EDITORIALE

Le nostre vite valgono. Salute e reddito subito

Rivendicare lockdown e reddito universale è l’unico modo per invertire una scomposizione sociale alimentata dall’alto: blocco della produzione, priorità assoluta alla cura collettiva e garanzie di vita durevoli per tutti e tutte. Un programma da finanziare con patrimoniale, tasse su profitti e transazioni e affiancato da investimenti massicci in sanità, trasporti, istruzione e sistemi di tracciamento

Posto davanti alla curva dei contagi tornata da settimane in una risalita esponenziale e sotto i colpi di un’ennesima crisi economica che spezza le illusorie speranze di una ripresa immediata, il tessuto sociale in Italia comincia visibilmente a sfasciarsi. E questo avviene, e ancor più avverrà, in forme non facilmente inquadrabili in consumati schemi ideologici. Non c’è la rivolta santa degli straccioni e nemmeno l’epopea del lavoro informale e precario, tanto meno la riscossa della classe operaia. La pandemia di Covid-19 si è abbattuta su una società già logorata da un ventennio di austerità neoliberale, che ha frammentato interessi e classi e dissolto le loro espressioni partitiche e sindacali.

I tentennamenti del Governo hanno fatto il resto: impreparato di fronte a un’emergenza questa volta del tutto prevedibile e determinato a non prendere decisioni drastiche e tempestive, il Governo Conte – con un occhio rivolto verso Confindustria e l’altro verso i sondaggi – ha preferito optare per una serie di misure restrittive ma a singhiozzo e di dubbia efficacia, scaricando buona parte delle responsabilità verso le istituzioni locali.

 

La logica selettiva delle chiusure, più che all’evidenza di criteri epidemiologici, ha risposto alla forza delle rappresentanze di settore: chiudono cinema, teatri, palestre, piscine, in parte le scuole e dopo le 18 bar e ristoranti, ma restano aperte le grandi fabbriche e i poli industriali rappresentati da Carlo Bonomi.

 

Questo procedere, ha avuto il solo merito di animare una contesa tra categorie: alla frammentazione del welfare e alla competizione nel mercato del lavoro, si è aggiunta ora la disputa sulle attività «sicure ed essenziali». Di fronte poi all’estendersi di proteste che da Napoli in avanti hanno attraversato le strade di moltissime città italiane, avanzando la chiara richiesta di soldi come contropartita alla chiusura delle attività, il Governo ha emanato in fretta e furia il Decreto “ristori”: una forma di risarcimento rivolto a imprese ed esercizi commerciali colpiti dalle chiusure, con l’aggiunta dell’estensione della cassa integrazione e di una serie di bonus per precari e poveri. Un decreto che replica lo stesso schema degli interventi iper-categoriali e a tempo che avevano caratterizzato la prima ondata e la cui logica costituisce in fondo le premesse della rabbia di questi giorni.

 

 

Mentre infatti la grande impresa è stata messa al sicuro dalle ultime chiusure e assistita con generosi finanziamenti senza alcun limite e contropartita, i piccoli imprenditori e i gestori degli esercizi commerciali sono rimasti da soli ad affrontare le consistenti perdite dovute alle restrizioni della circolazione urbana. Per non parlare della grande massa dei lavoratori poveri e informali che sono stati gettati sul lastrico, quasi poveri prima e alla fame adesso.

 

Il problema è che gli effetti della pandemia – crisi sanitaria e crisi economica – non sono né passeggeri né “democratici”. Come ormai molti studi dimostrano, il virus uccide poveri e classe media e nel medio periodo distrugge l’intera economia, mentre i ricchissimi sopravvivono e prosperano.

 

La pandemia con i suoi effetti ha fatto venire allo scoperto e radicalizzato debolezze strutturali del sistema di welfare, assieme a diseguaglianze e miserie di condizione che erano già da tempo incistate nella società italiana e che proseguiranno ben oltre il picco dell’emergenza sanitaria. Per questo la logica emergenziale adottata dal governo riesce solo a prendere tempo fino alla crisi successiva, che ogni volta si presenta più drammatica e con un livello di solidarietà sociale sempre più eroso.

Rivendicare oggi, immediatamente, lockdown e reddito universale, è l’unico modo per invertire una scomposizione sociale alimentata istituzionalmente: blocco generalizzato della produzione, priorità assoluta alla cura collettiva e garanzie di vita durevoli per tutti e tutte. Questo programma minimo va finanziato con patrimoniale, tasse sui profitti e sulle transazioni e affiancato da investimenti massicci in sanità, trasporti, istruzione e sistemi di tracciamento efficaci.

 

Ma un programma non è solo una lista di pretese, è anche un discrimine politico. Nonostante le mobilitazioni di questi giorni siano a tutti gli effetti irriducibili a tradizionali schemi ideologici, questo non vuol dire affatto che siano indistinte: dire che sono “spurie” è tanto banale quanto inconcludente.

 

Non tutte le manifestazioni di queste notti sono eguali e non in tutte le manifestazioni gli interessi sono coesi. Chi grida oggi “Libertà, Libertà” sa bene quello che vuole: rendere accettabile la morte di migliaia di persone per difendere un sistema di produzione e consumo dai guadagni concentrati nelle tasche di pochi e dai costi sociali diffusi.

Così come di converso chi mette al centro la difesa della salute e delle condizioni materiali di vita sa altrettanto bene che non si uscirà dalla crisi senza un rivolgimento dei rapporti sociali e una trasformazione radicale di un modello economico fallito.

Se attraversare le piazze oggi è una necessità incomprimibile, rendere manifesta questa contraddizione non lo è certo di meno: questo il nostro impegno nei prossimi giorni.