approfondimenti

OPINIONI

Alienazioni. Il posto della tecnica ovvero la tecnica al suo posto

Il compito attuale della filosofia non è, allora, quello di scomunicare o di glorificare la realtà tecnica, ma di pensare a nuove tecnologie politiche in grado di muoverla in direzione emancipativa

Fabbricare giocattoli potrebbe comportare collaborazioni significative tra le arti, gli studi umanistici e l’ingegneria, che rimpiazzerebbero il reciproco sospetto che vige oggi tra queste discipline.
Timothy Morton, Ecologia oscura, Luiss UP 2021, p. 177.

La comprensione “allargata” di che cosa sia l’alienazione è uno degli snodi teorici fondamentali di Del modo di esistenza degli oggetti tecnici di Gilbert Simondon – saggio del 1958 da poco apparso in italiano per i tipi di Orthotes grazie al lavoro di Antonio Stefano Caridi, al quale va anche il merito di aver pubblicato nel 2017 – sempre per Orthotes – un’importante raccolta di scritti dell’ingegnere-filosofo intitolata Sulla tecnica.


Per Simondon, l’alienazione è il risultato di una relazione distorta tra uomo e macchina, relazione che, a sua volta, è conseguente alla frattura prodottasi tra cultura e tecnica, al bando sovrano con cui la cultura umanista e antropocentrica ha demonizzato il sapere e il fare tecnici.

Al proposito, basti pensare alle tonanti parole di scomunica lanciate dal fondo della Schwarzwald dallo Heidegger del Gestell. È questa scomunica, che accomuna tanto pensiero moderno e contemporaneo, che contribuisce a instaurare una distanza così ampia tra chi inventa/costruisce oggetti tecnici e chi li utilizza. E tale distanza non può che ripercuotersi

nelle condizioni economiche e culturali dell’impiego della macchina e del valore economico della macchina, sotto forma di una svalutazione dell’oggetto tecnico, tanto più rapida quanto più è accentuata tale rottura (p. 269).

Se l’alienazione è il prodotto della frattura tra genesi dell’oggetto tecnico e sua modalità di esistenza, la prospettiva marxiana sull’alienazione si allarga e si approfondisce. La fonte dell’alienazione non va ricercata “solo” nella proprietà dei mezzi di produzione, ma anche nel rapporto di discontinuità tra lavoratore-individuo umano e individuo tecnico:

L’alienazione del capitale non è alienazione in rapporto al lavoro, in rapporto al contatto con il mondo (come nella dialettica del signore e del servo), ma invece in rapporto all’oggetto tecnico (p. 136).

Per Simondon, insomma, il capitale e il lavoro sono in ritardo sulla realtà tecnica. La collettivizzazione dei mezzi di produzione non eliminerebbe il problema dell’alienazione se non si misurasse adeguatamente con l’intelligenza dell’individuo tecnico. E il lavoro diventa fornitura della propria poltiglia rosa – muscoli o cervello, poco conta come sottolinea Mckenzie Wark in Il capitale è morto (Nero 2021) – quando non è più in grado di affidare all’oggetto tecnico una mediazione responsabile (densa di feedback) del rapporto tra uomo e natura.


L’attualità del lavoro di Simondon risiede esattamente in questo: dietro il rapporto individuo-macchina si cela la relazione uomo-mondo; il che permette all’ingegnere-filosofo di muoversi lontano sia dalla tecnofobia (primitivista) sia della tecnofilia (accelerazionista). Il dibattito culturale sulla tecnologia coevo alla stesura del saggio – ma in qualche modo non vale lo stesso anche oggi? – contrapponeva la speranza di una nuova era pacificata, speranza alimentata da una fiducia smisurata nell’efficienza della macchina (integrati), alla paura di una progressiva emarginazione dell’umano a causa dell’incontrollabile automatismo macchinico (apocalittici).

Simondon, invece, guarda alla tecnica con uno sguardo che prende congedo dalla metafisica della tecnica per cogliere il nesso sempre più indissociabile che, a partire dalla modernità, si è instaurato tra tecnica e umano, per comprendere il modo di esistenza di quest’ultimo in relazione al mondo tecnologicamente associato.

Simondon insegue la dimensione biopolitica della tecnica e stila una genealogia dell’oggetto tecnico e della sua evoluzione che inscrive nella schisi del mondo magico in mondo religioso e mondo tecnico. Premesso che l’oggetto tecnico è il risultato di un processo discontinuo, un’unità in divenire, «che procede dall’astratto al concreto» (p. 41), è possibile distinguere un oggetto tecnico primitivo, la cui vocazione risiede nell’artificialità – è solo grazie all’attività umana che può funzionare – e un oggetto tecnico concreto che trova la sua coerenza nel funzionare-insieme.


Nel mondo magico il vivente, quello che Simondon chiama figura, è parte integrante dello sfondo. Nel mondo magico è lo sfondo, il mondo associato, ad assicurare il dinamismo delle forme di vita. Lo sfondo della materia vivente assicura l’ambiente associato che permette agli organi di formare, in un equilibrio termico e chimico, un organismo. Nei mondi religioso e tecnico, invece, figura e sfondo si separano e il modo di esistenza tecnico si sdoppia in teorico e pratico, marcando una “distanza” tra l’essere nel mondo dell’uomo e gli oggetti tecnici che lo mettono in relazione con la natura. In breve, la struttura reticolare, che Deleuze – il primo entusiasta “scopritore” di Simondon – avrebbe definito rizomatica, è destinata a “sfasarsi” quando si passa dall’unità magica alle tecniche e alla religione:

Mentre i punti-chiave si oggettivano sotto forma di attrezzi e di strumenti concreti, i poteri di sfondo si soggettivano personificandosi nella forma del divino e del sacro (Dei, eroi, sacerdoti) (p. 187).

Le differenti fasi individuate da Simondon non corrispondono a determinati periodi storici, bensì a differenti modalità in cui uomo e oggetto tecnico sono interconnessi. Per semplificare si potrebbe dire che il rapporto problematico tra l’umano e la tecnica materializza due modi di esistenza del primo: uno corrispondente all’infanzia – all’apprendista – e l’altro alla maturità – a colui che, in base alla sua conoscenza, è in grado di funzionare con l’oggetto tecnico.

Per l’artigiano l’oggetto tecnico è un attrezzo, una semplice estensione del suo corpo, mentre per l’ingegnere l’oggetto diventa lo strumento che permette di contribuire a costruire un eco/tecno/sistema metastabile capace di produrre emancipazioni alienanti in continuo con/divenire:

Non è più di una liberazione universalizzante che l’uomo ha bisogno, ma di una mediazione. La nuova magia non sarà da scoprire nell’irradiamento diretto del potere individuale di agire […], ma nella razionalizzazione delle forze che situano l’uomo dandogli un significato in un insieme umano e naturale (p. 120).

Il processo di emancipazione a cui la tecnica può potenzialmente aprire è, per parafrasare Bataille, un movimento dall’alienazione ristretta (essere alieno a se medesimo) a un’alienazione generale (divenire alien* al Sé e al Medesimo). Ciò significa che l’uomo non è semplicemente portatore di strumenti tecnici, ma diviene, abbandonando l’inveterato antropocentrismo che accomuna apocalittici e integrati, parte del complesso macchinico.
Da questa prospettiva, è evidente che Simondon anticipa la riflessione contemporanea che ha fatto proprio uno sguardo al contempo critico e curioso verso la tecnica.

Pensiamo, per esempio, al cyborg di Donna Haraway in cui la macchina si umanizza e l’uomo si meccanicizza in un processo che aumenta ciò che corpo e macchina possono. Haraway che, guarda caso, in Manifesto Cyborg si posiziona in un territorio tecno/ambivalente, affermando che sì, i cyborg sono figli del capitalismo patriarcale, ma sono figli illegittimi e, come tali, sempre in grado di tradire le loro stesse origini. Oppure pensiamo a quanto afferma Isabelle Stengers (Nel tempo delle catastrofi, Rosenberg & Sellier, 2021, p. 145):

Si dice spesso che le tecniche sono neutre, che tutto dipende dall’uso che se ne fa. Ma se si sostituisce l’idea di un uso che si tratterebbe di fare con quella di un utilizzo di cui bisogna apprendere le condizioni specifiche […] ecco che la neutralità cambia di significato – smette di essere ciò che permette di respingere la responsabilità sull’utente, e appare come qualcosa che richiede le precauzioni, l’esperienza, e l’attenzione di cui ogni pharmakon ha bisogno.

Ma pensiamo anche, per fare solo due altri esempi, alla visione più tormentata e tecnocritica dell’organologia farmacologica di Bernard Stiegler – il secondo “scopritore” di Simondon, molto meno entusiasta di Deleuze,– o a quella più proliferante e tecnocuriosa della matrice tessitrici-telai di Sadie Plant.


Tutti questi s/oggetti tecnici eludono la dialettica identità/differenza per trasgredire «il confine tra uomo e animale», quello «tra organismo e macchina» e quello «tra fisico e non fisico», consegnandoci al «piacere di confondere i confini» (Manifesto Cyborg, Feltrinelli 2018, pp. 42-43), e, di conseguenza, alla «nostra responsabilità nella loro costruzione» (ivi, p. 41). Ecco, allora, Antonio Caronia che, dopo aver posizionato, ancora una volta, il cyborg in un territorio anfibio, in cui è contemporaneamente «mostro da capitalismo maturo» e innesco di «processi di alterità» (Dal cyborg al postumano, Meltemi 2020, p. 97), ci domanda sornione:

Se l’ibridazione con la macchina ci consente di giocare con i confini dell’identità e del lavoro, della produzione e della riproduzione sociale, perché non usare queste possibilità per sfuggire alle tenaglie del pensiero (e del comportamento) unico? (ivi, p. 104).

Tornando a Simondon e alla sua evoluzione discontinua, l’oggetto tecnico costituisce una protesi dell’umano fino all’avvento della fabbrica e della cibernetica che differiscono dalla bottega dell’artigiano e dagli utensili non solo per dimensione, ma soprattutto per la loro potenzialità di produrre

una realtà tecnica […] aperta secondo due vie: quella della relazione con gli elementi e quella delle relazioni interindividuali nell’insieme tecnico (p. 163).

Una realtà che è avvertita, seppur inconsapevolmente, come inesorabile decentramento dell’umano con le conseguenti reazioni divergenti sul piano etico ma convergenti su quello filosofico. Al proposito, si pensi in ambito letterario, da un lato all’immaginario cupo di Capeck in La guerra delle salamandre e, dall’altro, a quello ingenuamente fiducioso dell’intera produzione di Asimov.


È su questo proliferare di fratture e di scissioni che deve intervenire la filosofia per operare una sintesi disgiuntiva che possa riprodurre un non-tutto che riattualizzi, con altri mezzi, i rizomi del mondo magico. Una filosofia che assuma il ruolo di trasduttrice di energia tra macchina e umano, umano che continuerà a sperimentare una vita tecnica in relazione alla realtà tecnica in cui è necessariamente implicato. Il compito attuale della filosofia non è, allora, quello di scomunicare o di glorificare la realtà tecnica, ma di pensare a nuove tecnologie politiche in grado di muoverla in direzione emancipativa.

Se «la macchina è uno schiavo che serve a fare altri schiavi»), Simondon afferma che non ci affrancheremo «trasferendo la schiavitù su altri esseri, uomini, animali o macchine», ma impegnandoci nell’elaborazione di «una filosofia tecnica al livello degli insiemi», dove

i veri insiemi tecnici non sono quelli che utilizzano degli individui tecnici, ma quelli che sono un tessuto di individui tecnici in relazione d’interconnessione (p. 144).

La tecnica sembra possedere un nucleo intensamente liberatorio, nel momento in cui, con tutt’altro senso da quello da cui siamo partiti, aliena l’umano.

È con questa alienazione produttiva, con questa fabbricazione di giocattoli, che, oltre la paura e l’entusiasmo, la tecnica torna al proprio posto: al posto che le spetta, nel posto inoperoso del rispetto e della respons/abilità. Come accade con gli oggetti artistici quando restituiscono il complesso intersecarsi dei molteplici modi di esistenza:

L’intenzione estetica è ciò che […] stabilisce una relazione orizzontale tra differenti modi di pensiero. […] L’intenzione estetica racchiude il potere trasduttivo che conduce da un ambito ad un altro; è esigenza di straripamento e di passaggio al limite; è il contrario del senso della proprietà, del limite, dell’essenza contenuta in una definizione, della correlazione tra un’estensione e una comprensione (p. 218).

Se la filosofia sarà politicamente in grado di ricomporre l’infranto, la tecnica potrà veder ritornare i suoi rimossi magici. Tra i quali quello di un corpo artificiale che può farsi corpo disseminato sottratto all’oppressione delle dicotomie binarie e delle tassonomie disciplinanti. Con le parole di Plant:

La Macchina Analitica di Ada [Lovelace], […] prendeva le mosse dalle schede perforate del telaio Jacquard, che a sua volta nasceva dalle matasse di fili delle tessitrici, che a loro volta riprendevano i fili dei ragni e delle falene e le reti delle attività batteriche (Zero, uno, Luiss UP 2021, p. 54).

Senza dimenticare il nucleo normativo e normalizzante della tecnica e senza dimenticare, come insegna Virilio, che «inventare un oggetto tecnico […] significa inventare un incidente specifico» (La macchina che vede, SugarCo 1998, p. 189), dobbiamo costruire una relazione altra con la tecnica, una relazione che vada oltre la mano di Heidegger per scoprire che il vivente della tecnica è un altro spettro che, volens nolens, ci infesta e ci informa con le sue chele, i suoi tentacoli, le sue zampe, le sue antenne, le sue membrane, i suoi capsidi, i suoi nucleotidi…

Nel 1948, Norbert Wiener conia per la prima volta il termine cibernetica a significare la scienza dell’informazione. Nel 1991, Donna Haraway pensa la tecnica come l’informe che “ci” abita. In mezzo, nel ruolo di metaxu, Gilbert Simondon. E, ovviamente, le macchine che cominciano a divenire desideranti.

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