MONDO

La Turchia continua a uccidere in Iraq del nord

Nella regione del Sinjar, dove vive la comunità ezida già martoriata dall’Isis nel 2014, si sono susseguiti numerosi attacchi e bombardamenti da parte di Erdoğan, determinato a stroncare ogni resistenza curda

C’è un detto che ricorre fra le popolazioni curde in lotta, dal Rojava siriano a Sinjar (Iraq nord-occidentale): «La nostra autonomia nasce dal sangue dei martiri». Niente di più – tristemente – vero, se si guarda a quanto accaduto da un mese e mezzo a questa parte in particolare nel territorio dove vivono ezidi ed ezide (comunità già vittima sette anni fa di un terribile genocidio da parte dell’Isis, che ha massacrato almeno 5mila persone): uccisioni arbitrarie, attacchi con droni e bombardamenti sembrano essersi intensificati in quest’ultimo periodo.

Il 16 agosto, come si vede in questo video, alcuni veicoli sono stati colpiti nella regione di Sinjar, mentre perdevano la vita il comandante delle forze di autodifesa popolare Ibş Seid Hesen, suo fratello e il combattente dell’unità Isa Xwedêda, più tre persone ferite fra i civili.

Il giorno successivo, invece, è stato bombardato l’ospedale della zona, con ripetuti attacchi che – riferiva il reporter Ibrahim Alezidi – impedivano di «avvicinarsi per soccorrere i feriti». Nella notte del 31 agosto, un altro attacco si è verificato nel campo profughi di Qadiya (governatorato di Dohuk).

Nel solo mese di settembre, un villaggio è stato bombardato (2 settembre) così come un drone ha preso di mira il campo profughi di Makhmour, nel governatorato di Erbil (3 settembre), da alcuni anni sotto embargo e luogo in cui le numerose persone dissidenti in fuga dalla Turchia hanno messo in pratica i principi del confederalismo democratico. Fino ad arrivare alla giornata di venerdì, quando per le strade di Suleymaniya (nord-est dell’Iraq) è stato ucciso con quattro colpi di pistola il membro del Comitato per le famiglie dei martiri del Pkk Yasin Bululut.

Responsabile di queste morti è la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, perennemente in guerra con qualsiasi soggetto, realtà o popolazione che sia anche solo lontanamente collegato con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan Pkk fondato da Abdullah Öcalan.

È così per l’autonomia del Rojava che, dopo aver resistito all’Isis e al caos prodotto dalla guerra in Siria, deve tuttora confrontarsi con le offensive intraprese da Istanbul (l’ultima, grande, operazione militare è “Sorgente di pace” del 2019 ma molti altri attacchi in scala minore si sono susseguiti nel tempo).

Ed è così anche per il nord-ovest dell’Iraq, dove la popolazione ezida ha potuto sconfiggere nel 2015 i miliziani dello Stato Islamico grazie al soccorso di Ypg e Ypj dal Rojava e dei guerriglieri del Pkk e sta provando ora, faticosamente, a costruire la propria autonomia. Similmente al vicino campo profughi di Makhmour, a Sinjar si stanno mettendo in pratica i principi del confederalismo democratico e sono stati istituiti un Governo Autonomo e dei Consigli di Quartieri per garantire indipendenza e sicurezza a una comunità già ampiamente martoriata.

Ma le potenze locali ostacolano questo progetto: il 9 ottobre dell’anno scorso, infatti, è stato siglato fra il governo centrale iracheno e il governo regionale curdo del nord (Krg) – senza interpellare cioè le istituzioni della popolazione interessata – il cosiddetto “accordo di Sinjar”, che prevede il ritiro delle forze di autodifesa della comunità ezida dalle proprie postazioni.

Si tratta, sostanzialmente, della dismissione formale delle aspirazioni all’autogoverno di chi è stato massacrato dall’Isis ed è stato tradito da quanti, come i peshmerga di Barzani, erano tenuti alla sua difesa.

Non è una sorpresa: ezidi ed ezide – popolazione che nella storia ha subito numerose discriminazioni e genocidi non da ultimo a causa della sua peculiare confessione (si tratta di persone di etnia curda ma fedeli a una religione di ascendenza zoroastriana) – sono da tempo in “cattivi rapporti” con i curdi che governano la regione settentrionale dell’Iraq, sotto il loro controllo dagli anni ‘90, sempre più vicini alla Turchia e all’Akp di Erdoğan anche per via del commercio di petrolio.

Ma – al di là della “guerra fratricida” – il problema della zona è appunto il protagonismo di Istanbul, che non sembra intenzionato a mollare la presa sulle zone confinanti col proprio territorio e, soprattutto, non pare intenzionato a dare alcuna tregua al conflitto con chi reputa in una certa misura affiliato al Pkk o, comunque, alla causa del confederalismo democratico.

Mentre assistiamo alla rocambolesca ritirata degli Usa dal contesto afghano, in cui i talebani hanno ristabilito il potere, Erdoğan “approfitta” della situazione per continuare la sua politica di forza oltreconfine e impedire qualsiasi tentativo di autodeterminazione.

Intanto, è notizia di questi giorni che proprio il Presidente della Turchia ha appena pubblicato un libro dal titolo “un mondo più giusto è possibile”.

Tutte le immagini di Francesco Brusa