MONDO

La resistenza è vita: sei anni di occupazione ad Afrin

Nel 2018, la Turchia occupa il cantone di Afrin con l’operazione “Ramoscello D’Ulivo”. Oggi, a distanza di sei anni dal 18 marzo del 2018, Human Rights Watch e Human Rights Organization of Afrin- Syria pubblicano due report in cui denunciano gravi violazioni dei diritti umani e il cambiamento demografico in corso nelle zone occupate

«Quando penso ad Afrin sento ancora le acque dei suoi fiumi scorrere fra le rocce e vedo di nuovo le colline. Se ricordo la mia città, mi tornano in mente gli alberi d’ulivo. Curdi, Ezidi, Arabi, cristiani e mussulmani: tutti eravamo uniti nella fratellanza. Il regime di Assad aveva tentato più volte a cancellare la nostra storia. Non potevamo esprimerci in curdo e il governo siriano aveva trasferito da noi popolazioni arabe originarie di altre regioni. Eppure, insieme, abbiamo costruito una comunità pacifica in grado di accogliere i siriani in fuga dalla guerra da Homs, Dares, Damasco, Idlib. Afrin, la mia città, era un’oasi di pace». Jibrahil Mustafaricorda con nostalgia quando camminava fra le strade di quei luoghi rimasti vivi nella sua memoria. «Ogni tanto Al-Nusra provava a interrompere la quiete, ma dai villaggi le incursioni venivano sempre respinte», aggiunge Mustafa.

Tutto cambia con lo scoppio della guerra civile in Siria

Nel 2012, la guerra civile siriana tutt’ora in corso è già esplosa da un anno. Dal Rojava – regione curda del Paese – le truppe del regime di Bashar-Al-Assad vengono cacciate via mentre germogliano i semi dell’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord e dell’Est (DAANES); una forma di autogoverno fondata sui principi del Confederalismo Democratico. Il più piccolo dei tre cantoni del Rojava, Afrin, vi prende parte.

Nel 2015 la Turchia dichiara di voler fermare l’avanzata dell’ISIS e lancia l’operazione Shah dell’Eufrate. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, però, ha altri obiettivi: occupare la Siria Settentrionale per ripristinare i confini dell’Impero Ottomano disegnati dal patto di Misak-i-Milli e creare una “zona cuscinetto”, definita sicura, in cui collocare 3mln di rifugiati siriani sfollati in Turchia. «Lo Stato turco e i ribelli hanno conquistato Jarabulus, una città sull’Eufrate, sul confine turco- siriano. Non potevano accettare che noi, ad Afrin, ci opponessimo alla loro avanzata», continua Mustafa. L’operazione Scudo dell’Eufrate (2016/2017) è la prima delle operazioni militari che arrivano fino ai nostri giorni, con cui Erdoğan mira a ʺsvuotareʺ il Rojava e a compiere una vera e propria pulizia etnica.  Inoltre, lo Stato Turco vuole annientare le YPJ/YPG (Unità di protezione delle donne/ del popolo che rientrano nelle Syrian Democratic Forces, SDF, all’interno della Coalizione Internazionale), gruppi di difesa equiparati dalla Turchia a una ramificazione delPKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) contro cui porta avanti una lotta decennale. «Afrin è stata presa con il supporto dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA, noto anche come Esercito Siriano Libero), che ha in mano Idlib», ricorda Mustafa.

Il 20 gennaio del 2018 la Turchia e i suoi mercenari jihadisti iniziano a invadere il cantone di Afrin con l’operazione Ramoscello D’Ulivo. «Per 28 giorni i nostri giovani e le donne hanno portato avanti una resistenza storica», esclama Mustafa.

Dopo settimane di dure battaglie, il 18 marzo la città cade sotto il fuoco nemico. «Ho abitato nella mia casa fino al giorno dell’occupazione. Gli attacchi sono avvenuti violando qualunque norma del diritto internazionale. Nel villaggio di Erende, ad esempio, la Turchia ha usato armi chimiche – dice Jibrahil Mustafa –e sono stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità. I Curdi rimasti ad Afrin subiscono rapimenti, estorsioni, stupri. Vengono uccisi». La scorsa settimana, poco prima dell’inizio dei festeggiamenti per il Newruz, a Jinderis, un colono di Idlib ha ucciso un ragazzino di 17 anni gettandolo in un pozzo di 30 metri. La popolazione curda (oggi ridotta al 20% sul 90% del passato) ha protestato contro gli occupanti. Adam Coogle, vicedirettore Medio Oriente per Human Rights Watch (HRW) ha dichiarato che «i funzionari turchi sono responsabili degli abusi commessi sulla popolazione in quanto potenza occupante». HRW ha recentemente pubblicato un report sulle violenze subite soprattutto dalla popolazione curda nelle aree occupate di Afrin, Sere Kaniye e Gîre Spî (altre due città occupate nel 2019 durante l’operazione Primavera di Pace).

Quasi sessanta testimonianze riportano le atrocità commesse da MIT (servizi segreti turchi), paramilitari, funzionari del governo provvisorio siriano (SIG) – a cui fa capo lo SNA – e dello Stato turco.

Le persone sono state arrestate con l’accusa di essere collegate alla DAANES. Una donna ha dichiarato di essere stata violentata più volte da un mercenario siriano e ha cercato di restare in silenzio perché il padre, chiuso in una cella vicina, non capisse cosa stava accadendo. «In un varco lungo Gîre Spî, nel 2023 sono stati deportati forzatamente 1.700 Siriani. «Non si tratta di zone sicure in cui si possa vivere. Non esiste uno stato di diritto e le condizioni socio- economiche non sono favorevoli», si legge ancora nel rapporto. Gli Usa hanno più volte sanzionato lo Stato Turco per il reclutamento dei bambini soldato, in cui è implicata perché supporta i ribelli. Tuttavia niente è cambiato e la Turchia ha recentemente ottenuto nuovi caccia F16 dagli Stati Uniti in cambio del suo appoggio all’entrata della Svezia nella Nato.


Sostituzione etnica: Afrin cambia volto

 
«Decine di sfollati sarebbero arrivati in piazza Azadì, nel centro di Afrin, a bordo di 31 autobus provenienti da altre aree della Siria in guerra», si legge in un report del 2018 firmato sempre da HRW. Un’altra organizzazione con sede in Rojava, invece, Human Rights Organization, AfrinSiriaha pubblicato un dossier sui nuovi insediamenti costruiti nel cantone di Afrin; in cui sono stati collocati centinaia di arabi sunniti.

Dal 2021 fino a oggi sono aumentati gli insediamenti realizzati con il supporto di Kuwait, Fratelli Mussulmani, NGO turche ed internazionali, Qatar.

Tra queste figurano Mezzaluna Rossa Qatar e Qatar Charitably; che a seguito del terremoto del 2023 hanno massicciamente aumentato la propria presenza. La nascita di questi nuovi villaggi sta modificando la demografia e il territorio del cantone di Afrin. L’organizzazione denuncia come villaggi e strade non abbiano più un nome curdo, ma arabo o turco. Yazdina Foundationha riferito che, nel 2019, Kuwait International Charitable Association ha trasferito in un villaggio ezida le vedove di Idlib. La costrzione delle moschee ha suscitato preoccupazione negli Ezidi (vittime del genocidio ISIS nel 2014), scrive ancora il report. «Fonti curde affermano che un altro villaggio ezida, Shah Dair, è stato rinominato Basma. Gli abitanti originari sono costretti a recitare la Shahada».

Già nel 2019, solo nella città di Afrin il 70% della popolazione era araba e turca. «Per le strade ci sono le bandiere turche e sventola il volto di Erdoğan. Le nostre case sono state saccheggiate e date agli occupanti», continua Mustafa.

Come si legge nel dossier reso noto dall’organizzazione curda la valuta siriana è stata sostituita dalla lira turca, mentre le scuole sono state segregate. «Vogliono trasformare Afrin in un deserto. Le olive, per cui la nostra città è famosa, sono state portate a tonnellate in Turchia e rivendute in Europa come se fossero turche. Hanno abbattuto melograni, ulivi, meli. Venduto orzo e grano», denuncia Jibrahil Mustafa. Nel 2018, almeno 300 mila persone sono state costrette ad abbandonare Afrin. A sei anni dall’occupazione del distretto, circa la metà risiede nella DAANES e, come Jibrahil Mustafa, vive all’interno di uno dei cinque sovraffollati campi del cantone di Shahba, a nord di Aleppo. «Qui la vita è dura. Se la Turchia ci attacca, il governo siriano ci ha imposto un embargo che non fa arrivare beni e materie di prima necessità. Il genocidio ci perseguita», continua ancora Mustafa. «Noi non abbassiamo la testa e continuiamo a vivere a qui. Le case sono state danneggiate dalla guerra, ma noi abbiamo la speranza che un giorno ritorneremo nelle nostre case. La resistenza è vita resta il motto che ci accompagnerà fino alla liberazione di Afrin!», conclude l’uomo.

Immagine di copertina di Montecruz Foto via Flickr