MONDO

L’attacco turco contro Kobane

Feriti e morti in un attacco dell’esercito turco contro la città di frontiera di Kobane. Ancora una volta la vita della città è in pericolo, questa volta per l’azione di un grande alleato dei paesi occidentali.

Il sultano turco Erdoğan non ha concluso la sua guerra contro i kurdi al di fuori i confini del proprio paese. Dopo aver attaccato Afrin assieme a milizie islamiste nella primavera scorsa, il 31 ottobre ha iniziato a bombardare i villaggi attorno alla città di Kobane, in particolar modo Selim, e Kor Eli a ovest della città, uccidendo una bambina kurda di 10 anni. Il 2 novembre è stato invece attaccato il villaggio di Tal Abyad, e nel bombardamento sono rimasti feriti due giornalisti kurdi. L’attacco è parte della strategia turca finalizzata all’annientamento della presenza kurda organizzata nell’area di confine.

Da pochi giorni, le YPG avevano iniziato una missione in coordinamento con l’esercito Usa, finalizzata al pattugliamento del confine con quello che rimane dell’IS tra Iraq e Siria, nella regione di Deir Ez Zor. Ovviamente, in questa situazione, la missione è stata immediatamente sospesa per permettere ai combattenti kurdi di piegare su Kobane e difendersi dal nuovo attacco di Erdoğan.

Il 1 novembre è stato dichiarato il World Kobane Day, a memoria dell’eroica resistenza della città di Kobane, guidata dai guerriglieri e dalle guerrigliere kurdi/e YPG e YPJ, che ha permesso, nel 2014, di contenere l’avanzata dell’IS in Medioriente. Proprio in questa data simbolica, la città è di nuovo sotto attacco. Questa volta però l’attacco non viene dallo stato islamico, universalmente riconosciuto come un nemico. L’attacco viene da uno stato membro della Nato, un attore fondamentale nel quadro delle politiche statunitensi e europee nell’area, un “amico” che, ricordiamolo, quando venne a Roma, a febbraio 2018 è stato accolto con tutti gli onori da ministri, Vaticano, e soprattutto dall’imprenditoria italiana che vede nella Turchia un partner commerciale fondamentale. Erdoğan, dopo Afrin, ora sta di nuovo attaccando l’esperienza straordinaria del Rojava, dove attraverso il confederalismo democratico, persone di culto, etnia e cultura diversa hanno trovato un modo per vivere assieme, in forma ecologica e partecipativa.

Da quando è stata liberata, Kobane è tornata a vivere, in un lento processo di ricostruzione delle macerie in cui era stata ridotta, sostenuto anche con molte forme di solidarietà dal basso.

Ora una nuova minaccia sta incombendo sulla città e questa volta nel silenzio della comunità internazionale. Gli Stati Uniti non si sono espressi, nonostante l’attacco abbia interrotto una operazione militare di notevole importanza da loro sostenuta (quella di Deir Ez Zor). L’Europa è tenuta sotto scacco da Erdoğan sulla questione migranti, e quindi rimane in silenzio come ha fatto (con poche, flebili eccezioni) durante l’attacco di Afrin.

È pertanto un compito urgente della società civile globale impegnarsi perché la città non sia lasciata sola.