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“Le promesse dei mostri”. Per un’ecologia politica contro natura

Ne “Le promesse dei mostri” (traduzione di Angela Balzano, DeriveApprodi 2019), Haraway si propone di immaginare nuove forme di rappresentazione tecno-scientifica che siano immediatamente produttrici di mondi compost(i), fatti di assemblaggi di natura e cultura, ecologia e tecnologia

Ho ripreso e riletto innumerevoli volte Le promesse dei mostri, saggio breve ma di una densità quasi vorticosa, procedendo da cima a fondo, piombando nel mezzo, girovagando a zig zag o a ritroso, e ogni volta ho trovato uno spunto diverso, un’apertura feconda, una deviazione inattesa. Le promesse, in effetti, c’invita a fare a meno delle coordinate acquisite per una navigazione sicura e intraprendere un giro – rischioso e vischioso – dove perdersi risulta più promettente che trovarsi. Il saggio viene per la prima volta pubblicato in italiano, nell’edizione a cura di Angela Balzano per i tipi di DeriveApprodi, in un momento in cui sugli scaffali tornano a essere nuovamente disponibili il volume di Manifesto Cyborg curato da Liana Borghi per Feltrinelli (2018, ma la prima pubblicazione risale al 1995) e la traduzione parziale di Staying with the Trouble, l’ultimo libro di Haraway, con il titolo Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (Not, 2019)[1].

Situato tra Primate Visions (1989) e Simians Cyborgs (1991), Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata, questo il suo titolo completo, costituisce un importante nodo di quella che Haraway considera una tessitura continua, che si arricchisce di nuovi fili e forma pattern via via più complessi per torcere e ingarbugliare le «trappole dei dualismi» impossibili da capovolgere o risolvere in unità. Si tratta di «studi della scienza declinati come studi culturali»– la prima pubblicazione del saggio fa parte dell’antologia Cultural Studies  a cura di Grossberg, Nelson e Treichler (1992) – per elaborare una teoria che funzioni come dispositivo di visione e di posizionamento (Haraway gioca con l’assonanza fra sightinge siting) e riconsiderare il paradigma tecnoscientifico e il suo spazio di rappresentazione, la possibilità di accesso al quale è questione cruciale nel campo degli studi culturali.

 

 

Perseguendo nell’idea che non occorre rinunciare alla rappresentazione soltanto perché il campo della visione è regolato dalle ottiche dominanti (Manifesto cyborg) e anticipando quanto poi sarà più compiutamente definito nella semiotica di Testimone Modesta, Haraway propone di articolare diversamente la rappresentazione, i suoi modi, non solo i suoi contenuti, sia per poter far emergere gli intrecci congiunturali del piano semiotico e materiale, in linea con l’approccio degli studi culturali, sia per decostruire i codici dominanti e immaginare un détournement (tropos in termini harawaiani) della rappresentazione senza rinunciare ad essa – in linea con quella che Chela Sandoval chiama «coscienza differenziale», cui Haraway fa riferimento.

Articolare è innanzitutto creare relazioni e mostrare implicazioni, sostituire gli “effetti di distanza” e i ventriloquismi della rappresentazione tradizionalmente intesa con strumenti in grado di creare connessioni e lasciar emergere la «strutturazione reciproca e spesso disuguale»degli attori sociali e la diversa distribuzione di competenze e responsabilità nel fare mondo [worlding] insieme: le relazioni performano i posizionamenti, i quali a loro volta performano i soggetti e gli oggetti di visione e discorso, in modi che, essendo sempre contingenti e parziali, possono sempre essere diversamente articolati (il che ha implicazioni politiche non da poco).

 

Per rispondere alle domande di fondo di questo testo, ovvero di cosa parliamo quando parliamo di natura, di cosa e come parla la natura quando la facciamo parlare attraverso le nostre parole e quale senso queste narrazioni assumano nel contesto delle lotte globali/locali contemporanee (questione quantomai attuale), Haraway adopera un «artefattualismo riflessivo», promettendo di traslare [trope] la natura, di diffrangerla[2]: critica rispetto al produttivismo dell’umanesimo marxista, al naturalismo nostalgico del postmodernismo e anche al naturalismo essenzialista di certo ecofemminismo, Haraway propone qui una modesta ecologia politica dei collettivi naturalculturali: non una politica per la salvazione della natura a uso della (nostra) società, come tanto ambientalismo dell’ultima ora, quanto piuttosto una politica della sua socializzazione.

Per dirla con Latour, la categoria di “natura” ha per il femminismo lo stesso suono che la categoria “uomo” aveva decenni fa, quello di una falsa totalità, usata, a sua volta, per naturalizzare l’infrumanità di altre categorie, come le donne, gli animali, i nativi. Dire che la biologia è un discorso sul mondo, non il mondo in sé, non significa che la Natura non esiste, il Sociale invece sì, ma provare a superare qualsiasi dualismo fondativo per guardare piuttosto all’ambito del naturalculturale e alle sue associazioni. La natura è contro natura (per cui nulla è propriamente contro natura) perché è alterità inappropriata/bile, e le alterità inappropriate/bili – definizione che Haraway mutua dalla cineasta e teorica femminista Trinh Minh-Ha – non esistono in un luogo e assolutamente, ma solo in una condizione di relazionalità «critica e decostruttiva».

Non possiamo fare a meno della natura, ma neppure possiamo possederla. La natura non è una essenza, un tesoro, una risorsa, un grembo, una tabula rasa, non èinsomma ciò di cui parliamo quando ne parliamo: che sia un luogo comune, un topos, o anche un desiderio, non significa che la natura esista davanti a noi o per noi come luogo cui aspirare, fare ritorno o da salvare. La natura non può essere colta nella sua totalità, né i suoi confini possono essere stabiliti, per il semplice fatto che non si trova mai fuori di noi, o viceversa. Via, dunque, gli specchi, via le analogie e la loro logica oppositiva del qui/altrove, dentro/fuori, io/altro. La natura è sempre fatta, ma questo non vuol dire che sia un oggetto di discorso senza realtà materiale. Nessun organismo è mai completamente naturale nel senso di dato, ma è un assemblaggio composto[3] di attori diversi, umani e non umani, organici e macchinici, così come di norme, apparati, tecniche, storie, figurazioni. L’artefattualismo di Haraway mira a ri(con)figurare i collettivi che contribuiscono alla costruzione di specifiche modalità di relazione che fanno – o tendono a fare –la natura e così la società.

 

 

Lo strumento metodologico di cui si serve Haraway è un classico quadrato semiotico greimasiano, ai cui vertici pone quattro spazi (A= terrestre, B= extraterrestre, non-B= endo-corporeo, non-A = virtuale FS), facendone implodere la nitida geometria verso un centro che è il mezzo del mondo, un comune, sebbene continuamente deviante, terreno (non c’è topossenza tropos), un “pozzo gravitazionale” in cui collassano i dualismi e i confini fra le categorie s’incrociano a chiasmo. Per esempio, quando nel primo quadrante Haraway mostra la costruzione della natura “primitiva” riprendendo l’immagine della stretta di mano fra Jane Goodall e lo scimpanzé già analizzata in Primate Visions, vi accosta (ma senza riprodurla) l’immagine Tech in the Jungle dell’indio Kayapo con in mano una videocamera tratta dalla copertina di “Discovery Magazine”, e poi parla delle lotte indigene in Amazzonia, intende smontare quel meccanismo di opposizione fra umanità-civiltà-tecnologia vs animalità-primitivismo-natura che vorrebbe la natura come vuota e insipiente, invece che densamente articolata qual è: insomma, la biosfera amazzonica comprende anche le nuove tecnologie (come insegna del resto la lotta zapatista) sebbene non vi affidi la propria salvezza né il proprio cammino verso “la civiltà”.

Haraway (cui più di recente fa eco, per esempio, la prospettiva dell’antropologo Viveiros de Castro) non presenta le argomentazioni dei nativi a difesa della propria terra come più giuste e autentiche perché più vicine alla natura, ma porta in primo piano la costitutiva relazionalità sociale fra i nativi (più competenti per questioni di posizionamento, non ontologiche), la foresta, gli strumenti di visione, e noi come attori sociali diversamente posizionati, i nostri interessi e le nostre responsabilità nella costituzione del Comune naturalculturale – che diventeranno poi le comunità del Compost di Chthulucene.

Dunque la tecnologia non snatura la natura, ma è una forma particolare della sua produzione. Questo diventa ancora più chiaro nel secondo quadrante, dove la storia degli scimponauti Ham ed Enos, anch’essa già raccontata in Primate Visions, incrociata con l’immagine della terra sulle t-shirt dei manifestanti contro il nucleare in Nevada, mostra la specularità della logica extraterrestrialista e di quella primitivista, cui nel terzo quadrante, dedicato alle metafore del sistema immunitario, si aggiunge quella militarista della difesa del corpo. Che si parli di sofferenza della terra o di corpi malati, di inquinamento o di anticorpi, non è in gioco solo un certo modo di articolare le rappresentazioni, ma con queste anche le diverse possibilità e il diverso valore delle vite rappresentate[4]– ragione per cui sia Balzano che Ferrante, che firma la postfazione, sottolineano opportunamente le connessioni fra il discorso de Le promesse e il farsi compost della marea transfemminista di NUDM nel mondo.

Essere inappropriati/bili, più che una condizione, è allora una tattica difensiva, una forma di resistenza alle complicità di rappresentazione e riproduzione nelle reti del tecnobiopotere, un lavoro finalizzato afare aumentare “i tassi di fallimento” dei processi di dominazione. Se la rappresentazione tradizionale riproduce lo Stesso indefinitamente, l’articolazione della rappresentazione scardina questo meccanismo ri-produttivo e lascia spazio alle in-definite articolazioni dell’alterità: mostruosa oddkin (Haraway, 2018)[5 ]senza origine e genealogia, assemblaggio queer di relazioni transgeniche, transpecie e transgenere (qui “mostri compagni”, qualche anno dopo “specie compagne”). I mostri di-mostrano un altro ordine di significazione e anche un altro ordine di generazione e parentela, estranei alla consanguineità e a qualsiasi affiliazione identitaria: gli articulata naturalculturali non nascono, si fanno.

Una volta compreso questo, siamo pronte per affacciarci, con Haraway, sull’orlo di una voragine virtuale, quella che si spalanca nel quarto quadrante, trasportandoci nella dimensione del femminismo speculativo e della fanta-scienza FS – con la quale si “concluderà” anche Chthulucene –, dove non ci attende alcun lieto fine, piuttosto una non-fine. Un invito a mantenere costante l’apertura contro ogni tentazione ai sigilli identitari del senso e del corpo, a riscoprirci virtuali, cioè “capaci” di fare insieme. A ripartire, piuttosto che da zero, dalla Legge Zero, quella che Balzano, tropizzando Asimov, pone a fondamento delle sue tre leggi sulla robotica, azzerando la superiorità dell’Umano che queste sancivano e riconducendone l’esistenza nel mezzo dei collettivi naturalculturali. È ora di lottare per la vita in comune.

 

 

 

[1]L’edizione italiana (2000) di Modest Witness, anch’essa a cura di Borghi, è ormai introvabile, e lo stesso vale per la traduzione del secondo manifesto a cura di Roberto Marchesini, dal discutibile titolo Compagni di specie (2003). Si segnala invece la traduzione italiana fatta da Antonia Anna Ferrante, che firma anche la postfazione de Le promesse, del saggio Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin (Haraway, 2015) per la Technoculture Research Unit.

[2]La nozione di diffrazione, qui introdotta, sarà poi elaborata in particolare in Testimone modesta, e confluirà poi nella ripresa della teoria di Haraway fatta da Karen Barad.

[3]Haraway non parla ancora di divenire-con, ma in questo saggio per la prima volta menziona Lynn Margulis e Dorion Sagan, che con la loro teoria della simbiogenesi saranno il perno attorno a cui ruoteranno tutte le ultime riflessioni di Haraway, che trovano sintesi in Chthulucene.

[4]i Nati, i mai Nati, i Morti egli Scomparsi (ovvero i doppiamente morti), umani e non umani, di cui Haraway parla in Making Kin in the Chthulucene: Reproducing Multispecies Justice, all’interno del volume curato con A. Clarke, Making Kin Not Population, Prickly Paradigm Press, 2018.

[5]Ibidem.