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La storia di “Prima linea”

Il recente libro di Andrea Tanturli “Prima linea. L’altra lotta armata (1974-1981)” edito per i tipi di DeriveApprodi ricostruisce un pezzo di storia della società italiana attraverso la vicenda del gruppo armato, offrendo un esempio di ricostruzione di archivio capace di interrogare il presente

Nelle ultime settimane, l’arresto e la consegna all’Italia di Cesare Battisti   hanno aperto ancora una volta il libro del lungo ’68 italiano, che continua a rimanere ingabbiato nella cornice retorica – semplicistica e fuorviante – dei presunti “anni di piombo”.  Anche in queste circostanza è emersa la difficoltà a fare i conti con un periodo di tempo – lungo circa 15 anni – che se da un lato fu contrassegnato da un diffuso ricorso alla “violenza” da parte di tutti i protagonisti del conflitto sociale e politico (non solo delle organizzazioni che scelsero la lotta armata, ma anche di molte anime della sinistra rivoluzionaria che non la scelsero e, ovviamente, dello Stato e dei fascisti), dall’altro ha rappresentato – anche se questo viene ricordato raramente – una delle fasi di più avanzato progresso sociale e civile dell’Italia.

Gli ostacoli a storicizzare il periodo sono comunemente rintracciati nella presunta “difficoltà” a scrivere saggi storici su quel periodo, nell’altrettanto presunta mancanza di fonti o nel fatto che si parli di eventi troppo “recenti” per un’analisi storici fredda e non coinvolta emotivamente negli eventi. Se quest’ultimo fattore lascia chiaramente il tempo che trova – sia sufficiente pensare che si tratta di eventi di 30-50 anni fa e che una delle più importanti opere sulla guerra civile 1943-45, La storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, fu pubblicata nel 1953, a soli otto anni dalla Liberazione – sembra ormai che si possano accantonare anche i primi due. Lo dimostra, ad esempio, la pubblicazione per i tipi di DeriveApprodi del saggio Prima linea. L’altra lotta armata (1974-1981) di Andrea Tanturli, uscito negli ultimi mesi del 2018.

Tanturli, che lavora come archivista presso l’Archivio di Stato di Firenze, ripercorre in questo libro importantissimo la genealogia e gli sviluppi fino al 1979 di Prima linea, una delle formazioni più consistenti della galassia della lotta armata italiana, sulla quale finora non erano stati pubblicati lavori propriamente storiografici. E lo fa con una grande attenzione per la ricerca archivistica e la citazione delle fonti, che a un occhio non specialistico potrebbe apparire persino eccessiva, mentre quello specialistico si rammarica della mancanza alla fine di un elenco di tutti gli archivi in cui si sono consultati i documenti, che avrebbe reso comprensibili le sigle utilizzate nel volume. Pagina dopo pagina (e queste pagine, già di per sé molto numerose, costituiscono insieme solo il primo volume di un’opera in più parti su Pl), Tanturli dimostra così con maestria ed efficacia che i documenti sugli anni ’70 ci sono e basta avere desiderio di interpretarli. Scrive l’autore che:

«Il problema delle fonti per lo studio della violenza politica non è certo una loro assenza, legata alla chiusura di alcuni archivi o alla normativa sulla consultabilità. Pesa molto di più la frammentazione delle fonti in una miriade di soggetti conservatori, le dimensioni spesso abnormi del materiale, la carenza di risorse del settore archivistico, la decontestualizzazione delle risorse digitalizzate, il grande noto del rapporto con la memoria viva e con le fonti ritenute minori (fotografie, canzoni, diari)» (p. 18).

Tanturli ha quindi analizzato a fondo l’imponente materiale a stampa conservato in centri studi, fondazioni culturali e archivi di movimento, gli atti processuali e le memorie, mentre ha prestato poca attenzione ai giornali, considerati giustamente «costellati da errori e imprecisioni». Questo studio ha alla base una consapevolezza radicata che, per quanto dovrebbe costituire una sorta di “senso comune”, sembra essere ancora lontana dalla coscienza della società italiana, come dimostrano i recenti sviluppi del caso Battisti: ovvero che la storiografia (o lo storico, «cioè chiunque vuole», chiarisce l’autore) «dovrebbe marcare la sua distanza dalla magistratura, scevra dalla finalità meramente inquisitoriale e capace di cogliere le sfumature dei processi storici» (p. 38).

La sfida – annunciata chiaramente e a mio avviso vinta – di Tanturli è quella di «gettare ponti, invece che alzare muri, fra fenomeni distinti ma intrecciati (i movimenti sociali, la violenza politica e la lotta armata vera e propria)», facendo attenzione a non «isolare una scelta come quella delle armi in un contesto pacifico e democratico non soltanto dai suoi usi discorsivi o dalle due forme dilegittimazione, ma anche dalle aporie della democrazia stessa e dalle sue pratiche repressive, tanto quelle esplicite e istituzionalizzate quanto quelle implicite negli equilibri politici e sociali» (pp. 6-7).

Particolarmente interessante, in questa prospettiva, è la prima parte del volume sulla genealogia di Pl (la cui sigla apparve per la prima volta a Milano alla fine del 1976), seguita allo sfaldamento delle organizzazioni della nuova sinistra nate alla fine degli anni ’60: Lotta continua e Potere operaio e, in particolare, le loro articolazioni a Milano (in particolare a Sesto S. Giovanni e alla fabbrica Magneti Marelli) e a Torino. È questo infatti l’humus da cui proveniva gran parte dei futuri militanti di Pl. Come ugualmente humus di gestazione dell’organizzazione fu l’autonomia, di cui alcuni militanti di Prima linea – che si consideravano «avanguardia interna alle lotte di masse» (e, per questo, rifiutavano la piena clandestinità), l’autoproclamata «prima linea del movimento», appunto – furono tra le anime più attive in Italia.

Ripercorrendo la storia della sinistra extraparlamentare italiana in un periodo compreso più o meno tra il 1974 e il 1977, Tanturli fa emergere con forza quella che a mio avviso rappresenta una degli assi portanti del volume, cioè la riflessione sul tema fondamentale della “violenza”, una violenza diffusa e in un certo senso metabolizzata e legittimata:

«Tali manifestazioni di violenza diffusa conosceranno una vera e propria massificazione nelle pratiche delle varie anime dell’autonomia, ma, a dire il vero, si originano da pratiche preesistenti (come l’antifascismo militante e i picchetti operai): repertori che, peraltro, erano sostanzialmente legittimati da comportamenti delle controparti o dall’ingiustizia, reale o percepita che fosse, dei rapporti di dominio interni alla fabbrica o alla società. Violenza e giustizia, legalità e legittimità rappresentano concetti connessi da una serie di rapporti che la storiografia dovrebbe sforzarsi di problematizzare» (p. 48).

Tale riuscita problematizzazione è proprio uno dei punti di forza del volume di Tanturli, che riesce efficacemente a mostrare le «aree di consenso» che parole d’ordine rivoluzionarie (e in parte anche la loro successiva messa in pratica) avevano «nelle fabbriche, nelle università, nei quartieri» (p. 61). La posizione di Tanturli è netta:

«Bisogna riconoscere che il tasso di violenza che attraversò le “piazza del ’77” sia stato anomalo e continuativo, sebbene di volta in volta rinegoziato fra le varie componenti e influenzato dalle contromosse tutt’altro che innocenti della controparte statuale. Riconoscerlo serve innanzitutto a mettere fra parentesi l’odierna sensibilità al tema della violenza politica (molto più restrittiva, rispetto a quella dell’epoca) e quindi a sgombrare il campo da letture anacronistiche. Non è mai esistita, dunque, una violenza di piccoli gruppi […] avulsa da una grande maggioranza dei manifestanti, pacifica e colorata, come appaiono suggerire alcuni testi giornalistici. Inoltre, non appartiene al campo dell’analisi storiografica […] ogni cesura tra violenza agita e quella urlata, non perché siano la stessa cosa, ma perché concorrono tutte in misura diversa alla legittimazione della sua pratica» (p. 143).

Se da un lato abbiamo un’attenta ricostruzione dell’attività di Prima linea, dunque, questo volume costituisce un oggetto di interesse anche per chi è poco interessato a questa organizzazione. Si tratta, in fondo, di una ricostruzione a tutto tondo di una fase della società italiana, nella cui storia la violenza politica non può più essere considerata come un’incomprensibile “invasione dei barbari”.