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La voce rubata dell’anarchia

La rimozione dell’anarchia nel pensiero filosofico viene analizzata da Catherine Malabou in “Al Ladro! Anarchismo e filosofia” (Eleuthera): una rimozione che è al centro della problematica anarchica e parla della praticabilità politica dell’assenza di governo

Non un’incomprensione, che richiederebbe un supplemento di sapere da uno dei due lati, a dispiegare l’intoppo, né un fraintendimento, che per trovare soluzione necessiterebbe di un’economia e di un’ecologia dei vocaboli, quanto invece un disaccordo, per utilizzare la terminologia di Rancière, è ciò che complica il rapporto tra filosofia e anarchismo. Perché disaccordo, spiegherebbe il filosofo francese, è quella situazione che riguarda non tanto l’argomentazione, la sua fattura e la sua claritas, quanto piuttosto l’argomentabile stesso: la presenza di un terreno comune a partire dal quale intendersi o fraintendersi. «La situazione estrema del disaccordo è quella in cui X non vede l’oggetto comune che Y gli presenta, perché non sente che i suoni emessi da Y compongono parole e disposizioni di parole simili alle sue».

Dalla consapevolezza di questo incontro mancato, di questo «ritardo» (p. 9) nasce Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine Malabou, allieva di Jacques Derrida e docente di filosofia della Kingston University di Londra. Il volume, pubblicato da elèuthera nell’attenta traduzione di Carlo Milani, esplora il concetto di anarchia mettendosi in ascolto delle opere/voci di sei filosofi (Schürmann, Lévinas, Derrida, Foucault, Agamben e Rancière): se tutti hanno attribuito all’anarchia un valore fondante, ontologico, etico o politico, nessuno di loro ha però mai avviato una riflessione sul pensiero anarchico, anzi dismettendone con malcelato imbarazzo manifestazioni storiche e (soprattutto) implicazioni pratiche.

«I filosofi dell’anarchia non hanno mai concettualizzato la dimensione anarchica del loro concetto di anarchia, e questo non per avviare l’anarchismo verso una nuova fase, post-moderna, ma proprio per dissociarsene» (p. 31). Quasi che voce disarticolata, e non già parola significante, sia anzitutto quella dell’anarchia davanti alla filosofia e ai suoi esponenti. Un po’ come quella di un animale: neanche di quest’ultima, infatti, Derrida sapeva individuare un rappresentante istituzionaleo interprete – e non per caso Malabou ricongiunge, al termine del volume, animale e anarchia nella figura del non-governabile. Mancando della parola e dell’intenzione, si dice, dell’animale non può darsi governo ma solo dominio (entro il quale ricade anche la più amorevole domesticazione). In esso vi sarebbe qualcosa di estraneo – di altra specie! – rispetto all’ordine gerarchico; qualcosa che è forse la vita stessa. Eppure quel qualcosa che è la vita, quell’allergia al dominio e alla sottomissione, alla sovranità e al governo, non appartiene un po’ a noi tuttə? Ancora con Derrida, potremmo provare a riconoscere in noi stessə l’animale che dunque siamo: prima di affrettarci a ricondurre le bestie a un orizzonte di razionalità, espressività, agency paragonabile al nostro, dovremmo rivedere la nostra umanità con i suoi criteri di espressione e riconoscimento.

Ma procediamo con ordine. Iniziando a sottolineare, come ricorda Malabou citando Reclus, che «il nostro fine politico […] è l’assenza di governo, è l’anarchia, la più alta espressione dell’ordine» (p. 8) e, citando Proudhon, che «l’anarchia è l’ordine senza il potere» (p. 32). Partiamo allora dal furto perpetrato dalla filosofia stessa, ossia quello dell’anarchia allə anarchichə. Il furto non è semplicemente confisca e sottrazione, ma qualcosa che immediatamente si reduplica in dissimulazione dell’esproprio stesso, sparizione della sparizione: gioco a somma zero per meglio conservare l’oggetto rubato, che così appare posseduto legittimamente. Non si origina a questo modo la proprietà, si domandava Proudhon? Non si origina in questo modo il dominio, chiede tutto sommato Agamben?

Lungo questa linea di rapina ha operato la filosofia con il pensiero anarchico, proprio a partire da quella rivoluzione semantica del termine che Proudhon ha esplicitato con la sua ben nota dichiarazione d’appartenenza: «Io sono anarchico». Rivoluzione di cui i filosofi tacciono, dice Malabou, e a cui però costantemente – periodicamente, così fa del resto la rivoluzione – ritornano e si volgono, che sia per svolgere la propria riflessione sull’Essere o sul rapporto con l’Altro o sull’ospitalità….

Schürmann può allora utilizzare l’evento heideggeriano per allestire una rappresentazione non metafisica dell’Uno, non più principio fondazionale né principio causale né principio tout court, ma mera «costellazione» «attraverso cui le cose si coordinano» (p. 89): an-arkhè che annuncia una libertà tale da disattivare, col proprio potere, anche il potere di volere. Tuttavia, «dire “sono anarchico”, scegliere di dirlo, volerlo dire, sarebbe in contraddizione con l’anarchia stessa, la trasformerebbe in una posizione e, quindi, in una nuova arkhè» (p. 93). Double-bind cui Malabou risponde facendo giocare il testo contro sé stesso, facendo sparire la sparizione – se, diceva Schürmann, «per comprendere la povertà bisogna essere poveri. [Se] per comprendere il distacco, bisogna essere distaccati» (p. 102), per comprendere l’anarchia cosa si dovrà – potrà, vorrà – mai fare?

Analoga difficoltà in Lévinas. L’incontro con l’Altro ha il potere di disfare la sovranità dell’Io, di farsi ingiunzione etica alla responsabilità per l’Altro. Imperativo che precede addirittura il comando – davanti al volto d’Altri anche la nostra temporalità lineare impallidisce: faremo e poi ascolteremo è la modalità con la quale si assente prima ancora di averlo deciso. Vocazione tanto esorbitante da richiedere una forma di ordinamento per poter essere presentabile, per farsi (in) società e ripulirsi da quell’eccesso che è, a ben vedere, rischio di follia. In principio, o en arkhè, era forse l’an-archia e, proprio per questo, è necessario «l’ingresso del terzo»: «per mettere ordine in questo sconvolgimento» (p. 130). Anzi, la libertà consisterebbe proprio in questo ordine di ragione, che preserva dalla forza anarchica di Altri, da un faccia-a-faccia che avrebbe la forza impetuosa della tirannia e della servitù. Così lontano, così vicino! Con la mediazione del concetto di servitù, Lévinas non perde l’occasione per guardare nell’abisso dello schiavo? Quello schiavo che, dice Aristotele, per propria natura non appartiene a sé stesso, quello schiavo che, ancora con Aristotele, usa ma non possiede quel logos atto a governare – esattamente come l’animale che ha solo voce e non parola, come il Dire lévinassiano che non riesce a ordinarsi in Detto, a farsi discorso e forma proposizionale di senso compiuto? Quello schiavo che, tutto sommato, è immagine del non-governabile?

Anche Derrida può così stanare il fondamento mistico di ogni autorità  e al contempo invocare l’ordinamento democratico; questo anzi avrebbe la funzione di salvaguardare l’anarchismo messianico da quell’anarchia naturale che è il potere stesso nel suo scatenarsi, tanto simile al terrore e al terrorismo. E, sempre in questa zona di ambiguità, Foucault può raccontare del cinico Diogene, la cui «critica sarà pertanto l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata» (p. 206) e contemporaneamente materializzare la resistenza al governo nell’obbedienza del soggetto a sé stesso. Eppure, oppure? È proprio qui che appare quell’animalità cinica e canina che è compito e scandalo assieme, che è indifferenza alla logica del dominio e alla logica del comando – alla logica tout court.

È a questo livello che torna quella parte maledetta che, racconta Malabou attraverso Rancière, è la parte dei senza-parte. L’uomo (sic!) è animale politico perché dice, al di là del proprio piacere e del proprio dolore, il bene e il male che si vorrebbero oggettivi, comuni – e lo sa dire a quel comune, comunità o comunanza entro cui ruoli, doveri e meriti sono in origine ripartiti secondo un logos. La filosofia si è spesso fatta apologia, descrizione neutra o accesa critica di questa favola del logos calcolante, ha tentato di meglio discernerne il senso, di appianarne le storture – eppure, oppure, la filosofia è questo logos stesso. Ed è al di sotto di questa pur sensata e assennata parola che resiste una voce incomprensibile, impresentabile, che è quella che manifesta invece il torto (all’origine, dell’origine) di ogni comunità. Che è l’eguaglianza di ciascunə con chiunque, la pura contingenza di ogni ordine sociale, l’evidenza dell’anarchia ultima su cui ogni gerarchia riposa e s’innesta – che è la semplice (precaria, non nuda) vita, ripete Malabou. C’è infatti sempre una massa – ce lo dice l’animale fonico – che l’animale logico e parlante ha escluso dalla scena comune; una massa oscena, certamente, perché al comune non potrebbe portare e che, di fatto, non porta, nient’altro che sé stessa. E che però, senza portare niente, al comune pretende di prendere parte – Al ladro!

Da questa bocca, o enorme ventre, non escono parole, nota ancora Malabou ventriloquando Rancière, esce solo rumore. Il discorso comune non ne tiene conto e deve anzi dimostrare (parola che si fa resoconto), prima ancora di non com-prenderlo, di non poterlo sentire. Cos’avranno mai da spartire tuttə costoro? Nuova sparizione della sparizione, prestigio sul quale si fonda ogni legittimità – che però è solo presunzione. Un simile gioco, un brutto tiro, pare quello che la filosofia ha giocato all’anarchia, che non avrebbe rappresentanti da ascoltare, una storia da esporre, parole da far valere. Solo, un’impresentabile voce a testimoniare nient’altro che sé stessa. E, proprio per questo, non-governabile! Perché, che mai fare di questa idiota, puntuale, coincidenza con sé? In questo punto c’è qualcosa di estremamente semplice, scriveva Bergson – qualcosa di così tanto semplice che i filosofi non sono riusciti a dirlo, anche se ha parlato tutta la vita. «La filosofia non è nient’altro che l’evitamento dell’an-arch[ismo]”» (p. 360), sostiene Vivien Garcìa. Allora, proseguiremo noi, questo qualcosa, forse, è proprio l’anarchia. Oppure, eppure, questo qualcosa è la vita.