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La Metropoli al tramonto

“II tramonto della città. La metropoli globale tra nuovi modelli produttivi e crisi della cittadinanza” di Alessandro Barile, Luca Raffini e Luca Altieri (Derive Approdi)” offre delle chiavi di lettura per comprendere l’attuale crisi della città: tra sfruttamento e diseguaglianza, informatizzazione dei flussi e mobilità, ecco come sono cambiate le città che abitiamo

Città vetrina, città-ghetto, città polverizzata, città duale, o Anti-città. Sono alcune delle facce della città odierna indagate nel libro Il tramonto della città. La metropoli globale tra nuovo modelli produttivi e crisi della cittadinanza, di Alessandro Barile, Luca Raffini e Luca Altieri, edito da Derive Approdi. Di città oggi si parla e scrive molto nel tentativo di fare i conti con il «vuoto di identificazione» prodotto da uno scenario economico in trasformazione in cui è il senso politico della città a stravolgersi, «lasciandoci in dote un mutamento che non riusciamo a definire con adeguata precisone, ma che percepiamo nella sua “dissolvenza”, nella sua transizione da qualcosa di definito a qualcosa che non lo è ancora». In una domanda, da cui il volume prende le mosse: «dove è andato a situarsi il poterein una società raccontata sempre più come reticolare e policentrica?».

Il libro traccia il quadro del mutamento delle città rivelandone le dimensioni strutturali, storiche e spaziali, indagando le ricadute materiali dei processi produttivi e cogliendo in anticipo, rispetto al loro esplodere con gli eventi globali più recenti, i conflitti e le fratture – sociali, politiche, morfologiche – al cuore della conformazione e della trasformazione urbana oggi. Come si intrecciano e cosa producono i processi che avvengono su altra scala e senza sede, quando toccano terra? Qual è il ruolo della città in un’economia che si dematerializza? Come si abita la città e come cambia il potere politico?

Una prima chiave di lettura contribuisce a chiarire la crisi che investe le città. La città ha sostituito lo Stato nazionale come spazio di valorizzazione del capitale globalizzato: è essa stessa spazio globale. «Le città – in prima luogo proprio quelle definite “globali” – sono soggette a un potere sovranazionale che dispone lo spazio economico di riferimento, ma le politiche urbane condotte da istituzioni e amministrazioni restano saldamente ancorate al territorio locale». Il grande pregio del libro sta nel rimettere in fila gli elementi fondanti di una interpretazione del presente e dei discorsi sul presente, discorsi che interrogano la perdita di sovranità, l’uso e la funzione dello spazio urbano, pubblico e privato, in relazione a categorie di soggetti – nel tentativo di superare lo spaesamento, o per piegare la narrazione a fini demagogici.

 

 

Il divario tra potere economico e politica è alla base delle contraddizioni che esplodono nel dibattito sulla città. Queste contraddizioni sono storicamente radicate. Le politiche neoliberiste in materia fiscale hanno prodotto un cortocircuito assegnando più poteri ma meno fondi statali agli enti locali, che non riescono a finanziare le funzioni fondamentali attribuite. Qualche dato: «Dal 1994 al 2004 in Italia le città vedono affluire circa tre miliardi di euro in meno nei propri bilanci comunali». Di fatto «i soldi a disposizione per gestire le città si sono dimezzati, e questo in presenza di una tassazione locale che progressivamente si andava incrementando proprio per fronteggiare le inevitabili difficoltà di bilancio». Il caso romano è paradigmatico: «nel triennio 2013-2015 i fondi per la Capitale sono passati da 1.158 miliardi a 932 milioni di euro. Quasi 200 milioni di euro in meno che diventano 400 milioni se l’anno di partenza diventa il 2011». Dunque nel giro di sei anni, a partire proprio dall’anno in cui la crisi si è manifestata in Italia in tutta la sua gravità, i trasferimenti alla Capitale sono stati dimezzati mentre l’Irpef aumentava al livello più alto d’Italia, lo 0,9% del reddito. È in questo scenario che si coglie il cambio di paradigma del modello di sviluppo urbano, passato «dalla centralità quasi esclusiva dei trasferimenti statali ad un modello gestionale fondato sulla città come impresa, volta a intercettare quelle risorse alla propria sopravvivenza», scrive Alessandro Barile. La parola d’ordine è «valorizzazione». Si punta sul mattone, sul turismo, sui grandi eventi, destinando risorse economiche all’inseguimento di quei flussi dell’economia globalizzata privati e de-territorializzati (e dunque liberi da vincoli politici), su quelle strategie di crescita economica che estraggono valore dalla città ma che, venuta meno la funzione pianificatrice dell’urbanistica, producono una geografia della diseguaglianza. È la città duale: da una parte la città a misura di turista, dall’altra quella delle periferie dis-urbanizzate e de-industrializzate, dove abita la manodopera dequalificata che lavora nella città turistica, da «rigenerare» per progetti.

Nella città degli esclusi dai flussi del capitale, svuotata di sovranità democratica, periferica e marginale, alle relazioni produttive sempre più disperse e polverizzate corrisponde l’ascesa di populismi reazionari e un mutamento degli orientamenti valoriali. «Il peggioramento delle condizioni di vita di una quota maggioritaria della popolazione, in un contesto di crescente polarizzazione, inverte il trend di mutamento valoriale e politico. Dopo decenni in cui, seppur attraversando crisi e momenti di incertezza, vi è stata la convinzione che i figli avrebbero goduto di livelli di benessere almeno pari a quella dei loro genitori, il venire meno di questa certezza ha contribuito a modificare gli orientamenti valoriali. Il diffuso senso di insicurezza esistenziale conduce a un “riflesso autoritario” che porta a ridurre l’enfasi sui valori postmaterialisti e a riportare al centro i valori materialisti» scrive Luca Raffini. È anche la crisi della sinistra, che ha abdicato a proteggere e garantire i diritti sociali dei ceti popolari e ha invece abbracciato le istanze, economiche e culturali, dell’élite cosmopolita. «Dei privilegiati. Di chi si trova a suo agio nella globalizzazione neoliberista, e che coltiva la speranza (spesso l’illusione), di trarne beneficio».

 

 

La chiave di lettura privilegiata per leggere i conflitti odierni risulta di grande efficacia: è sul tema della mobilità, intesa tanto in senso spaziale quanto sociale, che si gioca la contesa per la città, «intendendo con la prima la capacità di spostarsi nel territorio, sia all’interno della città, sia a livello nazionale e transnazionale e con la seconda il miglioramento (o peggioramento) della propria condizione sociale. Considerando che, nella storia della modernità̀, la prima ha rappresentato una possibile risorsa ai fini del raggiungimento della seconda. Le diseguaglianze e i conflitti che hanno come palcoscenico le città globali sono in larga parte, anche, conflitti sulla mobilità. La città, in quanto teatro privilegiati dei flussi, diventa un terreno di incontro e scontro, di intersecazione e di “evitamento” tra i diversi flussi e chi ne è protagonista. La mobilità spaziale assume il ruolo di vero e proprio marker di stile di vita, da parte di una quota minoritaria della popolazione». A partire dall’analisi della mobilità vissuta come lusso o come vincolo, come opportunità o come privazione, si può tracciare una precisa geografia dei conflitti sociali, dove «la posta in gioco è la città» e «chi ha diritto alla città».

C’è «la città delle moltitudini, che la mattina e la sera affollano bus, metro e treni per raggiungere il luogo di lavoro», e c’è la città dei city-users, degli alberghi e degli Airbnb, dei centri direzionali e dell’offerta culturalea uso dei turisti, quella dove lavorano i pendolari che non vi abitano. «Mai come oggi le forme della mobilità – e dell’immobilità – spaziale sono associate alla mobilità/immobilità sociale. La società̀ globale delle reti e dei flussi, in cui i flussi sostituiscono i confini, nel modellare le relazioni sociali e le relazioni di potere, non è una società̀ più egualitaria. Al contrario, è una società che, dietro la celebrazione dell’orizzontalità, della libertà e del movimento, vede l’affermazione di nuove, ancor più radicali, forme di diseguaglianza».

Se i flussi economici scavalcano i confini e le tassazioni nazionali (pensiamo all’economia delle piattaforme digitali), lo spazio fisico è ancora il loro punto di atterraggio. È allora il capitale a decidere la forma delle città. Quale ruolo può avere ancora l’urbanistica? «L’urbanistica diviene pericolosa quando – perdendo il necessario ancoraggio con il welfare – abdica la funzione di ammortizzare le ricadute sociali del modello di sviluppo capitalista, perde totalmente di vista il principio per cui “la città è la gente”e si concentra esclusivamente sulla “città di pietra” (immobili, infrastrutture, servizi)» scrive Luca Altieri. L’urbanistica «tradisce la sua missione, in quanto rinuncia al ruolo per il quale è nata, vale a dire accorciare “lo scarto grande” tra le forme urbane, stratificate nel tempo, e le comunità viventi» quando si limita a registrare «l’uso capitalistico del territorio, fondato sull’estrazione del plusvalore» e del valore generato anche da chi lo abita e lo anima con la produzione di linguaggi culturali e simbolici di cui il mercato inevitabilmente si appropria.

Se la città ha sostituito la fabbrica come “luogo di sfruttamento”, questo è avvenuto parallelamente alla mistificazione del concetto di classe, con l’introduzione di dispositivi retorici che giustificano la marginalità come esito non tanto dei processi che investono il lavoro e la città, ma del venir meno di non meglio specificati parametri di “civismo” applicati ai comportamenti individuali. Di qui le retoriche del decoro e della sicurezza, quanto dell’innovazione e della tecnologia che correggerebbe, in un’ottica di “delega tecnocratica”, i mali della città. L’effetto è la conservazione politica: «desideri decifrabili, accettabili e compatibili – rispetto alle leggi e alle convenienze del mercato – a conferma di come un’etica priva di contenuti diventa mera estetica». E poiché la disuguaglianza nulla ha a che vedere con l’estetica, il futuro della metropoli dipenderà dalla nostra capacità di smontare queste narrazioni attraverso l’esame delle cause strutturali del loro declino, operazione più che riuscita nel libro in questione, quanto dalla capacità degli esclusi di sfuggire a queste narrazioni e costruire percorsi di libertà.