MONDO

L’Algeria torna in piazza

Dieci giorni di proteste contro la candidatura di Bouteflika a presidente del paese per la quinta volta. Alla fine quest’ultimo promette futuri cambiamenti ma le proteste segnano un momento importante per un paese sottomesso da anni all’autoritarismo

Nella giornata di domenica 3 marzo sono ricominciate in modo significativo e massiccio le proteste spontanee in tante parti dell’Algeria contro la decisione di Abdelaziz Bouteflika di candidarsi per la quinta volta consecutiva (è in carica dal 1999) come presidente del più grande stato africano.

Le proteste sono iniziate 10 giorni fa, dopo l’annuncio fatto dall’attuale presidente, che ha ormai 82 anni e vive in precarie condizioni di salute da molto tempo. Nella giornata di domenica le proteste sono state particolarmente forti in quanto giorno in cui la candidatura è stata ufficialmente presentata al Consiglio Costituzionale di Algeri – ed era l’ultimo giorno in cui era possibile farlo. Le proteste ancora una volta sono state represse da parte della polizia con violenza, cariche, idranti e gas lacrimogeni. Non ci sono ancora stime sui feriti di domenica, ma solo nella giornata di venerdì 1 marzo si sono registrati 183 feriti e un morto per infarto durante gli scontri.

Alla fine della giornata di domenica è arrivata la conferma della candidatura e al tempo stesso una lettera-comunicato di Bouteflika da Ginevra, dove è ricoverato da tempo in una clinica. Il presidente promette ai manifestanti che, una volta eletto, convocherà una conferenza inclusiva per elaborare una nuova costituzione e indire elezioni presidenziali anticipate che, a suo dire, non vedranno la sua partecipazione. La lettera ha l’evidente finalità di fermare le proteste, ma non si sa se riuscirà nell’obbiettivo visto il malcontento diffuso nel paese.

L’Algeria rappresenta un unicum rispetto al resto del mondo nordafricano per molti aspetti. Il paese è stato l’unico a non essere stato coinvolto dalle proteste del 2011 comunemente chiamate la “Primavera araba”. Per gli algerini, l’unico fattore di cambiamento in quell’anno così straordinario per tutto il Mediterraneo fu la sospensione dello “stato di emergenza” che durava dalla fine della guerra civile (2001) che impediva manifestazioni e proteste e conferiva poteri polizieschi all’esercito.

Tuttavia, nonostante quella sospensione, la chiusura militaresca, il controllo sulla vita delle persone e la repressione in Algeria sono a tutt’oggi elevatissime, lo spazio per il dissenso è minimo. La stampa fatica a esprimersi liberamente e i giornalisti internazionali sono malvisti. Anche reperire informazioni in merito alle proteste di questi giorni è molto complesso, e la maggior parte degli hub dell’informazione globale internazionale (inclusa Al Jazeera) ribadiscono in ogni articolo “le fonti locali dicono…” perché è molto difficile inviare reporter e poter testimoniare in prima persona quanto stia accadendo.

Si può dire che ci sia una significativa componente giovanile nelle proteste (i campus di Algeri e Orano sono spesso i luoghi da cui le marce hanno inizio) e una forte componente femminile. Alcuni analisti sottolineano che l’opposizione ufficiale a Bouteflika è molto debole e divisa e che questo movimento, nato spontaneamente il 22 febbraio, potrebbe mancare di strategia e leadership.

Vi è anche il rischio di una strumentalizzazione delle proteste da parte dei partiti islamici.  Il più grande di essi, il Movimento della Società per la Pace, ha minacciato di ritirarsi dalla competizione elettorale se il presidente incarica confermasse la partecipazione.

Tuttavia è altrettanto innegabile quanto sia notevole, trasversale e diffusa la determinazione della popolazione a tornare in piazza dopo tanti anni oscuri di chiusura e repressione.

In Algeria l’élite militare dei veterani della guerra di liberazione contro la Francia (Bouteflika è uno dei pochi ancora in vita) oggi ha ancora un ruolo fondamentale e di questo gruppo di potere la popolazione locale ha terrore. Poco dopo aver raggiunto dolorosamente la liberazione (1962) questi mantennero il potere in modo autoritario e dispotico per anni con i presidenti Boumedienne e Bendjedid e soprattutto applicarono nella successiva guerra civile contro i movimenti islamici (1990-2002) le stesse tecniche di repressione, tortura e violenza che il regime coloniale francese aveva applicato nei loro confronti per decenni. Il paese, pertanto, non ha mai vissuto realmente spazi di libertà per la società civile in una storia tanto travagliata e violenta.

Un fattore infine va tenuto in considerazione. Per anni la situazione economica stabile del paese, con una economia molto basata sulla abbondante esportazione di combustibili fossili, ha avuto il ruolo di compensazione per la mancanza di democrazia interna. Oggi il malcontento cresce perché invece la situazione economica è debole: la disoccupazione in crescita così come il costo della vita mentre il calo dei prezzi delle materie prime rende la situazione del paese più fragile e i primi a pagarne il prezzo (proprio come nel resto del Nordafrica nel 2011) sono i giovani, sempre in prima file nelle proteste di questi giorni.