MONDO

La resistenza indigena non si ferma in Colombia: sarà sciopero civico nazionale

Per ventisette giorni consecutivi le popolazioni indigene del Cauca, regione a sud della Colombia, hanno bloccato l’autostrada Panamericana. Ventimila donne, uomini, bambini hanno chiuso l’arteria che scorre lungo tutto il continente, dalla Terra del Fuoco fino all’Alaska, per chiedere migliori condizioni di vita

Si tratta della Minga, parola che nella lingua Nasa significa “camminare la parola”, ovvero praticare il confronto, il dialogo, lo scambio e la presa collettiva di decisioni, ma che si compone anche di orgoglio culturale e resistenza.  È una pratica che viene usata dal 1986 per far si che il governo di Bogotà ascolti le rivendicazioni etniche, lavorative e ambientali dei popoli di questa regione.

Dopo i primi dieci giorni di blocchi stradali, assemblee e resistenza, la protesta ha cominciato a estendersi nel paese, mentre si attendeva l’incontro presso i territori indigeni con il Presidente Duque.

I “mingueros” e le “mingueras” che stavano bloccando l’autostrada lo hanno fatto portando avanti una serie di rivendicazioni specifiche: il riconoscimento dei contadini come soggetti di diritto, il compimento effettivo degli accordi di pace firmati con le FARC, il rispetto della Consulta Preventiva nei territori, sancita dalla Costituzione, prima dell’avvio di grandi opere di sfruttamento ambientale, il rafforzamento delle politiche di protezione dell’ambiente, il compimento degli accordi firmati in passato con lo Stato colombiano, la protezione dei leader sociali e la redazione di un capitolo etnico con un bilancio proprio nel Piano Nazionale per lo Sviluppo (PND).

 

Ma le proteste non erano solo legate a queste rivendicazioni: da parte della Minga c’è stata la volontà politica di sfidare il governo Duque, convocando il presidente a un incontro pubblico, davanti a tutta la comunità indigena, cosa che tutti i suoi predecessori hanno fatto in passato.

 

 

Anche dopo essere arrivati a un accordo tra l’esecutivo e i manifestanti, che doveva essere sancito con un intervento di Duque nel municipio di Caldono martedì scorso, il presidente non si è fatto vedere , alludendo a un presunto pericolo terrorista. La Minga ha raggiunto degli obiettivi parziali, come l’annuncio di un investimento statale di 800 milioni di pesos (equivalenti a 230 000 €) in opere socialmente utili e l’inserzione del capitolo etnico nel PND, ma la mancata presenza del presidente è stata vista come una provocazione.

Durante il dibattito pubblico Duque avrebbe dovuto rendere conto davanti a tutti di una serie di questioni importantissime al centro delle rivendicazioni indigene: l’uso di glifosato, un agente chimico diserbante e cancerogeno usato per sradicare le coltivazioni di coca, e l’avanzata del fracking, pratica decisiva dell’espansione della  frontiera estrattivista, ed infine la questione della protezione dei leader indigeni.

La Minga si aspettava soprattutto una spiegazione rispetto alla repressione brutale (condannata anche dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani) delle proteste avvenuta per mano del ESMAD, la Squadra Mobile Anti Sommossa,  e dei reparti dell’esercito, che ha portato alla morte d’un manifestante di soli 19 anni. Nonostante le mancate promesse da parte del potere, la Minga non si ferma e si riorganizza.

 

Anche se non è previsto al momento un nuovo blocco della Panamericana, indigeni e contadini si preparano al “Paro Civico Nacional”, lo sciopero generale indetto per il 25 Aprile dalla maggioranza delle organizzazioni indigene, afrodiscendenti e sindacali del paese.

 

 

 

Intanto per il governo le cose si fanno sempre più difficili. Arrivato alla presidenza con una bassa popolarità e poca esperienza, Ivan Duque è riuscito a capitalizzare l’antipatia dei suoi concittadini  e lo scherno, così come le critiche dei suoi alleati internazionali. Si fa ormai sempre più evidente il fatto che Duque sia la marionetta di Alvaro Uribe Vélez, l’ex-presidente fortemente colluso con i paramilitari e i narcotrafficanti, tanto che viene chiamato “el sub-presidente”.

La retorica della crisi umanitaria in Venezuela ha fatto si che Duque, pronto a difendere a spada tratta il neoliberalismo, si sia dovuto esporre continuamente a favore dell’opposizione anti-chavista, arrivando a legittimare senza condizioni gli scontri di piazza dell’opposizione con la polizia del paese vicino. L’ipocrisia è evidente dal momento in cui enormi regioni della Colombia non hanno accesso a servizi base come l’acqua, il cibo, la salute. Per fare solo un esempio, nel Dipartimento della Guajira sono morti di malnutrizione all’incirca 4770 bambini negli ultimi otto anni.

Inoltre Duque è molto restio a costruire dibattiti con le parti sociali e preferisce di gran lunga lasciare all’ESMAD, il corpo antisommossa della polizia, il compito di confrontarsi con chi protesta; senza parlare della macchina di delegittimazione e criminalizzazione mediatica usata contro  i movimenti sociali, puntualmente accusati di essere violenti e infiltrati da gruppi guerriglieri.

Nel frattempo l’esecutivo è messo sotto scacco da mesi da una inchiesta di corruzione, l’“Affaire Odebrecht”, che ha avuto risvolti ambigui e drammatici e coinvolge altissime cariche dello stato, come il procuratore generale della nazione, Nestor H. Martinez. Nell’aria aleggia la possibilità che Duque si dimetta per lasciare il posto alla vice presidentessa Marta Lucía Ramírez, da molti considerata l’espressione perfetta del “fascismo creolo”.

 

In questo clima teso, la repressione para-statale si intensifica. Ancora è vivo il ricordo delle nove persone, di cui otto appartenenti alla “Guardia Indigena” e uno studente dell’Università di Cali, dilaniate da una bomba a mano nel municipio di Dagua il 22 marzo scorso mentre si riunivano per coordinare le preparazioni della Minga in quel territorio.

 

 

Una drammatica morte che assomiglia a migliaia di altri, quando attivist* pacifici e disarmati vengo portati via dalla violenza di ignoti che godono di totale impunità. Gli autori, si sa, sono quasi sempre membri di gruppi paramilitari che si riuniscono sotto il nome di “Aguilas Negra” e tengono sotto scacco l’intero paese.

Sono “quelli che fanno il lavoro sporco”, minacciano, assassinano, torturano, puniscono chiunque voglia lottare per i diritti di tutt*; sono lo status quo, perché è così che l’élite colombiana governa il paese fin dalla sua indipendenza, a colpi di assassini selettivi e di massacri. Lavorano nell’ombra ma sono pubblicamente appoggiati (in modo subdolo) da personaggi potenti, che tramite le reti sociali alludono alla necessità d’un massacro per far tornare l’ordine: solo pochi giorni fa Uribe ha twittato messaggi molto ambigui sul fatto che a una protesta violenta l’autorità può rispondere, letteralmente, con un massacro.

La Minga, dove decine di migliaia di persone si sono esposte per rivendicare una vita migliore, ha già denunciato un paio di giorni fa la circolazione nella zona Nord del Cauca di volantini firmati “Aguilas Negras” che promettevano una ricompensa di 100 000 000 di pesos, equivalenti a 28 mila euro,  per la vita d’un consigliere, coordinatore o governatore della Guardia Indigena. Mentre finisco di scrivere questo articolo arriva la notizia che nel municipio di Argelia, Cauca, un minguero di nome Policarpo, appartenente all’organizzazione Marcha Patriotica è stato assassinato con 10 colpi di arma da fuoco .

Tra una base sociale che invoca riscatto, un esecutivo sanguinario, incompetente e la scena internazionale sempre più tesa, la Colombia si appresta a vivere mesi di forte agitazione, che potrebbero avere conseguenze molto ampie e durature.