approfondimenti

OPINIONI

La grazia del fallimento

Mentre sul bordo d’Europa tuonano i cannoni e sfilano i tank, si allarga la forbice tra ricchi e poveri, vincenti e sconfitti. Possibile combattere ancora, quando la notte si fa sempre più buia?

Al Μονή Πρέβελη, che seppe resistere ai nazisti.

1. La sola grande letteratura che non possiamo smettere di leggere è quella che racconta il fallimento, le «illusioni perdute», «l’incrinatura» e la caduta. Di una classe sociale, di una generazione, di un poeta, di un amore; «la fine di un mondo». E del fallimento, oggi, ci raccontano le tecnologie della comunicazione (con il buffering o il fallimento del touchscreen), le biografie lavorative, l’irrilevanza politica della moltitudine dei working poor.

Falliti sono anche coloro che debbono essere «resilienti»: lavoratori a tempo determinato che, nella vita, passano la maggior parte del tempo a lavorare per (poter) lavorare. Tutta una trafila di presentazioni del curriculum vitae, di application; tutto un bando e un avviso, e ancora un bando, un progetto da scrivere; tutto un minuzioso calcolo delle relazioni utili, o comunque da non trascurare; montagne di aperitivi, di chiacchiere, chat, immagini su Instagram che raccontano una vita già esposta prima di essere (davvero) vissuta.

Il più grande pensatore della crisi europea che non si placa dalla fine del secolo decimonono, Georg Simmel, parlando del denaro descrive la società contemporanea come una corsa senza ritmo, né carattere o singolarità, nel quale il mezzo per eccellenza, il denaro appunto, è divenuto l’unico fine. Così è divenuta propriamente la vita, un secolo dopo Simmel. Una corsa continua tra un lavoro e un aperitivo di lavoro, dopo un pranzo di lavoro nel quale non si smette di ricevere e scrivere messaggi in una chat di lavoro. Flusso indistinto, nel mezzo di relazioni tutte indifferenti: il denaro, nella sua smaterializzazione, ambisce a diventare velocità assoluta, divina, nella quale le vacche saranno pure sgargianti, ma comunque indifferenti. Il risveglio, come lo è stato per le criptomonete, è il fallimento: prevedibile eppure non previsto.

Così, da un fallimento all’altro, corre la vita dei mortali, sin quando una guerra non decide di affondare il fallimento nella carne, nel sangue, nello stupro.

2. La bellezza non è la grazia: si può essere belli, ma in nessun modo pieni di grazia. Dobbiamo a Friedrich Schiller la distinzione più radicale dei due concetti. Radicale, perché greca e politeista nella genesi, in alcun modo cristiana e protestante. Mentre la bellezza è natura, la grazia è accidente, relazione, gesto, espressione. Con la grazia, la natura si fa morale, la virtù sembra naturale. Vi sono tecnica, esercizio, dedizione, ma la regola non domina la carne, si fa carne, mentre la carne si esprime secondo una regola. «Anima bella», scrive Schiller nel 1793, criticando la seconda Critica di Kant. Dopo la Fenomenologia dello spirito di Hegel, è divenuto impossibile, quando non sconveniente, utilizzare la formula di Schiller (e di Jacobi, di Novalis): si chiama anima bella colui che non vuole sporcarsi le mani con la merda, sociale e culturale, che prevalentemente abitiamo, e nella quale non può non collocarsi un’azione politica degna di questo nome.

Eppure, occorrerebbe scorgere in Schiller un’ispirazione spinozista, l’Illuminismo radicale che vuole pensare la convergenza, la combinazione produttiva di sensibilità e ragione. Contro il dominio della ragione, ovvero contro la tragicamente nota «dialettica dell’Illuminismo», Schiller propone la grazia, ovvero la regola che si fa gesto e voce, e movimento: la vita messa in forma; un’etica.

Ma non è stata proprio questa, d’altronde, la sfida del Sessantotto mondiale? Contro la schiavitù salariale e contro l’imperialismo, a stelle strisce o con la falce e martello, una vita libera, comune e singolare. Pochi hanno davvero pensato il problema del Sessantotto, prima e dopo la sua apparizione: Walter Benjamin, Simone Weil, Herbert Marcuse, Elsa Morante, Félix Guattari, Gilles Deleuze, Elvio Fachinelli. Problema del Sessantotto: ovvero il rapporto, blasfemo per molti, tra comunismo e libertà. Solo un’etica della grazia, che non riguarda il genio e tantomeno il merito individuale, può rendere il rapporto in questione, l’unico politicamente decisivo, percorribile.

3. Nella storia dell’umanità, la grazia è data solo ai poveri che alzano la testa e cominciano a lottare. Vero, la grazia riguarda anche gli artisti, gli scienziati, spesso i pazzi. Ma la sofferenza dei pazzi va presa sul serio, senza poesia in eccesso, mentre artisti e scienziati, quando sanno essere graziosi, lo sono perché incarnano – nella vita e nell’opera – i movimenti tellurici di un’epoca. La bellezza riguarda i ricchi, perché solo per una natura selezionata con secoli di rapine e di rendite, di godimento senza affanno, può darsi «bellezza architettonica». La povertà è, in primo luogo, privazione della possibilità di bellezza.

Contrariamente a quanto si pensa, però, non sono i poveri a invidiare i ricchi, ma i ricchi a invidiare i poveri. Seppur eugeneticamente belli, ben nati, i ricchi sono ricchi perché incapaci di pietas. Sanno essere anche crudeli, ovviamente, ma c’è qualcosa in più: la crudeltà è spesso effetto sistemico, quasi inevitabile, mentre l’incapacità di provare pietas, anche quando la ricchezza si fa filantropia, è una cecità del tatto. In questo caso occorre, senza pregiudizi o vecchi rancori, tornare sulle pagine hegeliane: il signore, essendo tale perché non ha avuto paura di tremare nella lotta a morte, desidera padroneggiare la natura, l’incertezza radicale, l’imponderabile; per realizzare il desiderio, per diventare Dio, deve far lavorare qualcuno al suo posto – la mediazione pratica tra la natura e il signore.

L’obiezione è prevedibile: tra la figura fenomenologica del signore, della schiavitù antica secondo il cammino dialettico, e il moderno capitalista, sia esso capitano d’industria o speculatore finanziario, la distanza è abissale; antropologia e materialismo storico non possono andare assieme. È stato Hegel, questo conta, il primo a cogliere il rapporto tra ricchezza/potere, godimento e morte: il signore può godere solo perché non ha paura di morire, ovvero non tiene alla sua vita meramente biologica; innalzandosi al di sopra della sua mera vita biologica, del suo corpo bisognoso, il signore può dunque sottomettere il servo che, al suo posto, avrà a che fare con la natura grezza, sfuggente, insostenibile nella sua acuminata autonomia. La ricchezza e il potere del signore sono senz’altro simbolo e prestigio, ma sono anche dimenticanza del limite (esterno e interno), godimento senza senso di colpa, padroneggiare la natura attraverso la fatica altrui. Se il signore gode, e da Nietzsche a Bataille sarà tutto un inseguimento del signoreggiare e della sua dépense, il servo trattiene il suo desiderio, ovvero differisce il godimento perché lavora e, lavorando, forma il mondo.

Non è proprio questo dare forma al mondo, questo storicizzare la natura, garantito dalla sublimazione del desiderio, a rendere possibile l’artigianato, l’arte, la bottega, il laboratorio, l’esperimento, la scienza sperimentale?

Se per un verso la soluzione hegeliana, dialettica e cristiana, celebra lavoro e necessità della sottomissione, per l’altro quella di Zarathustra non coglie la grandezza della sublimazione, il vero segreto della nostra differenza ontologica. Marcuse, che pure non disdegnava Nietzsche e che era stato educato da Essere e tempo di Heidegger, capisce che la «de-sublimazione» liberal-capitalistica sa essere drammaticamente repressiva, mentre la sublimazione – del gioco, dell’insubordinazione, dell’arte e della scienza – può essere un’arma della trasformazione radicale dell’esistente. Nel tratto antieroico di chi rimane attaccato alla vita e lavora, vi è anche, e sempre, la rivolta di chi, con la fatica delle mani e della testa, il mondo lo ha fatto, non si è limitato a goderne rapinandolo. Per tutte e tutti loro per lo più anonime/i, e solo per loro, la grazia è sempre possibile.

4. Ma è possibile pensare la fatica del lavoro con la grazia e l’innovazione politica? Non è forse consolatorio, per i militanti che si battono per un mondo altro, raccontarsi la rivincita graziosa dei servi? Non è quest’ultima il frutto – così cristiano – della dialettica, che poi si risolverà, per Hegel e non solo per lui, con il trionfo dello Stato, dell’autonomia del ‘Politico’, ecc.? La grazia, ammonisce Schiller, è leggerezza e gioco; il lavoro – diciamo noi – è violenza, sottomissione, sudore e schiene piegate. Non casualmente Marcuse, che ampio uso fa di Schiller, ne fa un cantore del rifiuto e della fine della schiavitù salariale.

Abbiamo imparato sin da piccoli, amanti delle gesta sessantottesche e settantasettine, che rifiuto del lavoro salariato è separazione, autonomia di classe, rottura definitiva della mediazione statale (ovvero della dialettica borghese), nuove istituzioni proletarie, Esodo. Le battute d’arresto, anche dei movimenti più straripanti, l’affermazione del ciclo reazionario che, almeno in Italia, tarda a finire, impongono autocritica, sforzi circumnavigatori del pensiero, giri larghi dell’intelligenza collettiva. In primo luogo, urgerebbe una contemporanea, politicamente efficace, definizione di ‘proletariato’. Moltitudine dei working poor: è un abbozzo.

La prima parola, moltitudine, è stata ampiamente spiegata, negli ultimi quarant’anni. La nozione di working poor sembra ormai chiara ai più, tanti i dati statistici che raccontano. Ma la moltitudine, proprio perché tale, sta troppo stretta nella definizione, anche aggiornata, di proletariato; tanto che, per quel che riguarda i lavoratori poveri, ognuno sembra povero a modo suo. Connettere le lotte del lavoro migrante con quelle del lavoro intellettuale precarizzato, per esempio, è questione difficilissima: c’è di mezzo la lingua, la differenza nella forma di vita, il retaggio comunitario, i muri, spesso visibili, che dividono le nostre città, le città dalla provincia, il centro dalle periferie, ecc.; c’è di mezzo la frammentazione contrattuale e retributiva, quella del welfare pubblico e familiare, a parità di povertà si è poveri in modo assai differente; c’è di mezzo la vocazione professionale che, nel lavoro intellettuale e attraverso la reiterata «economia della promessa», estorce plusvalore assoluto – dall’università all’editoria, dal giornalismo allo spettacolo, è un continuo transitare da un lavoro non pagato all’altro.

Ciò nonostante, per chi scrive, il proletariato del nostro tempo è fatto di migranti e di «intellettuali dai piedi scalzi». È impossibile negare che il lavoro intellettuale, nelle grandi metropoli globali, è anche e spesso agiato: gli economisti più degli ingegneri, gli informatici più dei medici, i burocrati più dei giuristi. Per stare in alto, però, c’è un prezzo da pagare altrettanto alto, o quanto meno alto per chi non vuole smettere di fare uso critico del pensiero: disarmare l’intelligenza, separare la ragione dagli affetti, le scienze «dure» da quelle umane e sociali, non sentire più il grido di disperazione che sale dagli ultimi, i penultimi, gli sfollati, i sommersi, gli sventurati. Per coloro che non riescono nella “delicata” operazione, e che non hanno a proprio sostegno un paio d’appartamenti familiari da affittare, il lavoro intellettuale si presenta invece come scarsità, rinuncia, frustrazione, senso di colpa, senso di inferiorità, adolescenza cronica, ecc. Una transizione, spesso senza fine, da un fallimento all’altro, anche quando, magari dopo un paio di decenni o più, si conquista l’agognata stabilità contrattuale.

Di certo non si può equiparare la condizione del lavoro migrante a quella del precariato intellettuale, se solo si pensa alle campagne del Meridione italico; ma la sovrabbondanza di entrambe le figure nel terziario low cost, o i livelli di formazione tutt’altro che bassi dei migranti che affrontano il Mediterraneo sui gommoni per giungere in Europa, ci indica che spesso, e come sopra già segnalato, le distanze dipendono da fattori extralavorativi (clandestinità e fragilità della cittadinanza; razzismo; accesso al welfare; marginalità culturale).

5. La chiamano «polarizzazione del mercato del lavoro» ed è definita da due fenomeni complementari: skills mismatch e overeducation. Per un verso, la domanda di forza-lavoro da parte delle aziende incontra un’offerta di forza-lavoro inutile o inadeguata dal punto di vista delle competenze: troppi laureati e pochi tecnici – ovvero coloro che sono passati per istituti tecnico-professionali e apprendimento duale. Per l’altro, l’eccedenza di forza-lavoro qualificata si risolve, per chi non è passato per discipline STEM o non ha rendite familiari, in sovra-educazione e lavoretti sotto-pagati: i laureati impiegati nella Gig Economy, per esempio. Ma sovra-educati sono anche e soprattutto i migranti, dagli est-europei impiegati nelle pulizie e nella cura domestica agli africani schiavi nelle campagne del Sud. In Italia i due fenomeni sono drammatici e lampanti, ma non mancano nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, anzi.

Certo l’Italia merita un discorso a parte per ciò che concerne la struttura castale dell’industria culturale, quella clientelare del pubblico impiego. Come correttamente rileva la nuova destra «underdog», l’industria culturale italica (cinema, teatro, editoria, istituzioni artistiche in genere) è di frequente in mano a cordate o correnti della «borghesia rossa». L’ultima enclave, essendo invece la comunicazione (televisiva e giornalistica), salvo rare eccezioni, oramai del tutto padronale e conservatrice, quando non esplicitamente reazionaria e fascista.

Incurante degli effetti sociali delle sue condotte, tra i più noti l’anti-intellettualismo populista di buona parte della Penisola, la «borghesia rossa» è in prevalenza ceto medio-alto, vive nei centri storici delle grandi città, manda i figli a studiare (rigorosamente) all’estero, compra biologico e si professa solidale con i migranti, in larga parte tifa Zelensky. Ma soprattutto ha recintato con rigore e attenzione ai dettagli l’industria culturale, lasciando all’intellettualità di massa, frutto delle lotte degli anni Sessanta e Settanta, lavoro servile nel cinema, povertà nel teatro, marginalità nell’editoria. L’università è un caso nel caso, sul quale non vale la pena aggiungere parole; andrebbe semmai realizzata una ricerca seria, weberiana, sulla inedita combinazione da essa sviluppata in questi anni tra nepotismo e New Public Management, feudalesimo e ragione neoliberale. Con decenni tra dottorato e preruolo, nonché il blocco del turnover, il precariato universitario esibisce con particolare completezza il fallimento delle nuove generazioni.

Nel pubblico impiego, poi, la continua costituzione di bacini di precari “storici” è del tutto funzionale alla proliferazione e alla stabilizzazione delle clientele e del corporativismo sindacale.

Con le sue specialità, l’Italia è comunque ai primi posti mondiali (3° posto) per disallineamento tra discipline di studio e domanda di forza-lavoro, pur essendo la penultima d’Europa per numero di laureati, peggio fa solo la Romania. A qualcuno dovrebbe venire in mente che il problema è la domanda di forza-lavoro, la struttura produttiva del Paese fatta per lo più di piccole e medie imprese che poco o nulla investono in innovazione e ricerca, ma invece si colpevolizzano i giovani perché non studiano ingegneria e informatica, perdendo tempo con le scienze umane e quelle sociali. Il problema della sovra-qualificazione, tra l’altro, non riguarda solo i laureati in lettere che consegnano pizze per Glovo, ma anche e soprattutto i laureati nelle discipline STEM che, assai spesso, decidono di valorizzare il proprio «capitale umano» all’estero. Non si può che fallire, in un Paese fallito.

6. Serve chiarire: la grazia dei poveri che formano il mondo è contraria e ostile a quella che sollecita la vita operosa dell’eletto, calvinista e soprattutto puritano. Come noto, Max Weber ha indicato i tratti dell’ascesi intramondana, decisiva – a suo avviso – per l’affermazione del capitalismo. Essendo la grazia già da sempre decisa da Dio, la vocazione professionale può ottenere conferma della grazia quanto più, alla vocazione, si accompagnano il successo e la ricchezza. Vocazione professionale, Beruf, ovvero metodica razionalizzazione della condotta, col tempo che si fa denaro e il denaro che, con le parole di Benjamin Franklin, si fa fecondo, figlia denaro.

Per i poveri che formano il mondo, la grazia non è già data. Anzi, quanto più la sottomissione è tenace, tanto più il movimento è sgraziato, la sopravvivenza bestiale. Nel capitalismo del nostro tempo, nelle città che esplodono di working poor e clochard, i poveri tornano a essere «brutti, sporchi e cattivi». Anche quando aumentano i consumi, e i corpi si allenano in palestra, o nel running infinito pure di domenica che serve a disintossicarsi (dal sabato, dalla settimana di lavoro, dalle relazioni tossiche, dalle sostanze che intossicano le relazioni, ecc.), la volgarità ha la meglio sulla grazia.

Il lusso torna grande protagonista della vita dell’1% della popolazione mondiale, che possiede circa metà dei patrimoni del globo. Il restante 99%, tutt’altro che omogeneo, quasi sempre rissoso, il lusso lo insegue, lo mima, ci muore sotto, annaspa. E mentre il lusso domina la scena, i poveri tornano a essere colpevoli della loro povertà, il Welfare State si nomina assistenzialismo per lazzaroni e scansa fatiche, gente che sta sul «divano»: l’ascesi intramondana riguarda in primo luogo loro, i poveri peccaminosi, mentre la ricchezza in eccesso e la rapina generalizzata favoriscono una rinnovata, e ormai cronica, «accumulazione originaria». Mandeville, Veblen, Sombart, e non Weber, dicono il vero sul Geist del capitalismo.

7. Non basta lo stigma della povertà, dopo un trentennio di paralisi della mobilità sociale e con la «rifeudalizzazione» dei poteri, della proprietà, della ricchezza e delle armi: la guerra – si diceva – infila missili nelle case, proiettili nella carne – dei falliti, della Terra. Con tanto di rilancio dell’industria bellica, della ricerca scientifica finalizzata alla distruzione di massa, degli idrocarburi che riscaldano e che bruciano – con Putin che non ha mai fatto affari come adesso, nonostante le sanzioni, con gli Stati Uniti che esportano gas liquefatto e armi come non mai.

La guerra ci ricorda che non esiste progresso; che il «valore in movimento», il capitale, non è mai stato uno «spazio liscio»; che il mercato non civilizza; che l’arcaico non smette di tornare in superficie, ben combinato con intelligenza artificiale e comando algoritmico; che mentre qualcuno crepa sotto le bombe qualcun altro, ovvero chi le bombe le fabbrica, continua a fare affari, anzi ne fa di più.

Ma la schifezza maggiore è l’entusiasmo per la guerra manifestato da chi, ancora per il momento, i morti ammazzati li vede solo in TV. Tifosi di Zelensky-Biden e tifosi di Putin, tutti con i popcorn in prima fila, come d’altronde succede, in Occidente, dalla prima guerra del Golfo (1991). In Italia, per non sbagliare, è stato affidato il Ministero della Difesa a chi nella vita fa l’imprenditore degli strumenti di morte: chapeau.    

8. Sono particolarmente falliti quelli della mia generazione. Quelli nati tra la metà degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Ancora vicini alle forme politiche e di militanza novecentesche, eppure critici di quelle forme, alla ricerca di qualcosa di nuovo. Quelli che in Italia hanno imparato a far politica con la Pantera e le lotte francesi del 1994 e del 1995, con i centri sociali e Genova, con il movimento pacifista globale e con la ripresa dei movimenti studenteschi tra il 2005 e le riforme della ministra Maria Stella Gelmini (2008 e 2010).

Per i reduci degli anni Settanta, di tutti i tipi, la mia generazione ha mancato e manca di realismo: né guerriglia, lotta armata (nella sua accezione variegata, eterogenea), né Parlamento. Con le parole di un compagno caro di allora: «non siamo neanche entrati in partita», come dire che neanche abbiamo il merito di una sconfitta “eroica”, con qualche anno di carcere a rendere la vita per sempre giustificata, “sopra le cose”. Per quelli nati tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Zero, siamo comunque oggetti di antiquariato: pensiamo ancora che occorra rispettare la parola data, che la militanza politica riguardi la trasformazione della vita, che la fatica del combattimento possa essere motivo di gioia. La cosiddetta «Generazione Z» davvero non capisce per quale motivo ci siamo affannati a leggere il Capitolo VI inedito del I Libro del Capitale, perché abbiamo creduto che un progetto fosse ancora possibile, perché non siamo andati fino in fondo con le droghe e la dissipazione; ma soprattutto perché, al dunque, non ci siamo piegati, «fluidi» perché disperati, alla lingua del vincitore.

Ostinatamente – almeno chi non ha trovato riparo all’estero – abbiamo tentato invece di dare un senso alla vita avviando cantieri, costruendo reti, animando laboratori: né partito granitico né sciame evenemenziale. Il nostro incanto giovanile ci ha spinto a desiderare un tertium datur: con Rudi Dutschke, una «lunga marcia attraverso le istituzioni», fondandone di nuove – a volte marginali, ma capaci di esibire, e non solo di enunciare, un mondo altro. Abbiamo desiderato troppo? Senz’altro ora siamo degli estranei: alla carriera, al divertimento, al potere, al successo, allo spirito del tempo. Le abbiamo “sbagliate” (proprio) tutte, troppo tardi e troppo presto.      

9. La generazione fallita non smette di prendere colpi dall’estate del 2007. Incassatrice, alle corde. La crisi dei mutui subprime, quella delle grandi banche di investimento, poi degli Stati indebitati per salvare le banche dal crack, sono state la grande occasione per far ripartire l’accumulazione, razziando – come si faceva un tempo con le terre – public utilities, commodities e welfare, comprimendo i salari sotto la soglia della sussistenza. Fino ad arrivare a una nuova «età degli Imperi», Occidente contro Oriente, costantemente sul bordo dell’Apocalisse.

Colpo dopo colpo, ci si sveglia la mattina e si fatica a comprendere se un senso ci sia mai stato – della vita, della prassi, del mondo. Fioccano le domande: «ma cosa ho fatto, negli ultimi venti anni?»; «Davvero il mondo attorno a me è da sempre la merda che quotidianamente mi sbatte addosso agli occhi?»; «Potevo vedere e non ho visto, non ho voluto vedere, perché?». Chi crede nell’antropologia che da Hobbes arriva a Carl Schmitt, non smette di brindare, intonando: «avete visto che non c’è speranza, che la smania acquisitiva di potere è la vera cifra dell’animale che siamo?».   

10. Ma falliti sono anche, stavolta positivamente, coloro che non hanno paura di sbagliare, di tentare ancora, di inventare armi nuove. Ambivalenza del fallimento: sconfitta, perdita, solitudine; eppure «spazio bianco», vuoto su cui «danzare», colpo schivato, stare spesso alle corde ma non cadere, saper ancora fuggire dall’angolo. Troppo tardi e troppo presto: ovvero impotenza della praxis, che è innanzitutto kairos; ma anche sfasatura, virtù della critica, fantasia (Fancy) corrosiva, costituente. Fuori sincrono, c’è il «freno d’emergenza» di cui parlava Walter Benjamin («Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno». Materiali preparatori delle Tesi sul concetto di storia).

La linea del progresso è tornata a essere la linea della catastrofe, e dunque accelerare non è più motivo di diversione. Accelerando, il cervello non può far altro che cedere; sovra-stimolato, non fa altro che perdere luce. Ritrovare invece la pazienza, tenacemente e con grazia (re)imparare a dire ‘No’, nonostante la sconfitta. Non basta più solo affermare, serve anche riconquistare, oltre e contro la dialettica, la «negazione determinata», ovvero l’immaginazione che inventa il possibile del reale. I falliti hanno dalla loro, sembrerà assurdo, qualche vantaggio: hanno imparato a vivere con poco, a ricominciare sempre daccapo; non hanno mai smesso di camminare in salita; l’incertezza cronica gli ha insegnato l’idea pratica del limite; sono abituati a non avere abitudini e non si sono mai sentiti a casa. Per questo odiano la guerra, perché non hanno alcuna Heimat da difendere. Per questo, se alzano la testa e lottano, negando e poi costruendo sulle macerie, per loro la grazia è data.

P.s. In questo breve scritto, in larga parte dedicato alla perseveranza della vita, saltano agli occhi cupezze provinciali. Maggiore effervescenza si respira da anni in Francia e in Spagna, in America Latina. Il vero dramma, però, non è la paralisi italica – innegabile e sfiancante. Paralisi che molto ha a che fare con le gravi responsabilità dei sindacati confederali, delle sinistre politiche varie; e anche con la specifica struttura produttiva, la specifica composizione sociale, della Penisola (il prevalere della piccola e media impresa, l’estensione delle clientele e dell’economia criminale, la corruzione dello spirito pubblico, la dequalificazione della scuola, la fuga di massa dei giovani qualificati). La catastrofe del nostro tempo, con la «guerra mondiale in frammenti» ma anche prossima, è l’assenza di movimenti sociali e costituenti europei, radicalmente transnazionali. Solo un’Europa democratica e pacifista, ovvero rivoluzionaria, può davvero azionare il «freno d’emergenza». Di questo vuoto, difficile (impossibile?) da colmare, occorrerebbe occuparsi senza settarismi, combattendo e «fallendo meglio», con grazia.    

Il testo è il secondo esperimento che combina le parole di Francesco Raparelli e le immagini, questa volta fotografie, di Vittorio Giannitelli.