato l’azione della polizia come una azione per salvaguardare le collezioni e i beni patrimoniali che si trovano al suo interno.

L’ultimo elemento che ha ravvivato la legna sul fuoco sono state le polemiche dichiarazioni delle Forze Armate che hanno cercato di legare le manifestazioni con il narcotraffico e la criminalità organizzata, nello stesso momento in cui il governo, in alleanza con l’Ambasciata degli Stati Uniti, cerca di lanciare il Plan Ecuador – basato sul modello del Plan Colombia – per frenare l’ingresso del narcotraffico nel paese.

Repressione e inviti al dialogo

Il crollo di popolarità del presidente Guillermo Lasso poco più di un anno dopo aver vinto le elezioni è immenso, cosa che restringe le possibilità di canalizzare le rivendicazioni attraverso la via istituzionale. Secondo l’impresa dsi sondaggi Perfiles de Opinión, Lasso ha iniziato il suo mandato presidenziale con il 75% dei consensi.

Ora l’80 % del paese lo rifiuta. Questo perché, dopo un anno di governo, l’unica promessa elettorale che il governo ha compito del tutto è stata la campagna di vaccinazione contro il CVovid-19.

L’arrivo alla presidenza di Lasso, con un programma di governo apertamente a favore delle imprese, ha rappresentato una rottura dopo due decenni in cui le élites del paese non erano riuscite ad arrivare al potere per via elettorale.

E’ importante segnalare che le élites non hanno vinto per la loro capacità di estendere il consenso rispetto al loro progetto politico, ma solo per la frammentazione dell’opposizione. Lasso aveva ottenuto solo il 20% al primo turno nel 2021, per questo ha una scarsa rappresentanza in Parlamento.

Dopo l’inizio del suo governo, il presidente si è allontanato dal Partito Social Cristiano, che lo aveva sostenuto per arrivare al governo e che ideologicamente sembrava essere il suo alleato naturale. Nonostante questo, andando oltre agli scontri di potere e alle tensioni mediatiche relative all’applicazione del piano economico, tanto il partito di governo, come il partito social cristiano rispondono alle élite finanziarie e delle esportazioni agricole con interessi comuni.

Questa coesione prende forma nella congiuntura di mobilitazione sociale come quella in corso e permette al governo reprimere duramente le proteste con il sostegno delle Forze Armate, i mezzi di comunicazione di massa e le élite economiche.  

Dall’altra parte, quelli che dovevano rappresentare l’opposizione, —Pachakutik e la correísta Unión por la Esperanza (UNES)— sono rimaste intrappolate nel gioco di Alleanza dell’esecutivo con l’argomento della governabilità, permettendo così l’avanzamento del programma del governo e al tempo stesso minando la credibilità delle forze di opposizione.

Nonostante questo, durante il primo anno la relazione tra l’Esecutivo e l’Assemblea Nazionale è stata segnata dalla tensione, con “minacce di morte incrociate”, una figura presente nella Costituzione ecuadoriana che permette al potere esecutivo dissolvere il Congresso con l’obbligo di convocare nuove elezioni entro sei mesi per rinnovare entrambi i poteri. Durante questo periodo, il presidente potrebbe governare per decreto. Ma la “morte incrociata” permette anche all’Assemblea destituire il governo.

Durante il nono giorno di sciopero, e dopo due anni di pandemia che hanno approfondito le diseguaglianza, con la memoria ancora recente della rivolta del 2019, le condizioni per un dialogo efficace non ci sono ancora.

In questo momento, non sono in gioco solo le dieci rivendicazioni proposte dalla Conaie, ma le possibilità di risoluzione del conflitto che viti l’erosione dell’istituzionalità democratica. Qualcosa che, fino a questo momento, non sembra accadere.

Articolo originariamente pubblicato su Wambra

Traduzione a cura di Alioscia Castronovo

Immagine di copertina da pagina Facebook Conaie