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ITALIA

La tecnologia non ci salverà. Se Cingolani “dà i numeri”

Il ministro della transizione ecologica è tra i promotori di risposte ingegneristiche e tecnologiche al cambiamento climatico. Ma non è possibile risolvere la crisi ecologica all’interno del sistema economico che l’ha provocata

Circa tre anni fa, lo slogan “Diamo voce alla Scienza” riecheggiava nelle piazze e nei cortei di Fridays for Future, in Italia e nel mondo. L’appello lanciato da Greta Thunberg si riferiva alla voce di climatologi e scienziati ambientali, in tempi di negazionismo climatico ancora dilagante, e costringeva la classe dirigente a confrontarsi con le evidenze scientifiche sulla catastrofe ecologica. Da allora, il piano del dibattito pubblico si è aggiornato: la necessità impellente di frenare il global warming è finalmente senso comune e da parte dei movimenti ecologisti si è assunto il principio di responsabilità differenziate all’interno del genere umano rispetto alla crisi ecologica. Oggi, quindi, la discussione in corso non si articola più intorno al che fare, ma al come farlo e in questo scenario lo slogan “Diamo voce alla Scienza” può assumere significati potenzialmente problematici, a seconda delle intenzioni di chi lo pronuncia. Infatti, anche la ricerca scientifica è parte integrante del sistema economico, non sempre è libera e indipendente, o ha la capacità autocritica di valutare il proprio operato in termini di giustizia sociale e bene collettivo.

Dunque, a quale Scienza dare voce per mitigare la crisi ecologica? Sono in molti i promotori delle risposte ingegneristiche, alla disperata ricerca di quella tecnologia che da sola possa salvarci.

Sicuramente la decarbonizzazione delle economie mondiali (ovvero uno degli step imprescindibili della transizione ecologia – ma appunto, soltanto uno fra molti, non l’unico) non può che passare dalle energie rinnovabili e quindi dalla messa a punto di pannelli solari, pale eoliche, batterie. Non dobbiamo dimenticare, però, che queste infrastrutture dipendono dall’estrazione mineraria di elementi disponibili in quantità estremamente limitata, hanno un prezzo molto alto in termini di devastazione territoriale, sfruttamento idrico e di ulteriore perdita di habitat e biodiversità. Punti, questi ultimi, che non ricevono sufficiente attenzione da parte del mondo della politica, pur essendo altrettanto importanti e urgenti rispetto all’abbattimento delle emissioni. Nella schiera di quelli che “la tecnologia ci salverà” possiamo annoverare il nostro ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani.

Lo scienziato Cingolani, fisico, laureato a Bari e dottorato alla Scuola Normale di Pisa, ex responsabile di Tecnologie e Innovazione di Leonardo Finmeccanica, a inizio settembre durante la scuola di formazione politica di Italia Viva si era distinto per le dichiarazioni a favore del nucleare, dimostrandosi possibilista per applicazioni in Italia.

Dopo essersi smentito pochi giorni fa in un’intervista rilasciata all’Espresso, Cingolani ha iniziato a rilanciare convintamente il rinnovabile («Con il più alto irraggiamento per metro quadro in zona ricca, siamo gli Emirati Arabi del futuro»). Il ministro ha poi proseguito, chiarendo che prima di un’economia a zero emissioni, dovremo attenderci una fantomatica «fase intermedia» di conversione delle centrali termoelettriche da carbone a gas. Una soluzione «non completamente green», ha ammesso successivamente, «ma che consentirà di tagliare le emissioni del 30% e di aumentare la potenza energetica disponibile».

Immagine da Wikicommons

Prima di tutto, ricordiamo che tramite accumulo idraulico per mezzo di impianti già esistenti, in Italia si potrebbe raggiungere performance addirittura superiori a quelle delle centrali a gas. Inoltre, è fondamentale sottolineare che quando Cingolani propone la costruzione di centrali termoelettriche, non si riferisce affatto a progetti in grado di avviarsi a breve termine. Si parla di costruire, oggi, impianti che entrerebbero in vigore tra alcuni anni e che continuerebbero a bruciare combustibili fossili per decenni.

La domanda che sorge spontanea è: come si concilia tutto questo con le politiche “zero netto” da adottare nell’immediato, per sperare di contenere l’aumento di temperature medie globali entro 2 °C? Non ci vengano a parlare di strategie e tecnologie Carbon Capture Storage (CCS) che, riproposte ciclicamente nelle varie COP sul clima da trent’anni a questa parte, hanno puntualmente disatteso e di volta in volta ridimensionato gli obbiettivi prefissati riguardo alla diminuzione di emissioni di CO2.

Sarebbe il minimo attendersi che Cingolani, di formazione fisico e attualmente in carica di ministro, fosse a conoscenza di questo dibattito accademico e politico. Quanto all’autorevolezza da professore per mettersi in cattedra davanti ai più giovani, questa se la sente tutta: dopo aver annunciato l’aumento delle bollette elettriche del 40% nel prossimo trimestre, il ministro ha prima accusato l’innalzamento del costo del gas, poi quello delle emissioni di CO2, per concludere invocando un confronto non ideologico sulla transizione ecologica e tacciando di oltranzismo tutti quegli ecologisti non disposti a riferirsi ai meri numeri come a epifanie di verità di per sé esaustive («spero che […] guardiate i numeri. Se non guardate i numeri rischiate di farvi male come mai successo in precedenza»).

E dal momento che il ministro ci chiama in causa, noi non ci tiriamo indietro. Di essere ideologic*, in quanto attivist* di movimento, lo rivendichiamo. E lo stesso vale per l’accusa di oltranzismo, se questo si riferisce all’urgente necessità di cambiare il sistema economico attuale. Quanto al guardare i numeri, lo rassicuriamo che ci rifaremo a quelli corretti, all’interno di una cornice teorica che emerga dalle giuste domande di base.

Ad esempio, proviamo qui a spiegare a Cingolani, per punti, perché la tecnologia in sé e per sé non ci salverà. Ehlrich e Holdren in Impact of Population Growth (1971) affermano che l’impatto ambientale può essere espresso dalla cosiddetta equazione IPAT (I=PxAxT, Impact = Population x Affluence x Technology), nella quale l’impatto ha una dipendenza diretta da Population, da Affluence (il consumo, la cui unità di misura è il PIL) e da Technology (da intendersi come intensità delle risorse utilizzate per produrre, ovvero l’inverso dell’efficienza tecnologica). In un sistema economico basato sulla crescita, Affluence è continuamente in aumento e l’economia classica non prende mai in considerazione l’opzione di fissare o diminuire questa variabile, che quindi tende a far crescere Impact a sinistra dell’uguale. I crescisti, alias tutti quelli che “la tecnologia ci salverà”, per non dover invocare la riduzione dell’altra variabile dell’equazione, ovverosia Population, si ostinano ad attribuire alla variabile T il potere magico di controbilanciare qualsivoglia valore o aumento di A e di P. Eppure, sappiamo bene che questo non è possibile.

Immagine di Janak Bhatta da Wikicommons

Esiste, infatti, un fenomeno economico, descritto nel lontano 1865 in The Coal Question da William Stanley Jevons, da cui il fenomeno stesso prende il nome, che costituisce la principale argomentazione contro la strategia dell’efficienza. Jevons, che aveva come caso studio le acciaierie a carbone, teorizzò e poi corroborò empiricamente il fatto che in un sistema di produzione in cui non si pone un limite all’estrazione di risorse, tutte quelle “risparmiate” in virtù dell’efficientamento tecnologico non rimangono inutilizzate ma sono invece impiegate per produrre altri beni. In questo modo, non vengono realmente risparmiate e, nella stessa unità di tempo, la quantità di prodotto (e quindi il consumo) sarà addirittura maggiore rispetto al paradigma produttivo precedente all’efficientamento.

In mancanza di tetti di consumo, di “environmental caps”, l’efficientamento comporta paradossalmente un aumento del nostro impatto e non il contrario.

È lo stesso paradosso per cui l’avvento del cherosene ha decuplicato, invece che fermarla, la strage dei cetacei e la caccia alla balena nel XIX secolo. Quindi, un sistema economico fondato sulla crescita del PIL, cioè sulla crescita incessante di A, non sarà mai controbilanciato dalla variabile T. È vero, anzi, il contrario. La crescita infinita è semplicemente in contraddizione con ogni principio ecologico e biologico ed è di per sé stessa non sostenibile. In altre parole: non è possibile risolvere la crisi ecologica all’interno del sistema economico che l’ha provocata. L’adozione di nuove tecnologie, green ed efficienti, deve obbligatoriamente accompagnarsi alla riduzione dei consumi. Ecco che qui si tocca la questione cruciale. Ancora nell’intervista a “L’Espresso”, Cingolani menziona la necessità di ridurre i consumi a livello globale, distinguendo però tra i paesi ricchi occidentali e i paesi in via di sviluppo, in cui la dipendenza economica dalle fonti fossili non può essere attualmente messa in discussione, pena la condanna a morte di tre miliardi di persone che non hanno ancora accesso all’energia e a beni di prima necessità.

Spiega Cingolani: «Io programmo tutta la mia transizione sui paesi del G20, faccio grandi proclami in cui dico che sto salvando il pianeta. Però di fatto sto condannando a morte quei 3 miliardi lì, a cui do due possibilità: rimanete nel Medioevo perché appena crescete emettete CO2 oppure emigrate e io vi metto i muri e vi faccio affondare nel Mediterraneo». Il ministro conclude poi che per scongiurare questo scenario drammatico non si possa far altro che cambiare il nostro stile di vita occidentale: appello alla sobrietà! Stando al ministro dovremmo iniziare a sbarazzarci delle nostre auto e dei nostri cellulari per poterci pulire la coscienza nei confronti dei meno fortunati nel sud del mondo: «Abbiamo troppi telefonini, troppo streaming, solo questo fa il 4 per cento di emissioni di CO2. Siamo disposti a rinunciarci? Abbiamo tutti due automobili. Siamo pronti a rinunciare a una?».

Un appello contraddittorio rispetto a quanto detto poco prima nella stessa intervista: «Se cresciamo del 5% l’anno, cosa che mi auguro (…) avremo settori industriali che pompano di più. La gente comprerà più automobili: se saranno tutte elettriche, le dovremo caricare e lo dovremo fare con energia rinnovabile?»

Siamo al “paradosso Cingolani» (altro che Schröedinger…): «voglio il PIL nello stesso momento in crescita e in calo». Scherzi a parte, come attivisti e attiviste, anzi come giovani di una generazione a cui “hanno rubato il futuro” e a cui stanno rubando il presente, ci sentiamo offes* e schifat* dall’umanitarismo retorico adottato strumentalmente per legittimare una posizione politica classista: la dipendenza dei cosiddetti paesi in via di sviluppo dalle fonti fossili è mantenuta dall’occidente, che grazie al mercato globale è maggiore acquirente di beni prodotti lì con tasso di emissioni elevate. La crescita del PIL nei paesi in via di sviluppo, quindi, non coincide necessariamente con un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione (anche solo per la densità di emissioni che si va a registrare): da noi arrivano prodotti a basso costo e là rimane l’inquinamento, lo sfruttamento del lavoro e la povertà.

Immagine dall’archivio di Dinamopress

Se iniziassimo a contare le emissioni al consumo, piuttosto che alla produzione, avremmo un quadro più veritiero delle responsabilità climalteranti a livello mondiale. Anche perché la distribuzione della ricchezza è sempre più diseguale. Basti pensare che la maggioranza dei poveri del mondo vive oggi in paesi a reddito medio: significa che la crescita del PIL va di pari passo allo spalancarsi di una forbice tra pochissimi sempre più ricchi e tantissimi sempre più poveri. Quindi, senza negare le dovute differenze tra paesi, crediamo sia necessario focalizzarsi di più sulle differenze all’interno dei vari paesi e riportare il discorso politico in termini di diseguaglianza tra super ricchi e ceti medi sempre più impoveriti, tra poveri e poveri assoluti.

E qui possiamo essere noi a suggerire a Cingolani di leggere meglio alcuni numeri. Parliamo, ad esempio, delle cifre che si contano nei profitti delle compagnie energetiche e delle multinazionali, dei grandi monopoli della logistica, oppure dei grandi patrimoni, dei beni di lusso come yacht, ville e jet privati che inquinano quanto intere nazioni dell’Africa. E, sempre parlando di numeri, potremmo iniziare a fare anche le divisioni, oltre che le addizioni sul PIL e le sottrazioni ai consumi individuali; potremmo iniziare a ridistribuire un bel po’ di quella ricchezza di pochissimi e garantire reddito di base a tutt*. Per combattere l’inquinamento, potremmo dimezzare l’orario di lavoro a parità di salario, essendo l’inquinamento strettamente dipendente dai consumi legati al lavoro e alla riproduzione del capitale.

Che la transizione ecologica inizi subito, ministro Cingolani, e che a pagare siano i nemici del clima, i veri responsabili della crisi ecologica e sociale, perché sa com’è, noi siamo giovani e impazienti e di tempo e di vita da perdere, non ne abbiamo proprio più.

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org