ITALIA

La pacchia è finita. Sacko, 29 anni, fucilato nella Piana degli invisibili

Come vivono e lavorano i braccianti della Piana di Gioia Tauro? Una ricostruzione del contesto dell’esecuzione a sangue freddo di Sacko Soumaila, 29 anni

Due, tre, quattro colpi di arma da fuoco squarciano il silenzio in cui è avvolta la campagna di San Calogero, vicino Vibo Valentia. A poca distanza dalla Statale18, che scorre veloce fra gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro, c’è la vecchia fornace di contrada Tranquilla. Lo scorso sabato sera tre giovani africani, a piedi, arrivano qui dalla loro “casa”- il ghetto di San Ferdinando- in cerca di alcune lamiere per costruire una baracca. Dopo l’incendio dello scorso gennaio, quando a perdere la vita nel rogo fu una ragazza nigeriana di 26 anni, Becky Moses, si cerca di evitare la plastica.

Due, tre, quattro spari vengono esplosi da un uomo bianco a bordo di una fiat panda. Uno dei tre resta illeso e scappa a dare l’allarme non appena vede il suo amico ferito e il terzo steso a terra. Immobile. È Sacko Soumaila, 29 anni. Colpito alla testa da una delle fucilate, morirà all’ospedale di Reggio Calabria qualche ora più tardi. L’assassino, forse appostato a fare da guardiano a un’area posta sotto sequestro su cui tempo fa vennero rivenute diverse tonnellate di rifiuti tossici (qui la ricostruzione della vicenda), sparisce.

In Mali, il suo Paese di origine, Soumaila lascia la compagna e una bimba di 5 anni. «Soumaila Sacko era un militante dell’USB ed era un bracciante agricolo della Piana di Rosarno/Gioia Tauro» – si legge nel comunicato diffuso dall’associazione SoS Rosarno, da sempre al fianco dei migranti della Piana – «terra delle buonissime clementine I.G.P. di Calabria, fiore all’occhiello del nostro Made in Italy, che il nuovo governo, al pari di quelli che lo hanno preceduto, preannuncia di voler difendere e a cui noi, invece, chiediamo esplicitamente di impedire che continui a essere macchiato con il sangue delle migliaia di braccianti che raccolgono la frutta. Sicuramente, per Sacko è finita la “pacchia” di cui parla il neo- Ministro all’Interno Salvini. La pacchia di vivere in una baraccopoli».

Sacko non era un ladro. Una lamiera non vale una vita e, forse, se il suo colore della pelle non fosse stato nero, chi ha sparato lo avrebbe fatto puntando il fucile in aria. «Soumaila è l’ennesima tragedia annunciata, vittima di politiche che trasudano razzismo e discriminazione verso i migranti e che hanno sdoganato le pulsioni più violente e bestiali dell’essere umano. Politiche che non sono di oggi, né di ieri, ma affondano le loro radici indietro nel tempo, con le varie leggi Turco- Napolitiano e Bossi- Fini. Politiche di cui sono responsabili anche quelli che oggi si stracciano le vesti e accusano di razzismo i nuovi arrivati, a cui invece hanno preparato quel terreno fertile nel quale oggi sguazzano», si legge ancora nel documento che ha convocato la manifestazione che ieri, davanti al comune di San Ferdinando, ha portato in piazza centinaia di migranti. “Verità e giustizia” per un fratello ammazzato e una soluzione abitativa dignitosa per le 4mila persone impegnate ogni anno nella raccolta degli agrumi, di olive e dei kiwi su tutto il territorio della Piana.

Qual è la “pacchia” di un migrante? Mentre il giovane maliano andava incontro alla morte, il nuovo Ministro dell’interno Matteo Salvini dichiarava di voler “tagliare” i fondi per l’accoglienza e l’integrazione. In un altro video circolato negli ultimi giorni e girato a Catanzaro, dove la Lega Nord alle ultime elezioni ha ottenuto il 6% delle preferenze e due seggi (il 13,81% Salvini lo ha avuto solo a Rosarno), il Ministro definiva Mimmo Lucano, sindaco di Riace, “uno zero”. Lo “zero”, però, la nullità, è il feroce attacco sferrato al modello Riace e a tutte le realtà impegnate a costruire un’Italia, una Calabria solidale, diversa. “Zero”, purtroppo, è chi ignora le pessime condizioni di vita e di lavoro a cui i braccianti sono costretti nelle nostre campagne e, a fini propagandistici, ha trasformato i migranti in un “capro espiatorio” per i problemi economici e sociali che da anni attanagliano lo Stivale. Da Nord a Sud.

Nella Piana degli invisibili

Dopo la rivolta di Rosarno del 2010 la Regione Calabria, insieme ad altri enti e istituzioni, ha costruito una “tendoopoli” nell’area industriale di San Ferdinando, a qualche chilometro da Rosarno. «È una situazione transitoria», dichiareranno più volte i vari prefetti, sindaci e Presidenti della Regione intervistati. A distanza di quattro anni dall’impianto delle prime tende, il ghetto si è disfatto e riformato per ben quattro volte.

Durante la stagione delle arance, qui dentro vivono almeno 2.500 persone, mentre altri braccianti risiedono in casolari, spesso fatiscenti, abbandonati intorno alle campagne di Taurianova e Gioia Tauro. Nella baraccopoli ci sono dei bazar e una moschea. Non esiste la corrente elettrica e non c’è acqua. Con alcuni generatori si cerca di avere l’elettricità e l’acqua, presa dall’esterno, viene conservata dentro i silos. Durante le fredde giornate invernali, specie nelle ore notturne, i migranti cercano di scaldarsi usando dei bracieri. Capita, però, come oltre ai corti circuiti, le braci possano essere dimenticate e così quei ripari in legno e plastica prendano fuoco.

Come è accaduto lo scorso 26 gennaio, quando da una delle tende del “lato dei Nigeriani” è divampato un rogo che ha distrutto mezzo ghetto. Una ragazza è deceduta e solo la scorsa settimana, quello “zero” di Mimmo Lucano ha reso possibile il funerale e il rimpatrio in Nigeria. Per gli altri sopravvissuti senza un tetto, invece, sempre in “stile emergenziale”, la Protezione Civile ha montato una cinquantina di tende fra la baraccopoli e il perimetro su cui dal mese di agosto del 2017 è stata attivata la nuova tendopoli. 550 tendoni video-sorvegliati e in cui è possibile accedere solo tramite badge, con un orario di entrata e di uscita. Sebbene all’interno del nuovo campo non ci sia spazzatura e siano presenti i servizi igienici, la luce e l’acqua, non è sicuramente un “sistema di accoglienza” dignitoso. E resta soprattutto una domanda aperta. Quando i fondi per la gestione della tendopoli finiranno, sarà la volta dell’ennesimo ghetto? Che fine faranno i migranti e le migranti che attualmente vi risiedono? Nel mese di febbraio del 2016 associazioni, enti e istituzioni siglarono un Protocollo in cui la tendopoli veniva indicata come “soluzione temporanea” (l’ennesima) a cui poi sarebbe dovuto seguire un “piano casa”. A distanza di due anni, non c’è traccia di alcun progetto di accoglienza diffusa (eccetto l’esperienza di Drosi, nata nel comune di Rizziconi otto anni fa).

Non è sicuramente questo l’hotel a 5 stelle di cui parlano i razzisti di casa nostra. Il ghetto e la nuova tendopoli, insieme alle altre decine di insediamenti informali sparsi nelle zone limitrofe a Gioia Tauro e Rosarno, si collocano in punti molto distanti dai centri abitati. Luoghi da raggiungere percorrendo strade dissestate e non illuminate, attraversate giorno e notte dai braccianti che raggiungono i campi in sella a bici senza luci o a piedi. A otto anni dalle giornate di protesta che infuocarono quel mese di gennaio del 2010, quasi nulla è cambiato. C’è ancora chi gioca al tiro al bersaglio investendo con le auto i migranti o prendendoli a bastonate. E, soprattutto, in mezzo agli alberi di arance e mandarini si continua a essere sfruttati.

La pacchia di un bracciante africano

Secondo l’ultimo rapporto di Medu (Medici per i Diritti Umani), associazione presente sul territorio calabrese con il progetto “Terragiusta”, la paga di un bracciante può essere a cottimo o a giornata. Nel primo caso, un migrante non guadagna più di tre euro all’ora: la cassetta di mandarini viene pagata un euro; quella di arance 0,50 centesimi. Nella seconda ipotesi, invece, il guadagno giornaliero ammonta sui 25 euro o poco più. Nei campi si lavora dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio: 9 ore. L’orario di lavoro previsto dalla CCNL Operai Agricoli e Florovivaisti, invece, è stabilito a 6 ore e mezza al dì. Nonostante il 92,65% dei lavoratori sia titolare di un regolare permesso di soggiorno (il 45% ha un permesso per motivi umanitari e il restante 41,4% è richiedente asilo), meno di 3 persone su 10 lavorano con un contratto (27,82%).

Circa l’88,24% non vede dichiarate dal datore di lavoro tutte le giornate lavorative effettivamente svolte. Oltre il 63% dei braccianti non conosce la possibilità di ottenere una disoccupazione agricola, percepita solo dall’1,23% delle persone intervistate da Medu. Il Commissario straordinario Polichetti ha fornito dei dati che evidenziano in modo chiaro il fenomeno dello sfruttamento lavorativo, facilitato dall’emarginazione sociale a cui i migranti sono costretti vivendo nei ghetti. Ossia: su 21 mila contratti di lavoro stipulati nel 2017, solo 5mila risultano essere stati rilasciati a lavoratori stranieri. Eppure, in mezzo agli aranceti si vedono solo delle braccia nere raccogliere i frutti dai rami.

A questo drammatico quadro, poi, si aggiungono le difficoltà legate all’assistenza sanitaria e agli ostacoli da superare per ottenere i documenti necessari per vivere serenamente sul territorio italiano e piantati dalla complicata burocrazia italiana ed europea.

Trattare la “questione migranti” come un’emergenza significa impedire a questi lavoratori di poter vivere in una casa, significa produrre il clima sociale in cui rischiano continuamente la propria vita, significa rappresentarli come soggetti pericolosi per emarginarli e sfruttarli meglio. In questa situazione, epidosi terribili come quello dell’atro giorno non smetteranno di ripetersi. Quanti Sacko e Becky dovremo ancora veder morire?