La politica della paura

Mentre Obama ammette il fallimento della “War on Terror” e spuntano i “terroristi della porta accanto”, un saggio di Serge Quadruppani mette in relazione “guerra” e “sicurezza” e ci aiuta a leggere gli eventi di questi giorni.

Solo pochi giorni fa, il presidente e comandante -in-capo delle forza armate statunitensi Barack Obama ha parlato alla National Defense University di Washington. Dopo le polemiche sulla mancata chiusura di Guantanamo, chiesta a gran voce dalla maggior parte dell’elettorato democratico e rappresentata con forza dall’appello rivolto al presidente da Bruce Springsteen, lo scandalo delle intercettazioni ai giornalisti dell’Associated Press e la strage di Boston, per la quale sono stati accusati dei cittadini statunintensi di origine cecena, Obama ha ritenuto di dover passare al contrattacco utilizzando la sua arma migliore, quella delle occasioni migliori: il discorso.

Così, l’inquilino della Casa Bianca ha annunciato in circa settemila parole e con la solita vis retorica, nell’ordine: che dopo dieci anni di “guerra al terrore”, gli Stati Uniti non solo non hanno vinto ma hanno perso qualcosa :”Abbiamo compromesso i nostri valori fondamentali – ha detto Obama – utilizzando la tortura per interrogare i nostri nemici, e arrestando persone contro lo stato di diritto”; che il fine (il mantenimento della “sicurezza), non può essere disgiunto dal mezzo: “Dall’uso dei droni alla detenzione di sospetti terroristi – proseguito – le decisioni che stiamo prendendo definiranno il tipo di nazione e il mondo che lasceremo ai nostri figli”; che i nuovi terroristi sono cresciuti dentro casa, non vengono da fuori e che dunque, anche per questo motivo “io non posso, come non può fare nessun altro presidente, promettere la sconfitta totale del terrore”.

“L’America è a un bivio. Dobbiamo definire la natura e la portata di questa lotta, altrimenti sarà essa a definire noi” ha detto ancora Obama, senza far sapere come si concretizzerà questa svolta e cercando di mobilitare l’opinione pubblica tenendo assieme gli allarmismi delle paranoiche securitarie e le preoccupazioni, molto più fondate, per lo stato delle libertà dopo anni di “guerra infinita”.

La connessione tra “sicurezza” e “guerra”, tra polizia globale e attentatori della porta accanto, tra governo dell’emergenza e limitazione dei diritti viene trattata da Serge Quadruppani, scrittore francese e traduttore oltralpe di molti romanzieri italiani, nel saggio “La politica della paura”, pubblicato proprio in questi giorni da Lantana (160 pagine, 15 euro) con l’introduzione di Wu Ming 1.

L’autore spiega con dovizia di esempi e forza narrativa, come le “saghe della libertà” della “Global war on terror” siano deragliate verso lo snuff movie delle torture di Abu Grahib, trovando corrispondenze con il linguaggio corrente il sadomaso da linguaggio della trasgressione che diventa overdose consumistica, sfoggio (più che volontà) di potenza. Così, la metafora, molto apprezzata dall’elettore medio americano, dello “sceriffo” impegnato in un’azione di polizia internazionale lascia il posto alla vergogna nazionale dei soldati che torturano a favore di obiettivo. Il Warfare, per di più, da modello di crescita capitalistica è diventato fattore di crisi.

Quadruppani riporta quanto sostenuto già nel 2010 da Alain Chouet, ex capo del servizio di intelligence francese: Al Qaeda non esiste più da anni. Viene tirata in ballo da chi commette attentati per essere preso sul serio e dagli Stati per avere mano libera e spazzare via l’opposizione. Per Chouet, la violenza jihadista poggia sempre – dal Pakistan all’Egitto, passando per tutto il Nordafrica, l’Afghanistan e il Sahel – su una “logica ternaria”: l’escalation ideologica e finanziaria dell’Arabia Saudita, l’insediamento locale dei Fratelli musulmani e “una forte tendenza della diplomazia e dei ‘servizi’ occidentali, nordamericani in testa, a sostenere nel mondo intero, spesso militarmente, i movimenti politici più reazionali e integralisti sul piano religioso”, per impiegarli come baluardo contro ogni rivoluzione sociale e come forma di contenimento della minaccia iraniana.

Il ragionamento fila, e contempla profeticamente anche quelli che Obama ha chiamato nel suo discorso “homegrown terrorists”, gli attentatori della porta accanto visti in azione a Boston e in Inghilterra e Francia con truculente uccisioni all’arma bianca contro militari di professione. L’azione dei terroristi jihadisti si ispira a “The Turner Diaries”, romanzo scritto da William Luther Pierce che ha influenzato i suprematisti ariani e i fondamentalisti cristiani artefici degli attentati di Atlanta, Oklahoma City e di un numero di azioni individuali “il cui numero delle vittime si avvicina e supera quello dell’11 settembre”. Il libro, che paradossalmente prende le mosse da un classico dell’antitotalitarismo come “Il tallone di ferro” del socialista Jack London, comparve per la prima volta a puntate a metà degli anni Settanta sul periodico neonazista “Attack!”: ogni mese veniva pubblicato un episodio della vita di Turner, militante impegnato a combattere il regime statunitense, descritto come corrotto e controllato da oscure forze ebraiche.

Il terrorista “in sonno” che conduce una vita normale e anonima corrisponde al Lone Wolf dei diari di Turner: agisce individualmente spinto dalla propaganda di un gruppo che si muove nella legalità. Un mostro materializzatosi in Europa con le stragi di Anders Breivik e Gianluca Casseri, al quale non può contrapporsi una repressione indiscriminata. Per Chouet sono necessarie iniziative mirate e soprattutto azioni politiche, sociali ed economiche che prosciughino il brodo di cultura e reclutamento. Al contrario, ragiona Quadruppani, le crociate occidentali e le azioni coi mezzi blindati hanno costruito il circolo vizioso di un nemico che si costruisce combattendolo, di una macchina militare che operando alimenta se stessa e prosciuga gli spazi di confronto e scambio culturale. Il concetto di “sicurezza indefinita”, avverte Quadruppani, esprime il “mal d’essere dei dominanti” e della loro civiltà “che non smette di ricadere su di noi sotto forma di cadaveri”.

Si arriva in Europa col caso francese, che ricorda da vicino l’ossessione securitaria bipartisan (anzi, tripartisan, investe decisamente anche il Movimento 5 Stelle) italica. L’autore spiega come Sarkozy, come Bush, abbia favorito gli interessi delle oligarchie e contemporaneamente cercato il consenso popolare grazie ai temi della sicurezza: in otto anni, tra il 2002 e il 2010, con Sarkozy prima ministro dell’interno e poi presidente, in Francia sono state votate 17 leggi sulla “sicurezza”. Viene in mente la frase di Gianni Alemanno, che appena eletto sindaco di Roma ad una riunione del vertice di Alleanza Nazionale annunciò: “Abbiamo l’argomento giusto per contendere alla sinistra il radicamento sociale: la sicurezza”, disse più o meno l’allora trionfante postfascista.

Quadruppani conclude richiamando l’esigenza di inceppare la macchina bellica e securitaria, avvertendo però del fatto che “la sovversione non è la guerra”, e dunque invitando a sfuggire dalle categorie della guerra e dalle parti in campo. La soluzione, si legge nelle ultime pagine, sta nella capacità di ingaggiare lotte che prevedano anche la costituizione di forme di vita e di condivisione.