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MONDO

Le ombre della “partenza volontaria”

La Turchia ha un vasto sistema di detenzione per i rifugiati che comprende circa due dozzine di “centri di allontanamento” oltre a celle in diversi aeroporti, lungo i suoi confini e nelle di stazioni di polizia. Siriano di quarant’anni, Anas Al Mustafa, è giunto in Turchia nel 2016 e ha subito collaborato con diverse ONG. È stato poi deportato illegalmente in Siria, dopo aver firmato, sotto costrizione, il documento di rimpatrio volontario

EVOLUZIONE DELLE POLITICHE TURCHE IN TEMA DI RIFUGIATI SIRIANI

Dopo il fallito colpo di stato del 2016 contro il governo del presidente Recep Tayip Erdogan, la Turchia ha emesso un decreto di emergenza, il decreto presidenziale n. 676, che conferisce alle autorità ampi poteri in materia di detenzione e deportazione dei non cittadini.

Nei mesi successivi, 130.000 dipendenti pubblici sono stati licenziati dal lavoro, circa 80.000 persone sono state arrestate, e migliaia di ONG sono state chiuse per presunti motivi legati al terrorismo.

Nell’ottobre 2016, il governo ha emesso un decreto di emergenza che enumerava le condizioni in cui i funzionari potevano ignorare gli obblighi di non respingimento. Dal decreto, la Turchia ha aumentato le deportazioni di rifugiati e richiedenti asilo verso paesi non sicuri, tra cui Afghanistan, Siria e Iraq.

L’inasprimento della legislazione turca è culminato, infine, con l’esito delle elezioni amministrative del 2019, in cui il primo partito del paese – il partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) – perderà Istanbul e Ankara, due città nevralgiche per il mantenimento del potere.

 

Fra le ragioni del malcontento popolare, che al tempo lamentava (e tuttora lamenta) il crescente livello della crisi economica e della disoccupazione, v’erano le rimostranze dovute alla presenza massiccia di rifugiati siriani.

 

In concomitanza con il risultato delle elezioni, il governo turco ha emanato una serie di annunci che obbligano i rifugiati siriani a tornare nelle città in cui sono arrivati la prima volta dalla Siria e hanno ottenuto la protezione temporanea.

A luglio del 2019, le autorità di Istanbul hanno annunciato raid, stop-check e arresti di rifugiati siriani registrati in altre città. Le incursioni furono seguite da deportazioni sommarie nel nord della Siria.

La Turchia si serve anche di una limitazione geografica alla Convenzione sui rifugiati del 1951, la quale permette il riconoscimento delle sole persone che fuggono dall’Europa come rifugiati, risultando in un sistema di asilo a due livelli che lascia migliaia di persone che sono fuggite dai conflitti in un limbo legale e senza accesso ai diritti di base.

 

SISTEMA DETENTIVO

L’intensificazione dei controlli di polizia e l’arresto delle persone trovate al di fuori della loro “città satellite” assegnata hanno portato a un aumento della detenzione nei centri di allontanamento.

Secondo il Directorate General for Migration Management (DGMM) , 6.416 siriani non registrati sono stati inviati verso i centri di accoglienza temporanei tra luglio 2019 e novembre 2019.

 

Foto da Flickr

 

La capacità di detenzione è aumentata nello stesso anno con un totale di 28 centri di detenzione attivi che ospitano 20.000 persone. Ciononostante, sono state utilizzate altre strutture per la detenzione preventiva, comprese stazioni di polizia e impianti sportivi.

 

La Law on Foreigners and International Protection (LFIP) distingue tra detenzione amministrativa ai fini dell’allontanamento e detenzione nella procedura di protezione internazionale, disciplinate rispettivamente dagli articoli 57 e 68.

 

L’articolo 68, paragrafo 2, individua quattro motivi che possono giustificare la detenzione di richiedenti protezione internazionale: in caso di seri dubbi sulla veridicità delle informazioni sull’identità e sulla nazionalità fornite dal richiedente ai fini della verifica dell’identità e della nazionalità; ai varchi di confine, al fine di impedire l’ingresso irregolare; laddove non fosse possibile identificare gli elementi principali della domanda di protezione internazionale del richiedente a meno che non venga applicata la detenzione amministrativa; quando il richiedente rappresenta un grave pericolo per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza.

Anas Al Mustafa non è associabile a nessuno dei quattro pretesti sopra menzionati. Egli, al momento dell’arresto, possedeva il documento d’identità turco, il documento dell’UNHCR e il passaporto siriano. Quando lo hanno arrestato, i poliziotti turchi hanno stracciato tutto. Lo hanno messo senza motivo in una macchina civile e senza targa, e lo hanno portato alla frontiera turca.

 

 

IL VIAGGIO DI ANAS

La questione relativa alla firma sul documento ufficiale che attesta la volontarietà nel lasciare la Turchia ha molti lati oscuri che non mancano di essere svelati alle società dalle organizzazioni non governative (Ong) internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani.

È il caso di Amnesty International, che nel 2020 ha pubblicato le denunce di sei ragazzi siriani, fra cui lo stesso Anas al Mustafa , che descrivono le modalità con cui sono stati obbligati a firmare i documenti della partenza volontaria.

 

Le peripezie di Anas sono molteplici e, a oggi, non ci sono spiegazioni che ne giustifichino il trattamento inumano e degradante a cui à stato sottoposto.

 

Anas proviene dalla città di Aleppo. Nei momenti che hanno caratterizzato la guerra in Siria ha deciso di non prendere parte né alle proteste pacifiche iniziali né quando la situazione è precipitata negli abissi delle milizie che controllavano gran parte del suolo siriano. Nel 2016, la scelta di scappare dalla Siria era inevitabile, quindi, si è diretto verso la Turchia. È arrivato a Konya, città situata nel sud-ovest della Turchia.

Fin dall’inizio, Anas ha deciso di essere parte attiva nelle organizzazioni internazionali che lavoravano a stretto contatto con i siriani presenti a Konya. Inizialmente ha fatto parte di una Ong turca, la quale, però, venne chiusa pochi mesi dopo, in concomitanza con le scelte politiche governative riguardo alla chiusura di grande parte di Ong per motivi legati al terrorismo.

Decide dunque di fondare una propria organizzazione a cui darà il nome di “a friend indeed” . Qui continuerà il suo lavoro di volontariato con le famiglie siriane indigenti presenti in città: 175 famiglie, di cui 400 orfani e donne che hanno perso i loro mariti durante la guerra in Siria.

Il suo aiuto si basava su un contributo per le spese alimentari: ad alcuni ha pagato l’affitto e ad altri le spese della corrente elettrica. Negli anni, la sua associazione ha collaborato con le organizzazioni italiane “Crescere insieme” e “Mani di Pace”, oltre che con l’organizzazione rumena “Help and care trust”.

 

Anad Al Mutafa con i bambini aiutati dalla sua Ong a friend indeed. Foto della stessa Ong

 

Lo scorso 15 maggio, senza preavviso, la polizia turca ha fatto irruzione nella sua dimora chiedendogli se avesse la cittadinanza turca. «Ho risposto loro che avevo inviato una domanda alla città di Ankara ed ero ancora in attesa della risposta; quindi i poliziotti turchi mi hanno gentilmente chiesto di andare con loro perché avremmo parlato della mia cittadinanza. A quel tempo, ero davvero felice. Sono andato con loro alla stazione di polizia. Ma alla fine mi hanno tolto il telefono, il portafoglio, l’orologio e mi hanno messo in prigione. Ero scioccato. Ho chiesto perché mi state mettendo in prigione? Cos’ho fatto di sbagliato? Nessuno ha risposto».

In prigione, Anas ha fatto la conoscenza di altri siriani incarcerati con la stessa procedura: dapprima l’accompagnamento forzato nella stazione della polizia, successivamente in carcere. Non trascorsero troppi giorni prima che la polizia turca potesse esercitare pressione su Anas per costringerlo a firmare il documento della partenza volontaria.

Tuttavia, Anas decise di resistere e rispondere con fermezza che non avrebbe firmato nulla che non avrebbe capito, considerando che i documenti erano in turco e che lui aveva fatto presente di non saperlo. I giorni a seguire furono per Anas un groviglio di rabbia, fame – era mese del Ramadan – frustrazione, confusione.

Le strategie con cui vengono portate a termine le firme delle partenze volontarie sono numerose e diverse, ma l’unico tratto comportamentale, che si presenta sistematicamente è quello delle urla, delle violenze fisiche e psicologiche, fra cui le minacce.

«Il 20 maggio hanno portato dei documenti e mi hanno chiesto ferocemente di firmare. Ma io volevo ancora sapere quali fossero i miei crimini: il motivo per cui ero lì. Si sono rifiutati, un’altra volta, di darmi una risposta. Non solo, ma hanno anche iniziato a urlarmi contro, minacciandomi e dicendomi: “se rifiuti ti porteremo in un campo profughi in Siria o in prigione a Gaziantep per restarci sei mesi o un anno, come punizione”. Ho risposto, molto umilmente e poiché era una delle mie ultime richieste nella vita, che non dovevano trattarmi come un rifugiato, e nemmeno come un musulmano, il mio unico desiderio era quello di essere trattato come un essere umano».

 

La polizia turca, dopo pochi giorni, deportò Anas al confine turco-siriano. Lo fecero nel chiarore della prima luce utilizzando una macchina civile e senza targa.

 

«Mi hanno detto: “abbiamo varcato il confine, non siamo più in Turchia, vai e gestisciti da solo”. Mi hanno portato da Bab al Hawa a Darkush, il centro di isolamento. Quando sono arrivato lì sono rimasto colpito. C’erano 170 persone, il posto era davvero sporco, stavo digiunando e non potevo interrompere il digiuno perché non c’era cibo. Sono rimasto 48 ore senza mangiare. Ho continuato a nascondermi come un topo, per più di cinque mesi sono rimasto nella città di Idlib».

Come hai fatto a fuggire dalla Siria, gli chiedo. «Sono rimasto a casa del mio amico a Idlib. In pericolo, avevo paura. Ha contattato alcuni trafficanti e sono andato nella parte occidentale di Idlib. Ho camminato per 30 ore, attraverso le montagne, senza cibo né acqua, e ho raggiunto Antakia, e da li sono tornato a Konya».

Attualmente, Anas si divide fra le dimore degli amici, conoscenti e parenti che si espongono al rischio di essere arrestati e di affrontare punizioni analoghe. Dal suo ritorno, non ha fatto rientro nella sua dimora.

I vicini con cui è in contatto lo avvisano che la polizia turca si aggira con regolarità attorno al palazzo in cui era solito vivere. La storia di Anas sta riscontrando la giusta risonanza mediatica. Grazie anche all’aiuto di un’avvocatessa italiana, Chiara Modica Donà Dalle Rose, titolare dello studio International Law Firm Politeama, che ha offerto – insieme ad altri avvocati e avvocate – supporto legale ad Anas a titolo gratuito per presentare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Anas è stato inoltre intervistato da Radio Vaticano il 28/02/2021.

Alla fine della nostra intervista, Anas si cura di farmi presente che adora la Turchia, molti dei suoi amici turchi si sono rattristati sentendo le ultime notizie sulla sua espulsione.

E poi mi dice sommessamente: «Posso andare in qualsiasi tribunale in Turchia per coloro che vogliono indagare su di me. Sono pronto. Ma per favore non deportatemi in Siria. Posso andare ovunque. Chiedo a tutte le persone che credono nell’umanità: non voglio andare in Siria».

 

 

Foto di copertina da Flickr