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MONDO

Le primarie in Argentina e l’irruzione del malessere popolare

Le primarie di metà agosto sono diventate una opportunità per rendere visibile il malessere che si accumula nella società argentina, una specie di grido disperato di cambiamento. Così non si può più andare avanti. Un approfondimento di analisi politica per affrontare questi due mesi che ci separano dalle elezioni presidenziali del 22 ottobre a cura del colletivo editoriale della Revista Crisis

Cominciamo questo testo urgente con un paradosso affascinante: le PASO – primarie aperte, simultanee e obbligatorie – sono lo strumento inventato dal potere politico per evitare la frammentazione e generare maggiore stabilità nel sistema politico attraverso il consolidamento dell’offerta, ovvero della sua concentrazione in poche opzioni. Una specie di modo per blindare dall’alto e rinchiudere il gregge in certi spazi predefiniti. Nonostante questo, una volta ancora gli è saltato il gioco e le Primarie sono diventate una opportunità per far sì che il profondo malessere che si accumula nella società argentina si esprima con tutta la sua forza corrosiva e in modo sorprendente. Una specie di grido disperato di cambiamento. Che così non si può più andare avanti.

Di fronte a questa manifestazione, che era già avvenuta nel 2019, si era ripetuta nel 2021 e che lo scorso 13 agosto si è espressa con ancora maggiore chiarezza, si possono assumere due diverse attitudini: fare l’impossibile per introdurre questa volontà popolare nel cono di silenzio cercando di ridurre i danni, far sì che non si diffonda l’eco e fare appello ad uno stratagemma per far si che riconsideri il suo voto; oppure essere fedeli al significato profondo della parola democrazia (il popolo non sbaglia mai) e concentrarsi nel decifrare il messaggio delle urne con molta attenzione, senza paura, senza anteporre i propri interessi, con la maggior sincerità intellettuale possibile. Abbiamo scelto di intraprendere questo secondo cammino.

“Que se vayan todos”

Il primo dato rilevante di queste elezioni è l’aumento record dei voti nulli da quando sono state stabilite le PASO nel 2009. Se compariamo le quattro elezioni presidenziali successive a quel momento, la diminuzione dei voti validi è impressionante: dal 24,3 per cento rappresentato dalla somma dell’astensione, dei voti nulli e di quelli contestati nell’anno 2011, siamo passati al 36,5 per cento delle primarie del 13 agosto, più del 33,3 per cento del 2015 e del 30,3 per cento del 2019. Se nel 2011 il flusso di votanti che non hanno votato per nessuno è stato di 7.434.542, appena la metà dei voti ottenuti da por Cristina Fernández de Kirchner per ottenere la sua nuova rielezione, nel 2023 questa cifra è arrivata agli 11.952.064, situandosi in prima posizione ampiamente oltre i voti ottenuto dal vincitore “libertario”.

Ci troviamo di fronte alla proliferazione di quello che proponiamo chiamare “il cittadino insoddisfatto”, che non coincide letteralmente con quelli che non esercitano il loro diritto di voto ma spiega almeno in parte questa tendenza in crescita.

La disaffezione è la tappa superiore dell’insoddisfazione, in quanto va oltre il “voto castigo” (diretto a colpire il governante di turno) e anche oltre il “voto di rabbia” (che manifesta il disaccordo con la totalità dell’offerta elettorale), per esprimere qualcosa come una disconnessione rispetto alla stessa logica della rappresentanza politica. Scelgono di non credere. E ormai non si aspettano più niente. Magari molti di loro decidono il loro voto all’ultimo momento, basandosi su parametri che nulla hanno a che vedere con la deliberazione ideologica o programmatica. Per ricostruire il vincolo con queste persone e la decisione collettiva sulle questioni comuni è necessario un profondo reset del sistema politico.

Rock and roll

Il secondo aspetto decisivo è l’emergenza, nel doppio senso della parola emergenza, di una nuova forza politica che in appena due anni è diventata la più votata a livello nazionale, contro ogni pronostico e contro il desiderio di stabilità dell’establishment locale. Il fenomenale trionfo di Javier Milei e Victoria Villaruel smentisce quelli che si erano presi gioco delle loro deludenti performance alle elezioni provinciali, senza notare qualcosa di ovvio: il “libertario” si sintonizza con l’esteso malessere popolare. E vince tutte le discussioni politiche che affronta, costringendo sulla difensiva i suoi rivali e proponendo quello che la maggioranza della popolazione sembra desiderare: un deciso cambiamento di rotta, un futuro diverso capace di entusiasmare.

Questo gigantesco aumento della legittimità elettorale assegna adesso al leader ultraliberale un potere immediato per incidere nel corso degli eventi, che si è prontamente verificato con la svalutazione del dollaro ufficiale adottato dalla Banca Centrale. Tutta la capacità di iniziativa sta dalla sua parte.

Se non commette errori, il suo cammino verso la presidenza potrebbe essere imparabile. La grande questione è sapere se per concretizzare la sua marcia verso la Casa Rosada avrà bisogno di destabilizzare l’attuale governo. E nel caso che così fosse, se riuscirà a rendere concreto questo suo desiderio. La principale battaglia politica, quindi, potrà giocarsi già prima di ottobre.

Che sia quello che il popolo vuole

La sconfitta della colazione di governo è inappellabile, nonostante i segni di astuzia che i suoi principali referenti politici mostrano quando insinuano che lo scenario dei tre terzi potrebbe favorirli, grazie ad una strana carambola elettorale. Quello che è certo è che il peronismo è passato dai 12 milioni e 200 mila voti del 2019 (47.79%) ai 7.058.830 voti (32.43%) nel 2021, fino a toccare il fondo la scorsa settimana con meno di 6 milioni e mezzo di voti (27,27%), il che significa una caduta di quasi la metà dell’elettorato in appena quattro anni, e tutto questo mentre sta governando. Ma se puntiamo l’attenzione sul cosiddetto “candidato dell’unità”, la perdita di voti è ancora più eloquente: 7 milioni di voti buttati via, ed una caduta dalle vette della metà dell’elettorato votante fino ad un risultato così basso, quale è il 20%, pari ad un quinto dei voti in gioco.

Un dato meno numerico evidenza fino a che punto il peronismo affronta un dilemma di largo periodo: per la prima volta dal 1945, sarebbe a dire dalla sua nascita, il peronismo è arrivato terzo in una elezione presidenziale.

Tre scene illustrano la crisi delle tre correnti che hanno formato la coalizione nel 2019. La prima, il presidente Alberto Fernández votando tutto solo e deperito nella sede dell’Università Cattolica di Puerto Madero, quartiere dell’oligarchia postmoderna della capitale. La seconda, Malena Galmarini, la sposa del candidato presidente, che ha perso le primarie peroniste nel proprio territorio, mostrando l’evidente grado di perdita di terreno del Massismo. Terza, il kirchnerismo sconfitto per la prima volta al governo della provincia di Santa Cruz, addirittura sconfitto per mano di Milei, un affronto molto difficile da digerire per questa area politica.

Corta vita per il macrismo senza Macri 

L’irruzione de La Libertad Avanza ha mandato in terapia intensiva la tradizionale coalizione di opposizione. Juntos por el Cambio (la coalizione di destra, ndt), è un altro dei grandi perdenti di queste elezioni. Nonostante abbia ottenuto il secondo posto, la possibilità di partecipare al ballottaggio di novembre è seriamente a rischio. Comunque sia, all’interno di questa forza politica vi sono dei chiari vincitori e degli sconfitti. Tra i primi risalta l’ex presidente Macri, non solo perché è riuscito a mantenere la capitale con suo cugino (primo posto alle primarie in vista delle elezioni per il governatore della città, ndt), non solo perché ha festeggiato le primarie presidenziali della coalizione vedendo trionfare la candidata a lui più affine, ma anche perché la sua ipotesi, basata sul fatto che sia ormai maturo il consenso sociale per imporre una vera trasformazione liberale del paese, sembra essere confermata dal voto.

Per quanto riguarda Patricia Bullrich, il trionfo contro la macchina elettorale del suo rivale finisce per trasformarla in una delle figure con maggiore proiezione nello scenario politico a venire, anche se forse queste elezioni le concedono meno possibilità di diventare presidenta di quanto non si pensasse prima del voto. Forse, in assenza di un calcolo razionale per riunire i voti di cui avrebbe bisogno per andare al ballottaggio, finirà per convertirsi in una alleata di Milei nel compito di demolire quel che resto del governo attuale.

Il grande sconfitto delle primarie 2023 è stato Horacio Rodríguez Larreta (attuale governatore della città di Buenos Aires, ndt). Colui che disponeva della migliore macchina elettorale e di infinite risorse economiche, colui che la maggioranza degli analisti davano come sicuro prossimo presidente, ha preso appena l’11% dei voti. Non sarà eccessivo sostenere che, pur trovandoci in un paese dove tutto torna e si ricicla, siamo di fronte alla fine della carriera politica di colui che rappresentava la fredda macchina della gestione, l’eroe dei moderati. Sicuramente continuerà a ricoprire cariche da funzionario e parteciperà alle prossime elezioni, ma ha perso la possibilità di essere la figura alla guida del suo progetto politico.

Rompere il muro

La somma dei voti conquistati da Massa e Larreta, i due politici di professione per eccellenza, i geni della trame politiche, i preferiti dal circolo rosso, i rivali che corrono verso il centro per incontrarsi finalmente, supera appena la cifra di voti raggiunta dal pagliaccio pazzo (Milei, ndt). Se qualcosa sembrano dimostrare queste elezioni è che non si superano le divisione politiche con un ponte che le unisca ma piuttosto lateralmente, come una sorta di esodo dal politicamente corretto. Il problema non è quindi la mancanza di accordi, ma la natura degli accordi esistenti che rendono impossibile qualsiasi risultato, qualsiasi esso sia.

Per le forze popolari e progressiste queste elezioni sono state un colpo durissimo. I peggiori timori sono stati confermati: l’estrema destra estrae il suo potenziale dai votanti più giovani, anche nei settori più impoveriti, inclusi i territori periferici, perché riesce a rappresentare una ribellione contro l’ordine esistente, ingiusto da tutti i punti di vista possibili. La funzione che non abbiamo voluto o saputo assumere viene adesso utilizzata da una narrativa della peggior specie.

Cristina Fernández disse una volta, nel miglior momento del ciclo kirchnerista, che alla sua sinistra c’era solo il muro. Questa formula ha impedito l’emergere di una volontà politica capace di affrontare con coerenza e lucidità il malgoverno peronista. La campagna e il risultato ottenuto da Juan Grabois e Paula Abal Medina (candidati di sinistra alle primarie della coalizione peronista Unione per la Patria, ndt) ha messo in evidenza la necessità di rompere questo muro di contenimento. Impedire che al prossimo governo arrivi l’estrema destra è il nostro compito immediato. Rilanciare un progetto di resistenza e creazione, la cui fedeltà sia legata alla felicità effettiva del popolo, oltre ogni calcolo di governabilità o beneficio politico settoriale, è la cosa più urgente ed al tempo stesso importante.

Articolo pubblicato sulla Revista Crisis, con il titolo “A los tibios los vomita el pueblo“, dal Colectivo Editorial Crisis. Traduzione in italiano di Alioscia Castronovo per Dinamopress.

Immagine di copertina di Emiliana Miguelez, Revista Crisis. Immagini nell’articolo di Mala Abramovich e Martin Rata Vega